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Mi piacerebbe avere il tempo per tenere dietro a qualche grillo in più, come per esempio andare a Trieste a vedermi la partita. Mi piacerebbe starci almeno una notte, magari in uno di quei luminosi hotel del centro, con una finestra che dà su qualche grande piazza. Di Trieste una delle cose che mi è rimasta dentro è la luce, l’atmosfera, quella combinazione strana di elementi, anche opposti, che danno la città come risultato. Ci tornerei volentieri. Sarebbe bello farsi tutte le trasferte e approfittarne per rendersi conto una volta di più di che razza di posto è l’Italia. Ogni cento chilometri cambiano lingua, architettura, carattere delle persone, cibo, e quasi sempre c’è una meraviglia a tiro. Che sia una piazza o un paesaggio naturale, oppure la poesia lasciata da qualcuno e non ancora evaporata. Questo sì che è lusso. Come a Livorno, quando tre ore prima della partita bevemmo un caffè e ci pareva di vedere Piero Ciampi in fondo al bar. Come a Bologna, dove passeggiammo nella via dove scorrazzava Paz. Andassimo a Trieste, non ci sarebbe che l’imbarazzo della scelta. Se anche voi non ci sarete, provo a rimediare con un assaggio virtuale. Quello che vi voglio ricordare è Sergio Endrigo. Sarà che tira aria di smobilitazione culturale e la sua reazione a tanta miseria fu esemplare. Qualcuno la ricorderà di certo. Erano gli anni Novanta e lui aveva circa sessanta primavere sulle spalle. La portaerei del disco con cui era legato andava alla deriva come un relitto. Lui riusciva ancora a comporre canzoni ma la portaerei giudicava che ormai avevano fatto il loro tempo. Può darsi fosse vero, commercialmente parlando, ma se nessuno dovrebbe essere umiliato, ancor meno dovrebbe esserlo chi ha scritto alcune fra le pagine più belle della nostra storia musicale. Alla portaerei non glie ne fregava niente, e i suoi ultimi tre quattro dischi furono tirati in poche centinaia di copie: più che altro per dovere contrattuale, senza promozione né distribuzione. Sarebbe stato meglio lasciarlo libero, piuttosto che infiggergli quello strazio, e lui la prese molto male. Era la sua vita, erano le sue ultime fatiche. Così tirò fuori tutta la sua classe e, invece di frignare al vento o mettersi nudo in piazza per attirare l’attenzione, scrisse un libro. Era il 1995. Il romanzo di Sergio Endrigo fu intitolato Quanto mi dai se mi sparo? ed era proprio come la città in questione: mescolanza di opposti, disincanto e ironia, geometria e leggerezza. Racconta di un vecchio cantautore in rovina, Joe Brillo, che prepara la diretta della propria morte per tirare su qualcosa. Come vi dicevo, sia piange e si ride e certe volte nello stesso tempo. Di recente Stampa Alternativa l'ha salvato dall'oblio, rimettendolo in giro. Se vi va, contribuite a chiudere il cerchio, leggendolo. Ne vale la pena, e forse è anche un bel modo per avvicinarsi alla partita, scongiurando l'attesa.
Un abbraccio a tutti, Marco Peroni
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