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Il valore del numero dodici in un club come il Torino si conosce fin troppo bene. Il numero dodici per eccellenza è la curva Maratona, ma in realtà in panchina ne siede sempre uno, pronto a giocarsi le proprie chance in caso di problemi per il portiere titolare. Ci sono tra i portieri di riserva alcuni che sono riusciti più di altri a lasciare il segno. Tra questi c’è Antonio Pigino, classe 1951, che ieri ha spento 69 candeline. Lega il proprio nome al Torino non soltanto per quelle stagioni da secondo di Luciano Castellini, ma anche come vice-allenatore ai tempi di Giancarlo Camolese e forse soprattutto per i suoi recenti trascorsi nel settore giovanile granata.
Buongiorno Antonio e tanti auguri. Partiamo dalle celebrazioni del suo compleanno. Non semplici immagino.
“No assolutamente non semplici a causa della situazione che sta attraversando il paese. È stato un compleanno insolito. Ormai sono in casa insieme a mia moglie dalla fine di febbraio. Speriamo sinceramente che si risolva il prima possibile, perché sta mietendo tante vittime, anche tra chi ci vuole bene. Il dramma nel dramma è non poter dare una sepoltura come si deve ai deceduti: è una vera tragedia”.
Tornerebbe in campo per concludere il campionato di Serie A?
“Sono francamente combattuto. Una parte di me pensa che dare la possibilità di guardare le partite di calcio alle persone chiuse in casa in questo momento è positivo. Dall’altra parte, però, ritengo che i grandi sacrifici che stiamo facendo tutti noi stonerebbero con il ritorno in campo dei giocatori. La speranza è che gli esperti scientifici a supporto del Governo diano tra qualche settimana il via libera per riprendere lentamente e in sicurezza le attività sportive. La ripartenza del campionato, poi, non potrà essere immediata, perché per una partita non sono coinvolti solo calciatori e allenatori, ma svariate persone per ogni società. Bisognerà aver pazienza”.
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Cerchiamo di non pensare per un attimo a questo brutto momento e torniamo indietro con la memoria. Le dico Torino e lei cosa pensa?
“Mi viene in mente la mia vita. Un’avventura iniziata quando avevo 14 anni. Fui pescato dalla squadra di Trino Vercellese e iniziai a vestire il granata. Ho fatto tutta la trafila delle giovanili: Giovanissimi, Allievi e Juniores. A 17 anni andai in prestito in Serie D e fu abbastanza singolare, perché a quel tempo in Serie D si puntava maggiormente su portieri esperti. Ma la mia esperienza al Toro riprese nel 1973 e rimasi per due stagioni. Nel 1997, quando ormai non giocavo più, tornai in un’altra veste. Ho avuto la fortuna di stare dentro al Toro più che in ogni altra società. Io fin da bambino tifavo per il Toro e ho coronato il mio sogno di indossare una maglia strepitosa. Mi viene un brivido a pensare che sono stato un ragazzo del Filadelfia negli anni importanti, quelli d’oro. E poi i fatti di cui vado più orgoglioso sono le due promozioni ottenute nel nuovo millennio, la prima con Camolese nel 2001, la seconda con Zaccarelli al mio fianco prima del fallimento”.
Ma la sua storia in granata non si è arrestata con il fallimento del Torino.
“No, infatti mi riempie il cuore di gioia ripensare a quella ricostruzione del settore giovanile avvenuta con l’arrivo in società di Cairo. In quel periodo non avevamo più alcun tesserato. Gabetto ed io abbiamo trascorso intere giornate al telefono per cercare di ricostruire qualcosa, a partire dalla Primavera. Non avevamo palloni, maglie e campi. Siamo riusciti a portare la Primavera alle fasi finali, quasi allo scudetto. E lo stesso è avvenuto con le altre categorie”.
Però, non tutte le favole hanno il lieto fine. Nella gestione Cairo è rimasto solamente quattro anni. Cosa è accaduto?
“Con la retrocessione della Prima Squadra, Cairo ha pensato di rivedere l’organigramma del settore giovanile. Comi era il direttore, io ero responsabile tecnico e Cairo decise di chiudere il rapporto con me. Ci rimasi molto male, perché avevo messo personalmente la faccia in parecchie situazioni per cercare di far riemergere il settore giovanile. Ero andato a comprare direttamente nei supermercati delle maglie per i ragazzi, avevo chiesto a Don Aldo Rabino i palloni per poterci allenare. Notare che dopo quattro anni tutto questo fu dimenticato mi rattristò. Ma la vita è andata avanti”.
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E ora, è ancora sui campi da calcio?
“Attualmente non faccio più parte del mondo calcistico. Non sono più attivo, ma partecipo molto volentieri alle serate organizzate dai Toro Club e poi mi tengo in contatto con chi vive il mondo dello sport ancora oggi, come Zaccarelli, Camolese, Salvadori, Cereser. Sono rimasto molto legato a loro, perché al tempo si faceva veramente spogliatoio”.
A tal proposito, lei era il secondo di un mito granata e del calcio nostrano come Luciano Castellini. Come può descrivercelo?
“Una persona straordinaria. Un grande portiere. Ho imparato tantissimo da lui, anche perché dormivamo nella stessa camera in ritiro. Avevamo molte passioni in comune, come quella dei cavalli. Di Luciano ho una grandissima stima e quando ci incontriamo ripercorriamo i bei tempi”.
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