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Vincere

Anthony Weatherill
Loquor / Torna la rubrica del nostro Anthony Weatherill: "Nel Paese del libero mercato per eccellenza e del massimo valore dato a chi arriva primo, gli Stati Uniti, è stato proprio lo sport a giungere alla conclusione che ai più forti bisognava...

Qualcuno ha scritto:”…i soldi sono importanti. Sono importanti anche quando non li hai. Non perché ne senti la mancanza, ma perché se non li hai tu li ha sicuramente qualcun altro. Eh già, questo è il problema. Perché se il denaro ce l’ha qualcun altro, è questo qualcun altro che deciderà per te. Ogni cosa deciderà per te”.

Spesso si dimentica che il denaro, oltre ad essere mezzo per il soddisfacimento di qualsiasi bisogno o desiderio, è fonte di potere. Anche la possibilità di assegnare denaro che non è il proprio, è fonte di potere. E il potere, sempre, genera rapporti di forza. Questi rapporti di forza, avendo come origine e scopo ambizioni ed interessi esclusivamente soggettivi, prima o poi finiscono per risolversi in conflitti; e il più forte in genere vince e, purtroppo, convince. Non è auspicabile lasciare al potere della forza lo sviluppo di tutte le attività umane, anche perché si potrebbe giungere a dar ragione al concetto alquanto nichilistico di Karl Marx che fra due diritti uguali decide la forza. Bisognerebbe sempre stare attenti ad utilizzare la forza, poiché senza giustizia la forza diventa solo tirannia. E’ opinione diffusa, tristemente diffusa, che il libero mercato debba essere un “luogo” dove l’unica regola accettabile sia quella degli interessi dei venditori e degli acquirenti. Se si accettasse questo principio, in poco tempo il libero mercato sarebbe preda dei venditori(quelli più forti) a discapito degli acquirenti. Deve essere chiaro, che se ci trovassimo di fronte ad un siffatto libero mercato saremmo di fronte ad un abuso della peggior specie del concetto di libero mercato.

E’ notizia di queste ultime ore che il presidente della lazio Claudio Lotito (il venditore), di fronte alle richieste pressanti dei più grandi club europei(gli acquirenti), abbia valutato Milinkovic-Savic non meno di 150 milioni di euro. Pare che questa sia solo la base dell’asta che si scatenerà nel prossimo mercato estivo. E’ incredibile come si sia riusciti nel tempo, attraverso tutta una pubblicistica sempre più sospettabile di essere al servizio di qualche re, a convincere la gente che pagare un giocatore come Milinkovic-Savic 150 milioni di euro è, in fondo, una cosa accettabile. Una vicenda che rientra nei parametri di un libero mercato, animato da libere imprese(i club di calcio).

Non c’è una ragione valida, men che mai in un vero libero mercato, atta a valutare un giocatore come Milinkovic-Savic una cifra simile. 150 milioni di euro che, in questo caso, non sono né ammortizzabili né capitalizzabili nel tempo, se non attraverso il ricorso ad un eccessivo indebitamento o ad uno scaltra pratica di doping finanziario. E’ diventato strano e folle il mondo del calcio, un contesto ormai scevro da qualsiasi tipo di regole. E’ pratica diffusa, ad esempio, che persino molti giocatori della LegaPro siano costretti, se vogliono trovare una squadra, a cedere totalmente i loro diritti d’immagine in sede contrattuale. Diritti d’immagine  non  ceduti alla società di calcio con cui si firma il contratto per cedere le proprie prestazioni di calciatore, ma bensì a società che si occupano di organizzazioni di eventi. Siamo di fronte ad un “caporalato delle briciole”, mentre il capo del sindacato calciatori, Damiano Tommasi, negl’ultimi mesi ha pensato bene di occuparsi nelle vicende dell’elezione del nuovo presidente della FGCI. La totale mancanza di una politica calcistica, ha avuto come risultato il preponderante atteggiamento del “lasciare fare” ai club della Serie A. Assistiamo così ad una Juventus che diventa sempre più forte, in spregio a qualsiasi regolamentazione della libera concorrenza. Assistiamo ad un Napoli giocare con un solo italiano, Lorenzo Insigne.

Assistiamo all’aumento del divario tra le squadre medie e quelle grandi. Assistiamo alle prevaricazioni, sotto gli occhi degli organi federali, di continue scorrettezze e utilizzo della forza ai limiti del lecito. Esemplari sono i casi di Diawara e Maksimovic, che non presentandosi agli allenamenti forzano Bologna e Torino a cederli al Napoli a pochi giorni dalla chiusura del mercato. Difficile non pensare ad un Napoli complice di questa manovra, ma la cosa  sconcertante è l’arrendevolezza con cui Bologna e Torino hanno accettato questa storia. Ed ancora più sconcertante il silenzio di una Federazione che assiste silente ad un’operazione chiaramente dai contorni illegali, rispetto a delle regole di mercato che la FGIC stessa ha stabilito. Se si prova a ricordare la vicenda,  qualcuno alza la mano per dire che ciò è libero mercato, ed il Napoli è stato bravo ad assicurarsi le prestazioni di due giocatori a lungo inseguiti. Inutile perdersi in nostalgia del passato o in vaghe idee socialiste, continuerebbe questo qualcuno che ha alzato la mano, questo è il libero mercato a cui bisogna adattarsi. “Bisogna prendere esempio dalla Premier League!”(nell’immaginario collettivo terra del libero mercato perfetto. Terra soprattutto di regole ferree e tendenzialmente rispettate, aggiungo io), concluderebbe questo qualcuno, invitando il presidente della sua squadra del cuore a fare operazioni tipo Diawara/Maksimovic. E’ un chiaro invito a mostrare la forza, a qualunque costo e qualunque sia il risultato, perché la cosa più importante è vincere. Se ogni cosa diventa lecita in nome della libera circolazione delle merci(in questo caso i giocatori) e del profitto che se ne ricava(in questo caso soldi e ipotetiche vittorie), diventa difficile poi andare a parlare di valori della maglia, di bellezza del gioco, di come era bello quando esistevano i giocatori/simbolo. A non capire più, oltre ai bambini  allibiti davanti agl’adulti che raccontano le vicende di chi giocava dieci anni con la stessa squadra, sono gli stessi giocatori.

Questi ragazzi vengono paracadutati da varie parti del mondo, in realtà a loro completamente sconosciute. Le società che li accolgono ormai sono riconoscibili solo in quanto datori di lavoro, più che continuatori ideali di una storia all’interno delle vicende di uno dei più bei giochi(il calcio) che mai siano stati inventati. Quando negli anni 30 un nuovo giocatore si presentava nello spogliatoio dell’Austria Vienna del grandissimo Matthias Sindelar, sapeva di essere nello spogliatoio della squadra nata nel quartiere operaio di Vienna. Anche allora i soldi erano importanti(è quasi banale ricordarlo: i soldi sono sempre stati importanti) e anche allora i giocatori guadagnavano somme relativamente importanti, ponendoli decisamente più in alto rispetto a qualsiasi parametro di stipendio medio. Ma c’era tutto un sistema, a partire dagl’uomini che occupavano pro tempore le istituzioni sportive, che ricordava a tutti come il gioco, i valori dello sport e il rispetto delle regole fossero in assoluto la cosa più importante. Il cinismo di maniera di oggi, fatto circolare furbescamente da chi nel caos trova soddisfazione di interessi molteplici, riterrebbe questo un retorico guardarsi indietro, un inopinato atteggiamento nostalgico di chi non ama i cambiamenti. E’ desolante vedere come molti tifosi, sempre di più, stiano abbracciando questo giudizio in nome della modernità. Tradizione e modernità non sono le parti di un ossimoro, ma sono  due sentimenti necessari a creare storia e valori condivisi. Chiedere alla propria squadra del cuore di esercitare una “forza” a prescindere non fa parte della storia che ha reso grande il calcio, non fa parte della storia di tutte le cose buone del mondo. Nel Paese del libero mercato per eccellenza e del massimo valore dato a chi arriva primo, gli Stati Uniti, è stato proprio lo sport a giungere alla conclusione che ai più forti bisognava porre un tetto, oltre il quale non potevano andare. Lo sport americano si è dotato di regole e strumenti, che permettono ai più deboli di poter avere una speranza di poter ritornare a competere con i più forti. Questo perché, come hanno ben compreso gli americani, il fine dello sport è il competere. Le istituzioni sportive quel che devono difendere ad ogni costo è la competizione, non il libero mercato. Questo anche se alla tua porta dovesse bussare la sirena di un fondo sovrano o di uno sceicco invaghito della vecchia Europa.

“Esiste solo un capo supremo: il cliente. Il cliente può licenziare tutti nell’azienda, dal presidente in giù, semplicemente spendendo i soldi da un’altra parte”. Questa considerazione di Sam Walton, fondatore di Walmart, leader mondiale delle catene di supermercati, definisce bene perché richiamarsi al libero mercato, quando si parla di calcio, non è solo una questione eticamente sbagliata: è una bestialità.

I tifosi italiani sono ancora stupiti dall’eliminazione della loro nazionale da Russia 2018, dalla povertà tecnica dei giocatori messi in campo da Ventura. Ma se la forza dei soldi, e non delle regole, continuerà a decidere di far debuttare in Serie A giovani di tutti i Paesi, tranne che italiani, allora forse non sarà solo Russia 2018 il campionato mondiale al quale l’Italia non parteciperà. Come in un finale di storia, questo sì triste e nostalgico, di un tango argentino.

Ha collaborato Carmelo Pennisi

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.