mondo granata

Attenti al gorilla!

Attenti al gorilla! - immagine 1
di Walter Panero
Redazione Toro News

Venerdì 18 febbraio 2011. In una delle tante case del centro storico di Genova. Cosa danno stasera alla TV? Sanremo....Sanremo....ovunque c'è Sanremo....ovunque ti giri parlano di Sanremo....dei Modà, della Tatangelo, di Al Bano, magari anche di Battiato, di Vecchioni, o della magistrale lezione di Benigni....ma pur sempre di Sanremo....”

“Beh....ci sarebbe anche....”

“Il calcio?!? Noooo....ti prego....basta!...già ci siamo sciroppati la Champions League...l'Europa League....e domani la serie B...poi la serie A....poi...”

“Beh....sì....c'era Grosseto-Empoli....però....forse un'alternativa per sfuggire per una sera alle grinfie di Sanremo, del pallone e dalla televisione in generale ci sarebbe....se non ricordo male ho letto...mi hanno detto che stasera qui a Genova c'è.....ci sono....”

 

Poco dopo....poco lontano....

 

Lasciatemi cantarecon la chitarra in manolasciatemi cantaresono un Italiano....

“Accidenti! Sanremo anche qui?!....ma non avevamo detto stasera niente Festival?!?”

“Non so cosa dirti....vedrai che adesso qualcosa cambierà....adesso succederà qualcosa di diverso....avevo letto...”

Intanto nel locale  la gente continua ad affluire ed a prendere posto ai tavolini. Giovani e meno giovani. Ho un'unica certezza: non hanno facce da Sanremo. Che poi cosa significa questa roba che ho appena detto? Anche noi mica abbiamo facce da Sanremo, ma il Festival ce lo siamo sciroppati eccome. Quest'anno, come sempre, da oltre trent'anni. Ed è inutile che ci nascondiamo e che ce la tiriamo tanto: domani sera, come ieri e come ieri l'altro, saremo di nuovo tutti lì fino a notte fonda a commentare la voce stonata di questo o di quello, le gaffes del conduttore, la scollatura delle due belle figliole che lo accompagnano, le battute di quelli che dovrebbero far ridere e non sempre ci riescono, perché non è che ci sia poi molto da ridere in questi tempi oscuri. Ma stasera niente Sanremo! Stasera noi, cioè mia moglie Laura, l'amico Simone (lui sì che ne sa di musica, e infatti Sanremo mica lo guarda...) ed io che di solito alla musica preferisco il calcio e il ciclismo cercavamo qualcosa di diverso....così siamo venuti qui perché ci avevano detto....E invece quelli cantano “L'Italiano” che a me ricorda il primo Sanremo che vidi fino alla fine, ma è di Toto Cutugno, che sarà pure bravissimo e conosciuto in tutto il mondo dove quando dici che sei Italiano ti cantano quella canzone e non certo quelle della Tatangelo, ma non è.....ecco non è quello che speravamo di trovare qui....

Ma ecco che, finita la prima canzone, prende la parola Marco. Ha la faccia da fratello di virus. E infatti lo è. Marco è quello che qui sopra, il giovedì, cerca di allontanarci almeno per un po' dalla purtroppo triste quotidianità granata e ci allarga la mente parlando di musica e di letteratura, di storia e di filosofia. Dicevo: Marco racconta e gli altri due, l'altro Marco e Mao che insieme a lui formano “Le Voci del tempo”, cantano accompagnandosi con le chitarre, l'armonica ed altri strumenti.Raccontano con parole e musica la storia d'Italia degli ultimi cinquant'anni. Dal boom economico dell'inizio degli anni Sessanta al “Sessantotto”. Dallo stragismo dei primi anni Settanta al terrorismo rosso che insanguinò il paese sul finire di quel decennio. Dagli effimeri anni Ottanta  a Tangentopoli, fino quasi ai giorni nostri.Raccontano la storia, la Grande Storia, attraverso le piccole storie, la vita, i pensieri, le canzoni di un uomo. Un uomo solitario. Un perenne “bastian contrario”.

Un uomo di origini borghesi che, anziché fare la bella vita come avrebbe potuto e gli sarebbe stato tutto sommato più semplice, scelse di stare sempre dalla parte dei deboli, degli emarginati, dei poveracci.

Un uomo che, invece di frequentare la Genova bene dalla quale proveniva, preferiva infilarsi nei vicoli angusti che costituiscono ancora oggi il “ventre” della sua città, per cantare gli odori ed i colori, le bellezze e le contraddizioni che rendono unici i suoi anfratti più profondi.

Un uomo che, in un Paese dominato dall'effimero e dai lustrini del “boom” economico e dalle voci di Claudio Villa e Nilla Pizzi, venne fulminato dal genio di Jacques Brel e soprattutto di Georges Brassens.

Un uomo che nell'Italia ancora bacchettona e dominata dalla morale e dal pensiero unico di matrice borghese e cattolica metteva al centro delle proprie canzoni personaggi poco raccomandabili: prostitute, papponi o, peggio ancora, bravi impiegati diventati bombaroli per reazione verso un sistema insulso.

Un uomo che seppe dedicare la sua canzone, la sua preghiera, all'amico Luigi Tenco, scomparso in maniera tragica proprio in occasione di un Festival di Sanremo.

Un uomo perennemente contro corrente che, quando tutti, magari per moda e perché faceva fine, si riempivano la bocca con citazioni di Marx, senza leggerlo o comunque senza capirlo, preferì dedicarsi allo studio ed alla rivisitazione dei “Vangeli Apocrifi”, riuscendo così nella non facile impresa di umanizzare la figura di Gesù Cristo, il “più grande rivoluzionario di tutti i tempi”,  e raggiungendo vertici insuperati di lirismo e di preghiera (1)

Un uomo che, grazie alla sua originalissima rivisitazione in musica, seppe contribuire alla diffusione in Italia di quel capolavoro della letteratura americana che va sotto il nome di “Antologia di Spoon River” (2)

Un uomo che, nel momento in cui l'Inglese sembrava diventato l'unica lingua nella quale potersi esprimere negli affari come nella musica, si battè per la riscoperta dei dialetti ed ebbe il coraggio di lanciare sul mercato (e con inatteso successo) un intero disco in lingua genovese e diverse canzoni in sardo. (3)

Un uomo che, un paio d'anni prima dell'esplosione di “Tangentopoli”, seppe denunciare il malaffare che caratterizzava da troppo tempo questo povero paese.

Un uomo che, sul finire degli anni Novanta, in tempi di immigrazione crescente e di razzismo strisciante nei confronti delle minoranze, mise al centro delle sue composizioni i nuovi emarginati, ovvero i travestiti, gli immigrati e gli zingari.

Un uomo, un poeta, un genio sempre CONTRO. Contro il potere. Contro l'ipocrisia. Contro le mode effimere.Ma nel contempo sempre PER. Per gli ultimi. Per gli emarginati. Per gli sconfitti. L'avrete capito tutti: quell'uomo, quel poeta, quel genio si chiama, si chiamava, Fabrizio De Andrè.

E così, mentre il nostro Marco racconta, Mao e l'altro Marco interpretano con sapienza passando da “Il Gorilla” di Brassens a “La Città Vecchia”; da “Bocca di Rosa” a “Preghiera in gennaio”; da “Canzone del maggio” a “Il Testamento di Tito”; da “Un Giudice” a “Don Raffaè”; da “Monti di Mola” in dialetto gallurese a “Anime Salve”; dal super classico “La Canzone di Marinella” alla ironica e forte “Il Bombarolo”.Intanto, dietro di loro, davanti ai nostri occhi, scorrono immagini che riportano con la memoria alla storia del nostro paese. Che conducono là fuori, oltre quella porta, ad una città compressa tra il mare ed i monti e forse per questo fonte di ispirazione per i voli fantasiosi di geniali poeti e cantautori. Una città che  Fabrizio amò profondamente, anche se la vita lo portò ad abbandonarla prima per Milano e poi per la Sardegna. Una città alla quale potè ricongiungersi solo dopo la morte, avvenuta, troppo presto, nel gennaio del 1999.

Lo spettacolo si avvia alla conclusione con una versione trascinante de “Il Pescatore” cui il pubblico si unisce battendo ritmicamente le mani, e con l'ironia tranchant di “Cara Maestra” di Luigi Tenco, omaggio ad un altro grande della canzone genovese cui “Le Voci del Tempo” hanno recentemente dedicato uno dei loro lavori.

E' finita. Troppo in fretta. Le cose belle finiscono sempre troppo in fretta. Lasciamo il locale sicuramente più ricchi di quando ci eravamo entrati e ci avventuriamo nell'aria “spessa carica di sale, gonfia di odori” (4) dei vicoli della “Città Vecchia”, stasera illuminati da una splendida luna piena.  Attorno a noi gruppi di giovani si dedicano a quella che, con un termine oggi molto in voga, viene definita “movida”. Chissà se al grande Fabrizio sarebbe piaciuto questo ritorno alla vita dei suoi “Caruggi” tanto amati e ora spezzati in due: una parte ancora abbandonata e in mano a papponi e spacciatori, e l'altra conquistata da branchi di giovani mezzi o tutti ubriachi. Non lo sappiamo. Non lo sapremo mai. E alla fine forse non ci interessa neppure. Siamo invece abbastanza certi di ciò che il grande Faber avrebbe pensato dell'Italia di oggi. Ma questa è un'altra storia che magari merita di essere raccontata, ma non adesso.

Me ne torno a casa e mi accorgo che è tardissimo. Devo assolutamente cercare di dormire. Domani la sveglia suona praticamente all'alba. Il treno per Torino parte alle otto, e mica aspetta!E sì....perché domani a Torino gioca il Toro. E io voglio esserci. Come sempre.Ma a questo penserò appunto domani. Ora, prima di prendere sonno, sento soltanto il desiderio di fare una riflessione sullo spettacolo che abbiamo visto stasera.  Faber è un grandissimo, e questo lo sapevamo bene. Ma sappiamo anche che sono stati talmente tanti gli “omaggi post mortem” che ha ricevuto da  renderli talvolta superflui ed addirittura banali, pur nella grandezza indiscussa delle canzoni. Al contrario, quello di questa sera non è stato soltanto uno spettacolo di canzoni ben eseguite. Quello che abbiamo fatto stasera è stato un viaggio nel nostro paese, nella sua storia e nelle sue infinite contraddizioni. Ora mi appare chiaro anche perché all'inizio ci avevano un po' sorpresi cantando “L'Italiano”. Questo infatti è davvero uno spettacolo sull'Italia e sugli Italiani. Ma un'Italia un po' diversa da quella che di solito ci raccontano certe televisioni, certi giornali, certi libri e certe canzoni. Grazie davvero, ragazzi, per le emozioni che ci avete dato. Grazie per aver omaggiato Genova proprio nella sera in cui, se Faber fosse ancora stato qui con noi, avrebbe compiuto settantuno anni.Speriamo di rivederci presto da queste parti, magari con la rappresentazione dedicata a Luigi Tenco o quella, bellissima e commovente, sul grande Gigi Meroni.

Cari fratelli di virus, se vi capita (e cercate di farlo capitare!), andate a vedere gli spettacoli di Marco, Mao e Marco. Merita davvero. Parola di uno di voi. Detto questo, rimettiamoci pure a pensare al Toro. E, se vogliamo, al Festival di Sanremo che quando leggerete queste parole sarà peraltro finito già da un pezzo