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Un saluto all’Italia e al grande Mennea, dalla lontana Polonia

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Approfittando delle vicine vacanze pasquali e perché no, della sosta del campionato, il Saldatore ha colto l’occasione per volare in Polonia, terra d’origine della moglie. Domenica nel bel mezzo di una copiosa nevicata,...
Beppe Pagliano

Approfittando delle vicine vacanze pasquali e perché no, della sosta del campionato, il Saldatore ha colto l’occasione per volare in Polonia, terra d’origine della moglie. Domenica nel bel mezzo di una copiosa nevicata, nonostante il calendario indichi la data del 24 marzo, non c’era nulla di meglio da fare che rimanere incollati al televisore. Ho avuto così modo di vedere un ricordo di Pietro Mennea che ci ha lasciati da pochi giorni. A ricordare l’ex primatista mondiale dei 200 metri era presente un cuore granata per eccellenza, vale a dire Franco Ossola, il quale per chi non lo sapesse, è stato un velocista di tutto rispetto, tanto che nei primi anni ’70 stabili in squadra con Mennea il record mondiale della staffetta 4x200 metri. Come ho già raccontato più volte pure io ho praticato l’atletica leggera in gioventù, purtroppo per me, con risultati mediocri. Ricordo come per noi giovani atleti Pietro Mennea fosse un esempio da seguire. Il velocista pugliese, infatti, nonostante un fisico mingherlino ed assolutamente non adatto alle corse di velocità, riuscì grazie ad una forza di volontà non comune ed ad una determinazione ferrea a raggiungere risultati straordinari. Riuscì a dimostrare che nulla è impossibile, al limite esiste qualcosa di improbabile, ma con la forza di volontà, il sacrificio, la grinta e soprattutto il cuore nessun risultato è irraggiungibile. Sono tornato indietro nel tempo e mi sono rivisto quattordicenne davanti alla televisione intento a sospingere il velocista barlettano alla rincorsa del britannico Wells, accompagnato dalla telecronaca di Paolo Rosi, il quale ripeteva sempre più forte il nome Mennea fino a quando il nostro atleta non tagliò il filo di lana diventando così campione olimpico. Tra poco più di un mese i giocatori in maglia granata saranno chiamati a giocare il derby di ritorno, dovranno assolutamente riscattare la prestazione dell’andata quando furono travolti dagli avversari, soprattutto a causa di un cattivo approccio mentale. Vorrei che i nostri giocatori  in quella occasione riuscissero a gettare in campo, quel qualcosa in più. Quel qualcosa che mentre stai disputando una gara ti viene da dentro e che fa sì che una prestazione sportiva possa diventare la metafora della vita, quando certe regole possono essere ribaltate. A tale proposito riporto un brano del libro ''Le corse non finiscono mai'' scritto dallo stesso Mennea nel quale  ricorda la finale Olimpica dei 200 metri a Mosca  nel 1980: ''Pietro Mennea, Italia. Eccomi, alzo un braccio, buonasera a tutti, cala il silenzio.  Al colpo di pistola Wells è il più veloce a mettersi in moto, mi è subito addosso e a metà della curva è già davanti, a sinistra, in fondo, come una macchia scura gli altri, indemoniati, in un angolo della punta del mio occhio si materializza la furia di Leonard.  All’uscita in rettilineo lo scozzese mi è davanti di tre metri e sembra ancora in grado di accelerare, sono penultimo. Faccio in tempo a pensare che devo reagire perché quella è l’ultima occasione per la vittoria olimpica. Riparto. Letteralmente: riparto. E avverto crescere dentro uno stimolo che non avevo mai sentito, l’impressione che dodici anni di allenamenti, dolori, paure, felicità, sfide siano per essere risucchiati dal vortice di pochi secondi, inghiottiti, annullati. Comincio col rimontare Voronin, mancano ottanta metri, Nonetcky poi Hoff e Leonard che ha esaurito la spinta, restano cinquanta metri, dalla visuale sparisce dietro anche Quarrie. Trenta metri alla fine, davanti c’è solo Wells ancora in testa quando passiamo dagli ultimi venti metri, sento davvero le gambe, i piedi mordere la pista, spingo con i muscoli e con tutta la volontà che ho. Cerco l’impulso dei tendini nel contatto delle scarpe con il manto, faccio esplodere di reattività la caviglia che fa del piede un piccolo potente remo che spinge avanti. Wells avverte il mio rientro, lo intuisce anche dal gridare del pubblico che si impenna di volume. Cerca di rintuzzare l’attacco stringendo i denti, ma ha già l’assetto di corsa rialzato.  Tre passi ancora: gli sono a fianco. Intuisco il suo profilo e l’asse delle spalle quasi in linea con le mie. Due passi: siamo pari. Un appoggio: è dietro! Le braccia quasi da sole mi scattano in alto che ancora non ho oltrepassato il traguardo. E’ finita! Alzai il famoso ditino della mano destra verso il pubblico, un uomo dell’organizzazione mi porse una bottiglietta di aranciata, senza pensarci su, me la rovesciai in testa e cominciai il giro d’onore''.   Addio grande Pietro!   Beppe Pagliano    

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