Kubala


LASCIARCI LE PENNE
Uomini nell’alba della vita
Joan Manuel Serrat
dall'album Material sensible, 1989 Ariola
Scrivendo, la scorsa settimana, di Bacigalupo e dei suoi venticinque anni destinati a durare per sempre, ho pensato a Rubens Fadini, il più giovane degli scomparsi nella tragedia di Superga. Era nato il 1° giugno 1927, avrebbe compiuto ventidue anni nemmeno un mese dopo la sciagura e aveva appena giocato da titolare la partita decisiva per lo scudetto, sabato 30 aprile 1949, contro l'Inter a San Siro. Mazzola quella partita non aveva potuto disputarla perché febbricitante e nel Toro erano scesi in campo due che non facevano parte della formazione tipo, l'ungherese Július Schubert e, appunto, il giovane Rubens. Gli interisti speravano nel colpaccio che permettesse di riaprire i giochi, approfittando delle assenze contemporanee del Capitano, di Grezar e di Maroso, ma la diga granata resse all'urto, regalandosi in pratica l'ennesimo titolo. Fadini giocò bene. Era un predestinato, appena arrivato nella squadra campione d'Italia dalla Gallaratese. Di lui si sussurrava che sarebbe stato un fenomeno del futuro, pronto a continuare le gesta di qualche campione che incominciava a invecchiare e che andava sostituito degnamente. Passò in un attimo dalla gloria del super match milanese, e dalla consapevolezza di aver contribuito all'ennesimo successo, alla fine.
Tra lui e Gabetto, il decano della squadra, c'erano undici anni di differenza: undici anni di trionfi in prospettiva, di un calcio in evoluzione, con le nuove coppe europee che da lì a poco avrebbero potuto vederlo tra i protagonisti. Fu una delle infinite potenzialità che si spezzarono il 4 maggio 1949. Quando si interrompe un sogno così bello resta, oltre al dolore, la smania inappagata del dopo. La leggenda racconta che sul tragico volo ci sarebbe dovuto essere anche László Kubala, il leggendario attaccante ungherese, accasatosi da un paio di mesi alla Pro Patria di Busto Arsizio, ma in odor di Granata. All'uomo capace di segnare 131 reti in 186 incontri con la maglia del Barcellona dedicò una canzone Joan Manuel Serrat, il cantautore catalano. Dopo aver elencato i più grandi calciatori di tutti i tempi, scrisse: "Tutti hanno i loro meriti, a ciascuno il suo, ma per me nessuno come Kubala". Si dice che il Toro avrebbe voluto testarlo nell'amichevole contro il Benfica a Lisbona: per qualche motivo il magiaro non poté partecipare. La sua vita continuò, prendendo altre direzioni. Un'ipotesi sfumata in quell'infausto mercoledì. Era notizia del 3 maggio 1949, proprio il giorno prima del disastro, che il Toro avesse offerto un contratto a Di Stefano, fenomeno assoluto destinato a far parte del trio delle meraviglie del calcio insieme a Pelé e Maradona.
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"Pelé era Pelé, Maradona uno e basta, Di Stefano era un pozzo di astuzia. Onore e gloria a coloro che hanno fatto splendere il sole del nostro calcio", canta Serrat nel medesimo brano. L'attaccante argentino fece la fortuna del Real Madrid degli anni Cinquanta e Sessanta: segnò 216 goal in 282 partite, mise in bacheca otto titoli di Spagna, cinque Coppe dei Campioni e una Coppa Intercontinentale. Alla notizia del possibile passaggio al Toro del campione, la "Nuova Stampa Sera" riservava un trafiletto in quarta pagina: era un mondo diverso, più serio e meno fracassone. I granata stavano preparandosi al futuro e lo stavano facendo in modo lungimirante, integrando alla più grande squadra i migliori talenti del mondo. Pensate a Kubala, a Di Stefano, a Fadini . E a Operto, scomparso a ventidue anni. E a Maroso, che di anni ne aveva solo ventitré ed era detto "Il Cit", ma che aveva già vinto quattro scudetti e giocava in Nazionale. E a tutti gli altri elementi del meccanismo perfetto ideato da Ferruccio Novo, prodigio che sembrava destinato a perpetuarsi
Autore di gialli, con "Cocktail d'anime per l'avvocato Alfieri" ha vinto l'edizione 2020 di GialloFestival. Marco P.L. Bernardi condivide con il protagonista dei suoi romanzi l'antica passione per il Toro e l'amore per la letteratura e la canzone d'autore.
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