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columnist
Confesso di averci impiegato più di due stagioni a capire Giampiero Ventura. Non ad amarlo, ma a stimarlo e a comprenderne il lavoro. E la colpa di questo ritardo è stata mia, soltanto mia. Sono il classico tifoso del Toro cresciuto a pane e Giacomino Ferri, a pasta e Pasquale Bruno, quello che si esalta per un tackle deciso o per un'azione insistita che magari genera tre angoli sotto la Maratona. Sono un "sempliciotto" che di giocatori forti (per fortuna!) ne ha visti indossare questa maglia, ma alla fine si è sempre innamorato, calcisticamente parlando, più dei "fabbri" o dei "portatori d'acqua" che dei "piedi fini". Ripeto, è un mio limite, ho una visione del calcio povera e quindi spesso faccio fatica a comprendere altre visioni più sofisticate di questo sport. Quando arrivò Ventura mi illusi che "il frullare la palla" e la "libidine" sarebbero comparsi come per magia sul prato verde del Comunale e non seppi discernere tra quelli che erano degli spot saggiamente e volutamente coniati su misura per una piazza depressa da anni di "vacche magre" e il duro e certosino lavoro fatto più che altro di gavetta intermezzata da tappe poco "glamour" come la melina di Castellamare di Stabia e la partita farsa col Genoa atte a far crescere in stima e consapevolezza squadra e ambiente. Mi arrabbiai, ci rimuginai, ebbi la tentazione del " si stava meglio quando si stava peggio", quando gli allenatori cuore Toro come Novellino o Lerda usavano frasi cariche di prosopopea granata che tanto mi piacevano, ma poi sul campo e in società si scioglievano come neve al sole. Allora capii e compresi l'obbiettivo di lungo termine del mister: non aggredire i problemi del Toro e dei suoi tifosi, ormai incancreniti da vent'anni di sciagure, ma portare una linea guida diversa, un modo nuovo di affrontare le cose: in una parola, usare la testa. In campo, in società, sugli spalti. Questo è ciò che Ventura in questi cinque anni ha cercato di farci capire: a volte ci è riuscito, a volte un po' meno, noi ci siamo arrabbiati con lui, lui con noi. Ma i risultati sono arrivati e (quasi) tutti ne siamo stati felici. Guardavo le partite, mi annoiavo in qualcuna di queste e mi chiedevo perché i calci d'angolo prevedessero il passaggio graduale della sfera dalla bandierina al nostro portiere o perché non si verticalizzasse mai o non si facesse mai un cross al nostro centravanti abile di testa. Col tempo ho capito che erano domande inutili perché il credo venturiano presuppone l'utilizzo della testa e della pazienza in ogni circostanza, anche in quelle dove i comuni mortali ci darebbero un taglio e tirerebbero dritto senza tanti ghirigori. E così, pian piano, ho accettato questo Toro poco "Toro" perché, mi dicevo, è giusto aprirsi al cambiamento, è giusto adeguarsi almeno un po’ al calcio moderno, è giusto provare una nuova via se quella che hai percorso negli ultimi vent’anni si è rivelata fallimentare. E poi sono stato sedotto, come tanti, dall’ebrezza dell’essere “di nuovo lì”, di nuovo protagonista in Serie A, più nella parte sinistra della classifica che in quella destra, sedotto dalle notti europee, ricordo di un’adolescenza sempre più lontana. Sono stato umanamente debole come è comprensibile (ma non giustificabile…) in chi ha vissuto gli ultimi vent’anni calcistici come abbiamo fatto noi granata. Il Toro di Ventura e' diventato in questi anni...il Toro di Ventura! Cioè una squadra completamente plasmata ad immagine e somiglianza del credo tattico del tecnico genovese, lodata ed ammirata da buona parte degli addetti ai lavori. Una squadra che "usa la testa". Già. Ma il "cuore Toro", il "vecchio cuore granata"? Accantonato, dimenticato, messo da parte come se fosse uno scomoda eredità, quasi un intralcio. Ogni tanto viene citato perché fa parte del nostro immaginario collettivo, giusto per dare un contentino a noi tifosi. Poi però in campo se ne vede pochino, se non niente. E nessuno mi può togliere dalla testa che se ne avessimo un po', di questo cuore granata, anche solo un po', forse adesso avremmo un'arma in più per uscire da questa crisi. Un Toro solo testa e niente cuore: un progetto diverso, ardito, che ha dato anche buoni frutti, ma, a mio parere, il più grande errore di Ventura. Che oggi, se non fa qualcosa e non cambia qualcosa, rischia di prendersi in testa il boomerang che ha lanciato cinque anni fa.
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