“Il debito pubblico è abbastanza
columnist
Urbano Cairo e il debito
grande da badare a se stesso”
Ronald Reagan
Stiamo vivendo, in Europa, un’epoca germano-centrica, ed è forse per questo che mai come in questi anni il concetto di “debito” viene percepito come una colpa dalla quale bisogna assolutamente redimersi. Questo perché, forse, nella lingua tedesca “debito” e “colpa” sono sinonimi e si esprimono con il vocabolo “schuld”. Si sa come il comune sentire, influenzato fortemente dall’uso della lingua parlata, sia la genesi più importante di ogni mutamento culturale e antropologico.
Il debito vissuto come una colpa ha fatto la sua irruzione anche nel mondo del calcio, creando nuovi miti e nuove leggende, specie nel cosiddetto “Fairplay Finanziario” puntualmente aggirato da quasi tutti i club ricchi. Si assistono, nei vari bar dello sport sparsi nel continente europeo, ad edotte conversazioni tra tifosi su plusvalenze, ricavi, utili, ammortamenti e quant’altro.
L’irruzione della finanza nel calcio ha fatto uscire il John Maynard Keynes situato in noi, dividendo il mondo in chi insegue il sogno di una gestione finanziaria dei club di calcio priva di debiti e in chi, pervicacemente, ricaccia il John Maynard Keynes in qualche anfratto della nostra fragile psiche da tifosi e vuole, sostanzialmente, vincere fregandosene dei “pagherò”. A quest’ultima categoria probabilmente apparteneva Franco Sensi, indimenticato presidente della Roma, che sull’altare della sua passione per il calcio ha praticamente distrutto uno dei patrimoni familiari più ingenti d’Italia, con gli eredi costretti dagli eventi a consegnare armi e bagagli, Roma compresa, ad Unicredit. Alla prima categoria, invece, appartiene di buon diritto Urbano Cairo, che non perde occasione di ribadire, insieme al suo collega Aurelio De Laurentis, la verginità dei libri contabili del suo Torino rispetto ai debiti, totalmente assenti verso le banche. In quest’era prussiana di ferro i comportamenti alla Urbano Cairo sono additati come buon esempio in ogni pubblica piazza, e forse qualcuno, angosciato dai giornali e dai tedeschi ammonitori ad ogni piè sospinto dell’immoralità del debito pubblico italiano, ha finito sul serio per credere il debito come il nemico pubblico numero 1 di ogni intrapresa. Dimenticandosi che forse dovrebbe essere il concetto di “interesse” a dover essere stigmatizzato, specie quando assume il volto di un famelico moltiplicatore di denaro da rifondere al creditore.
Yannis Varoufakis, ex ministro delle finanze della povera Grecia, si è divertito (si fa per dire) qualche anno fa, in una sua pubblicazione, a giocare anche lui su dei concetti linguistici, questa volta greci. “In greco – scrive Varoufakis - “toketos” (parto) e “tokos” (interesse) hanno la stessa etimologia. Per secoli la fede cristiana e quella mussulmana hanno ritenuto una colpa gravissima il prestito a fronte d’interessi. Ci sono interi volumi che descrivono il parto del denaro come qualcosa che avviene nel ventre del serpente che ha indotto al peccato Adamo ed Eva”. E’ interessante come il funambolico e simpatico (almeno a me) economista greco abbia sfidato sul piano della semantica la cultura tedesca, ma temo ciò non sia servito a molto a comprendere le cose nei vari bar sport europei. Infatti è stupefacente come nel calcio ad oggi non si sia aperto un dibattito, in nome di un fairplay teoricamente doveroso nel mondo dello sport, su chi deve ricorrere al debito per finanziarsi e su chi invece non ne ha bisogno perché figlio prediletto di un fondo sovrano. Nessuno che parli di come il tokos faccia partire oggettivamente svantaggiati. Ma questo è un altro discorso, o forse è inerente a ciò che sto tentando di trattare: l’attacco insensato al debito.
Per la nascita del moderno capitalismo mercantile (da separare rigorosamente da quello finanziario), il debito ha giocato un ruolo centrale per la crescita economica delle classi medio/basse. Non sarebbero esistiti, tanto per fare un esempio, i successi imprenditoriali di un Pininfarina o di un Ferrari senza l’espandersi di un concetto del debito vissuto senza nessun complesso di colpa. Ferruccio Lamborghini, figlio di agricoltori, sarà grazie ad un debito con le banche, garantito dall’ipoteca dei pochi poderi agricoli di famiglia, che potrà dare vita ad uno dei marchi italiani più famosi del mondo. Si fa debito per crescere e provare a procurare benessere(il tanto agognato Pil che si alza), perché questo tipo d’azione è all’origine di ogni forma di capitalismo mercantile. Ecco perché le continue dichiarazioni soddisfatte(legittime per carità) di Urbano Cairo che non vuole fare debiti con il Torino, stridono un po’ con l’unico obiettivo imposto ad una qualsiasi squadra di calcio: quello di provare a migliorare i suoi risultati sportivi al fine di essere in condizione di poter vincere qualcosa.
Il fattore rischio è insito, da sempre, in ogni attività umana che prova ad espandersi fino a voler desiderare di provare a superare le Colonne d’Ercole, rappresentazione mitica di ogni limite umano conosciuto. “Perché a definire la ragione – ebbe a scrivere don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e Liberazione – è la tensione a conoscere l’oltre”. Ma per sfidare le Colonne d’Ercole bisogna rintracciarne un motivo, condito da quella logica ambizione che può spingere persino ad un elogio della follia. “Stay Hungry, stay foolish” (siate affamati, siate folli), disse Steve Jobs in un suo famoso discorso alla Stanford University, laddove la traduzione di “foolish” in follia nel contesto citato dal fondatore della Apple ha un valore positivo, perché fa pensare a imprevedibilità e capacità di pensare in maniera non convenzionale e senza condizionamenti. Con quella frase Jobs invitò gli studenti della famosa università americana a non accontentarsi, a non avere nel proprio orizzonte esistenziale la rendita di posizione come faro.
Non bisogna scomodare Hegel, per ammettere a noi stessi come il mondo sia sempre in continua evoluzione e che restare fermi nelle proprie certezze per paura di navigare nel mare delle incertezze non è sempre consigliabile. Il calcio, piaccia o no, sta cambiando radicalmente pelle e presto sarà solo un lontano ricordo di quelle che furono le sue origini. I cambiamenti richiedono investimenti di capitali di rischio, richiedono il ricorso all’indebitamento. Perché è di nuovi progetti che si sta parlando.
“Denaro e merce non sono capitale fin da principio, come non lo sono i mezzi di produzione e di sussistenza. Occorre che siano trasformati in capitale”. Così si esprime Karl Marx nel Libro I del Capitale, laddove si occupa della “cosiddetta accumulazione originaria”. Non so se Urbano Cairo sia a conoscenza di questa lucida riflessione dell’intellettuale tedesco, ma il consiglio di soffermarsi a rifletterci sopra mi sento proprio di darglielo. Volendo usare come metafora quanto detto da Marx, l’imprenditore alessandrino dovrebbe provare a scacciare dalla sua mente l’elogio del bilancio intonso da debiti, per cercare di trasformare la sua “merce” (in questo caso il Torino Calcio) in “capitale” (in questo caso i tifosi). L’amore per una squadra nasce, spesso, per le storie che essa è capace di raccontare a possibili suoi nuovi adepti. E le nuove storie, nel calcio, sono sempre disegnate da imprese sportive, da qualche partita giunta ad essere indimenticabile nella memoria collettiva.
Certo la paura di fallire è qualcosa di insito dentro di noi, perché spostare confini vuol dire spingersi sempre verso l’ignoto. Quindi l’eccessivo, forse, pragmatismo di Cairo una qualche giustificazione la contiene. Il convincimento del meglio piccoli ma sani, contiene in sé delle stimmate di saggezza di cui sarebbe sciocco non tener conto. Le vicende del calcio contemporaneo, però, richiedono nuove attenzioni strategiche se si vuole rimanere nel mondo dei grandi.
Sporgersi dalla vertigine di un debito è diventato quanto mai necessario, e non è facendo finta di ignorare tale realtà a dare improvvisamente, un giorno, un lieto fine alle cose. Deve essere chiaro a tutti quanti noi che fare debiti e rischiare di fallire devono ancora essere due opzioni possibili, un giusto richiamo alla necessaria libertà umana. Nonostante il main stream imposto da una subdola cultura comunicativa dominante ci abbia fatto giungere ad una conclusione contraria. Rischiare vuol dire poter guardare in faccia una possibile sconfitta, ma anche una possibile vittoria. Tutto rientra in una delle più belle virtù umane: l’audacia. L’unica cosa a spostare confini, a renderci migliori e a renderci degni di essere passati in quest’esistenza. Ed è proprio l’essenza emotiva primordiale dello sport a rammentarci continuamente ciò.
Ecco perché l’elogio di un bilancio senza debiti risuona, soprattutto nella gestione di una società sportiva, come una resa senza condizioni. Vorrei chiudere con una delle più acute considerazioni di Karl Marx: “l’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che entra realmente in possesso della collettività dei paesi moderni è il debito pubblico”. Non sarebbe male riflettere seriamente su questo concetto. In questi tempi incerti coglierne ogni sottotesto contenuto farebbe bene a tutti. Farebbe bene all’impaurita classe dirigente italiana. Farebbe bene persino ad un presidente di una squadra di calcio.
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. È il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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