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Non so fischiare.
So fischiettare, male, canzoni e canzonette, ma fischiare con o senza dita in bocca proprio no.
In questi anni di onesta militanza da tifoso, devo ammettere che mi sarebbe piaciuto imparare, perché nella vita non si sa mai cosa ti riserva il futuro e quindi ti potrebbe tornare utile anche imparare un gesto così popolare e allo stesso tempo complicato.
Metti che sei in curva e ti arriva un biondo qualunque, uno che aveva giurato amore eterno ai tuoi colori, proprio sotto la Maratona, proprio al termine di una finale playoff…: cosa fai? Ti fai trovare impreparato?
Ché poi, io posso anche non fischiarti, ma tu potresti, cortesemente non giurare sulle tue cose più care che questa maglia, questi colori, questo pubblico…perché poi la gente certe cose le ricorda e non è per niente contenta.
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Edoardo de Filippo, in un celebre episodio de L’oro di Napoli, interrogato sulla necessità di intervenire contro le angherie di un ricco nobile, rispose seraficamente e partenopeamente: “Bisogna fargli il pernacchio.”
C’è pernacchio e pernacchio. Anzi, vi posso dire che il vero pernacchio non esiste più. Quello attuale, corrente… quello si chiama pernacchia. Sì, ma è una cosa volgare, brutta! Ma il pernacchio classico è un’arte. […] Il pernacchio può essere di due specie: di testa e di petto. Nel caso nostro, li dobbiamo fondere: deve essere di testa e di petto, cioè di cervello e passione. Insomma, il pernacchio che facciamo a questo signore deve significare: tu sì ‘a schifezza ra schifezza ra schiefezza ra schifezza ‘e l’uommene!
Mi spiego?
Il fischio da stadio è assolutamente paragonabile al pernacchio citato da Eduardo.
Generalmente parte dal cuore, perché è un sentimento, non positivo, ma pur sempre un sentimento.
Molto spesso è di testa ma è totalmente obnubilato e accecato dall’irrazionalità del tifo.
Può essere un fischio di paura, impulsivo, dettato dalla necessità di colpire l’avversario più temuto.
Oppure, il fischio, anzi, il mare di fischi è atteso come un concerto, un coro, un ensamble, preparato nei minimi particolari, sin dal momento in cui saprai che quell’avversario arriverà nel tuo stadio.
Se poi quell’avversario è un calciatore che fino a qualche giorno prima era indeciso se scegliere la tua squadra del cuore o la tua prossima avversaria, ecco che il pretesto per introdurre il recupero della ventunesima giornata di campionato è servito: oggi parliamo di Rolando Bianchi, della sua follia, del mare di fischi che lo accolsero e di uno scialbo Toro-Lazio 0-0 in una fredda domenica di gennaio del 2008.
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Mercato di riparazione.
Il Toro alla ricerca di un attaccante che possa garantire qualche gol pesante, prova a sondare il terreno per Rolando Bianchi, ex Reggina, autore di una stagione clamorosa in Calabria sotto la guida di Walter Mazzarri (18 gol in 37 partite), contribuendo alla salvezza del club amaranto nonostante una forte penalizzazione.
La Reggina lo vende al Manchester City e Bianchi dopo un inizio promettente viene messo sul mercato.
A questo punto si scatena un duello tra Toro e Lazio, con il club di Lotito disposto a tutto per accaparrarsi i servigi del bomber bergamasco.
Il Toro si iscrive alla corsa.
Sono i soliti giorni di mercato, estenuanti, infiniti, nervosi, imprevedibili e, ironia della sorte, la prossima partita di campionato sarà proprio Toro-Lazio.
Bianchi tentenna ma se il Toro ha l’appeal di un’automobile malandata, la Lazio, almeno apparentemente è una fuoriserie che può garantire prestazioni di un certo livello.
E Bianchi sceglie la sponda biancoceleste di Roma, Lotito e Delio Rossi, in una squadra in cui spiccano un giovane Kolarov, l’esperienza del bomber di provincia Rocchi e altri giocatori di categoria quali Ledesma, Pandev e Mauri.
La Lazio ha giocato i gironi di Champions, il Toro naviga in acque agitate e Novellino non riesce a far decollare la squadra.
Recoba è un fine dicitore ma è oramai sul viale del tramonto, nonostante sia stato accolto come un Messia.
La squadra è spuntata: Bjelanovic non segna nemmeno con le mani, Stellone e Ventola non hanno mai avuto grandi numeri, mentre Rosina e Di Michele che hanno nei piedi la cifra tecnica per risolvere le partite, dialogano poco e male, risultando dannosi più che virtuosi.
Ogni tanto, dopo aver mangiato molto e bevuto altrettanto, nei miei incubi più cupi e inconfessabili, sogno Di Michele e Rosina che, durante un Toro-Roma (0-0) invece di realizzare un gol in modalità Gemelli Derrick, si ostacolano vicendevolmente buttando il pallone sul fondo da due passi.
E’ una roba che mi perseguita da anni, lo so.
Prometto che prima o poi ne parlerò con il mio analista che a sua volta è in analisi dopo il palo di Verdi a porta vuota, contro la Lazio, ma questa è un’altra storia.
Ndr. Ah, visto che siamo in tema Lazio, e che questa partita ultimamente è un insieme pieno di storie incredibili, vi ricordo che in una edizione di qualche anno fa, Acerbi ha segnato da quaranta metri, mettendo la palla all’incrocio dei pali.
Torniamo a noi.
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La partita è difficile anche per via di una direzione di gara sballata da parte di Rizzoli che ha scelto di arbitrare con i cartellini, ovvero in maniera autoritaria e non autorevole.
Quindi prima si lamenta il Toro per la doppia ammonizione che costa il rosso a Barone, con un secondo giallo molto fiscale proprio sul finire del primo tempo.
Nella prima frazione è stato il Toro ad avere qualche chance (Stellone sfiora l’Eurogol, Ballotta salva), mentre nel secondo tempo la Lazio prova ad occupare gli spazi e si spinge in avanti con più pericolosità.
Prima Mudingayi, poi Kolarov da fuori e infine Pandev di testa sono più di un campanello d’allarme per la porta di Sereni.
Ma nel momento migliore della Lazio, succede il patatrac.
Dello Rossi richiama Rocchi e inserisce Bianchi, una punta per una punta, il canovaccio non cambia.
Lo stadio diventa una bolgia.
Bianchi entra in campo e sembra una corrida.
La gente non gli ha perdonato di aver scelto la Lazio e ad ogni tocco di palla, lo ricopre di fischi.
Stanno per iniziare cinque minuti che raramente si dimenticano.
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Il Toro esce palla al piede dalla difesa. Lazetic parte in fascia e Bianchi con un intervento folle, lo stende.
Non c’è palla, non c’è contrasto, Bianchi va dritto sull’uomo.
Nel 2008 il Var è ancora un desiderio e Rizzoli, inspiegabilmente, estrae un giallo che ha parecchie sfumature di arancione che virano sul rosso.
Di Loreto prova a farsi giustizia, Bianchi sembra in uno stato di trance agonistica: è un miracolo che sia ancora in campo.
Forse Delio Rossi si è pentito di aver inserito il Bergamasco, forse sarebbe il caso di toglierlo prima che sia troppo tardi.
Non passano che tre minuti. Tamburello aereo, palla che arriva dalle parti di Paolo Zanetti e Bianchi che saltano di testa.
Il centravanti apre un po’ l’alettone e colpisce lievemente Zanetti.
Il centrocampista granata, coglie l’occasione, non si fa pregare e va giù come un sacco vuoto.
Niente di eclatante se non fosse che del fallo precedente di Bianchi, si possano ancora vedere i tacchetti sulla gamba di Lazetic.
A Rizzoli non pare vero di poter aggiustare il tiro rispetto alla scelta sbagliata di pochi istanti prima.
Bianchi è incredulo mentre gli viene sventolato in faccia il rosso, si porta le mani al volto e i tifosi del Toro continuano nel Concerto per fischi e ululati n. 1 in vaffa maggiore: un successo indimenticabile.
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Prima della fine del match, da segnalare, un Mudingayi a valanga su Rosina in area, per un niente di fatto che in epoca VAR avrebbe decretato un sacrosanto rigore, una paratona di Ballotta su Natali e una traversa di Bjelanovic per uno 0-0 tutto sommato giusto per quanto visto in campo.
Riassumendo, un rosso e un palo a testa, i fischi per Bianchi.
Doveva essere la partita di Bianchi e lo è stata, anche se in negativo, in uno stadio che qualche mese dopo lo riaccoglierà, novello figliol prodigo.
Quando Bianchi, ad agosto, tornerà al Toro riuscirà in breve tempo a conquistare tutti e a tramutare quei fischi in applausi.
Capitano da 77 reti in 180 presenze tra A e B, animato da sangue granata, Bianchi sarà uno dei calciatori più amati del recente passato.
Ma quella domenica del gennaio 2008 con i fischi fu il preludio ad una magnifica storia d’amore.
Da un mare di fischi, ad un oceano d'amore, il passo fu breve.
Ad un anno campione d’Italia, cresciuto a pane e racconti di Invincibili e Tremendisti. Laureato in storia del Cinema, innamorato di Caterina e Francesco, sposato con il Toro. Ho vissuto Bilbao e Licata e così, su due piedi, rivivrei volentieri solo la prima. Se rinascessi vorrei la voleé di McEnroe, il cappotto di Bogart e la fantasia di Ljajic. Ché non si sa mai.
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