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“Son tanti oramai” dice con il sorriso Angelo Cereser per inaugurare una lunga chiacchierata per festeggiare i suoi 76 anni. La “Trincea” granata è nata ad Eraclea il 6 aprile 1944 e ha scritto pagine indelebili della storia del Torino, capitanando la difesa granata per svariate stagione tra gli anni Sessanta e Settanta.
Buongiorno Angelo, tanti auguri in primo luogo. Partiamo dalla situazione in cui siamo immersi. Come la sta vivendo?
“Per mia fortuna non ho combattuto la Seconda Guerra Mondiale, a differenza di mio padre. Tuttavia, penso che oggi stiamo affrontando un conflitto ancor più complicato, perché il nemico è infimo, è invisibile. La cosa che mi spaventa di più è che colpisce a destra e manca e lascia la gente nello sgomento più generale”.
Si è fatto un’idea di come si possa uscirne?
“Dal punto di vista clinico e strategico non so. Posso dire che ci vogliono fiducia, fede, unione nel nucleo familiare, amore per l’Italia. Siamo chiamati ad una prova difficile. Dobbiamo dimostrarci disponibili a compiere dei sacrifici. Può darsi che qualcuno ci voglia infliggere un piccolo castigo. La condotta umana non è stata impeccabile, anzi. Da credente posso anche leggere la pandemia come un piccolo richiamo al genere umano che stava implodendo”.
Naturalmente sarà un compleanno tra le mura di casa e quindi sui generis.
“Mi occuperò del giardino. Il mio hobby preferito è fare legna nella mia casa sulle colline torinesi. Mi mancherà l’affetto dei miei cari, ma per fortuna con le videochiamate ci si riesce a vedere. Starò con mia moglie e tra l’altro a dicembre festeggeremo cinquant’anni di matrimonio. Dunque, non mi demoralizzo, d’altronde son del Toro e sono abituato a soffrire un po’ di più rispetto a tutti gli altri. Noi granata siamo capaci a guardare sempre il bicchiere mezzo pieno e lo facciamo anche in questa triste condizione”.
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Venendo al calcio, si discute tanto sul prosieguo o meno del campionato. Cosa ne pensa?
“Bisogna dimostrarsi uomini. Mi sembra che ognuno stia pensando soltanto a sé stesso, dalla Fifa alla Uefa, passando per le Federazioni e la Lega Serie A. A parole siamo sempre tutti bravi ad esporre concetti alti come l’aiuto e la solidarietà, ma poi alla prova dei fatti tutti iniziano a fare i conti con i soldi. Non succede solo nel calcio, ma in tanti altri settori, come ad esempio quello immobiliare nel quale sono inserito. Se non si vuole mandare gambe all’aria 30 o 40 squadre bisogna provare a chiudere quanto meno il campionato, ma mi faccia aggiungere una cosa”.
Prego.
“Torno al concetto di prima, qualcuno vuole farci capire che così non va, anche nel mondo dello sport. Va bene, finiamo la stagione calcistica perché altrimenti si va sul lastrico, poi rivediamo il sistema nel suo insieme. Se siamo persone serie, dal presidente di una società all’ultima della fila, dobbiamo capire che è un segnale che dobbiamo cambiare via e urgentemente. Bisogna pensare che usciremo da una guerra e dovremo agire di conseguenza, proprio come avvenuto a suo tempo”.
Il giorno del compleanno permette anche di tornare a ritroso con la memoria. Se le chiedo quali sono le emozioni più intense che ha vissuto da calciatore, cosa mi risponde?
“Ne ho due. Una positiva e una negativa ed entrambe si legano ovviamente al Torino”.
Da cosa partiamo?
“Da quella negativa. Il mio rammarico più grande è non aver potuto vincere lo scudetto con il Torino nella stagione 1975/1976. Sono stato mandato via dalla società contro la mia volontà. Avevo fatto tanti sacrifici insieme a tanti miei compagni per risalire dalla Serie B e per tornare ai vertici del calcio italiano, ma purtroppo non sono serviti per far parte della rosa dello scudetto”.
E quella positiva?
“È troppo semplice. L’emozione più grande era vincere un derby. Io e molti miei compagni giocavamo il derby per i tifosi, soltanto per loro. Sembra retorica, ma non lo è. Lo dico sinceramente, eravamo più concenti per i tifosi che per noi stessi. Vedevamo la gente arrivare al Filadelfia e piangere la settimana prima del derby. Cose indescrivibili, cose che non si possono credere se non le si vive”.
E tra tutti i derby quale sceglie?
“Non fu una vittoria, ma un pareggio. Era il 21 marzo 1971 e segnai una doppietta dal dischetto. Il secondo rigore lo tirai sul finire della partita e permise al Toro di pareggiare 3 a 3. Non mi sarei mai aspettato di calciare due penalty in un derby e di aiutare il mio Toro a non perdere contro la Juventus”.
Ora un simile attaccamento ai colori non è più possibile.
“Il vero problema è che è divenuto complicato parlare con i giocatori. Sponsor e procuratori sono muri che quasi non riesce a valicare un allenatore che vive per un’intera stagione a stretto contatto con un calciatore. Un tempo si giocava più per l’altro che per sé, ora non è più così. Il calcio è evoluto, è più veloce, è più difficile probabilmente, ma ha lasciato per strada tanti valori”.
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Quali sono state le figure più importanti della sua carriera calcistica?
“Fabbri mi ha fatto intendere il calcio come una professione abbinata alla passione. Non posso non citare anche Rocco, altra figura preziosa nel mio percorso. Ero anche molto amico di Allodi, che mi voleva in Nazionale. Mi voleva bene anche quando era alla Juventus” (ride).
E al di fuori del rettangolo verde?
“Don Francesco Ferraudo: un pilastro per me, Ferrini, Fossati, Agroppi, Sala. Ma in realtà ho capito nella mia vita che da tutti puoi imparare qualcosa, anche da chi ti appare peggiore. Ho imparato che devi presentarti umile e pensare, pensare, pensare”.
A tal proposito, anche noi pensavamo di essere giunti in fondo alla chiacchierata con Cereser e invece dopo un quarto d’ora risuona il telefono. “Scusi, sono ancora Angelo Cereser. Volevo soltanto dirle che per quel Toro là aprile era un mese speciale. Il 14 sarà il compleanno anche di Aldo Agroppi. Volevo iniziare a fargli gli auguri, poi lo chiamerò quel giorno, ma intanto mi porto avanti. Sa, Aldo ed io siamo fratelli dal 1961”.
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