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C’era una volta in Italia

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di Marco Peroni
Redazione Toro News

Nelle fabbriche Olivetti di Ivrea, nel giorno della vigilia di Natale 1955, Adriano Olivetti tenne il seguente discorso alle maestranze, agli impiegati e ai dirigenti della Ditta. “Amici lavoratori della ICO, della OMO, della Fonderia, dei Cantieri esattamente sei anni or sono, il 24 dicembre 1949 rivolsi a voi, da questo microfono, un breve messaggio in occasione di quel Natale ed iniziai passando in rassegna gli avvenimenti più salienti di quell’anno. Mi sia consentito anche oggi a tanta distanza di tempo, iniziare riassumendo quanto è passato nella nostra fabbrica negli anni più recenti. Verso l’estate del 1952 la fabbrica attraversò una crisi di crescenza e di organizzazione che fu appena visibile a tutti, ma che fu non di meno di una notevole gravità. Fu quando riducemmo gli orari; le macchine si accumulavano nei magazzini di Ivrea e delle Filiali, a decine di migliaia. L’equilibrio tra spese e incassi inclinava pericolosamente: mancavano ogni mese centinaia di milioni. A quel punto c’erano solo due soluzioni: diventare più piccoli, diminuire ancora gli orari, non assumere più nessuno; c’erano cinquecento lavoratori di troppo; taluno incominciava a parlare di licenziamenti. L’altra soluzione era difficile e pericolosa: instaurare immediatamente una politica di espansione più dinamica, più audace. Fu scelta senza esitazione la seconda via. In Italia, in un solo anno, furono assunti 700 nuovi venditori, fu ribassato il prezzo delle macchine, furono create filiali nuove a Messina, Verona, Brescia, alle quali si aggiunsero più tardi quelle di Vicenza e di Cagliari. La battaglia, condotta dal dottor Galassi, validamente coadiuvato dai suoi collaboratori, fu vinta d’impeto, e diciotto mesi dopo il pericolo di rimanere senza lavoro era ormai scongiurato; la battaglia era costata molte centinaia di milioni che non potevano essere equilibrati se non da una migliore organizzazione delle fabbriche. La lotta continuò in tutto il fronte dell’esportazione: in Germania, in Belgio, in Inghilterra, negli Stati Uniti; furono create nuove filiali a San Francisco, Chicago. Francoforte. Colonia, Hannover, Dusseldorf lo sforzo fu ovunque intenso. In questi ultimi anni le nostre Consociate sparse in tutto il mondo si andarono riorganizzando, ampliando, rafforzando e il nome Olivetti è diventato una bandiera che onora il lavoro italiano nel mondo. (…) Se oggi si vendono ogni mese mille Divisumma negli Stati Uniti o mille portatili in Germania o centinaia di Summa 15, di Studio in Inghilterra, gli è che i nostri migliori uomini si affaticarono in viaggi talvolta estenuanti, misero a punto, tra difficoltà che altre società non riuscirono a superare, la nuova macchina organizzativa, senza modelli davanti a noi. Nel campo dell’elettronica, ove soltanto le più grandi fabbriche americane hanno da anni la precedenza, lavoriamo metodicamente da quattro anni e ci siamo dedicati a un campo nuovo. Tra pochi mesi sarà resa nota l’esistenza di una nostra macchina elettronica e presentata qui a Ivrea ai tecnici e alle rappresentanze dei lavoratori: si tratta di una macchina completamente originale, che sotto la guida dell’ing. Dino Olivetti, Michele Canepa e altri ingegneri di Ivrea hanno messo a punto nel nostro laboratorio di ricerche avanzate. Essa avrà una memoria di 5000 posizioni ed appartiene alla classe di media grandezza. Siamo al promettente principio di più ampi sviluppi. Una nuova sezione di ricerca potrà sorgere nei prossimi anni per sviluppare gli aspetti scientifici dell’elettronica, poiché questa rapidamente condiziona nel bene e nel male l’ansia di progresso della civiltà di oggi. Noi non potremo essere assenti da questo settore per molti aspetti decisivo. Con ciò tuttavia nessun pericolo incombe sulle nostre produzioni: come l’industria aeronautica non ha fermato lo sviluppo di quella automobilistica, così le calcolatrici elettroniche non sostituiranno, almeno per molto tempo né le addizionatrici, né le calcolatrici meccaniche. Esse si aggiungono soltanto a render possibile l’esistenza efficiente dei grandi organismi e a procurare a tecnici ed operai italiani nuove occasioni di lavoro. Nessuno deve meravigliarsi quindi che la nostra amministrazione, giustamente prudente, abbia posto dei rigidi limiti a nuovi impegni finanziari fino a che il punto culminante di questo sforzo ingente non sia superato. (…) Il nostro Ufficio Personale operò alacremente, nonostante le gravi difficoltà di ogni ordine, e si è andato via via perfezionando; assistenti sociali operano fuori della fabbrica, altre nell’interno, per facilitare gli spostamenti. Il lavoro di questi uffici è arduo, spesso incompreso; ma questi organi diventano a poco a poco più sensibili e più esatti onde le ingiustizie e gli errori purtroppo frequenti nel passato, è giusto il riconoscerlo, vanno man mano riducendosi. Non cesseremo ogni sforzo per dare a questo così delicato meccanismo uomini, autorità e mezzi crescenti. E voglio anche ricordare come in questa fabbrica, in questi anni, non abbiamo mai chiesto a nessuno a quale fede religiosa credesse, in quale partito militasse o ancora da quale regione d’Italia egli e la sua famiglia provenisse. (…) Organizzando le biblioteche, le borse di studio e i corsi di molte nature in una misura che nessuna fabbrica ha mai operato abbiamo voluto indicare la nostra fede nella virtù liberatrice della cultura, affinché i lavoratori, ancora troppo sacrificati da mille difficoltà, superassero giorno per giorno una inferiorità di cui è colpevole la società italiana. Sia ben chiaro che è lungi da noi il pensiero che queste mete importanti non sostituiscono né il pane, né il vino, né il combustibile e non ci sottraggono quindi al dovere di lottare strenuamente alla ricerca di un livello salariale più alto, quello che darà finalmente la vera libertà che è data ad ognuno soltanto quando può spendere qualcosa di più del minimo di sussistenza vitale. E questa duplice lotta nel campo materiale e nella sfera spirituale - per questa fabbrica che amiamo - è l’impegno più alto e la ragione stessa della mia vita. La luce della verità, usava dirmi mio Padre, risplende soltanto negli atti, non nelle parole. Noi non ci siamo perciò sottratti - insieme al Consiglio di Gestione - all’imperativo morale di provvedere in talune occasioni in difesa delle minoranze. Alludo alle 1539 famiglie che hanno avuto questa estate praticamente raddoppiati gli assegni familiari di loro competenza; queste famiglie hanno avuto in tal modo un beneficio di qualche rilievo (…) Su questa linea proseguiremo nei limiti delle possibilità, senza esitazioni. Poiché sono stato con voi nella fabbrica, conosco la monotonia dei gesti ripetuti, la stanchezza dei lavori difficili, l’ansia di ritrovare nelle pause del lavoro la luce, il sole e poi a casa il sorriso di una donna e di un bimbo, il cuore di una madre. Perciò sono stato io a lanciare l’idea di arrivare qui nella nostra fabbrica per primi a ridurre l’orario, a realizzare gradualmente ma decisamente la settimana di cinque giorni. Ci vollero più di quarant’anni di storia fatta di lavoro per giungere a questo punto: nessuno deve meravigliarsi se questo evento, in seguito alle circostanze e alle difficoltà che vi ho dianzi elencate, non si è realizzato con la precisione di un cronometro; e nella nostra storia tre mesi o sei non contano, purchè le conquiste siano vere, durature, frutto di meditate esperienze e di situazioni coerenti. Ma per togliere ogni nube tra noi e soprattutto riaffermare una questione di principio posso oggi darvi un annuncio: ieri sera è stata raggiunta un’intesa tra la Direzione dello stabilimento di Agliè e quella Commissione Interna. In forza di questo accordo gli orari di Agliè saranno ridotti di un’ora e mezza ogni settimana a partire dal 1 marzo. Esso anticipa analoghi accordi che qui seguiranno, fermamente io credo, prima dell’estate. (…) Contemporaneamente i lavoratori di quella fabbrica per non essere danneggiati dalla riduzione d’orario riceveranno l’aumento necessario per riequilibrare il guadagno. Da molto tempo non prendevo la parola dinanzi a voi perché mi era sembrato «difficile» il farlo se non a fronte di motivi seri ed importanti. Né possa sembrarvi questo mancanza di considerazione o di riguardo: e nemmeno le malattie, le occupazioni e le preoccupazioni del mio lavoro giustificherebbero una così lunga assenza. Ma fin dal tempo che studiavo al Politecnico di Torino i mattoni rossi della fabbrica mi incutevano un timore e avevo paura del giudizio degli uomini che passavano lunghe ore alle macchine quando io invece disponevo liberamente del mio tempo. Ora che ho lavorato anch’io con voi tanti anni, non posso le stesso dimenticare e accettare le differenze sociali che come una situazione da riscattare, una pesante responsabilità densa di doveri. Talvolta, quando sosto brevemente la sera e dai miei uffici vedo le finestre illuminate degli operai che fanno il doppio turno alle tornerie automatiche, mi vien voglia di sostare, di andare a porgere un saluto pieno di riconoscenza a quei lavoratori attaccati a quelle macchine che io conosco da tanti anni (…). Tutta la mia vita e la mia opera testimoniano anche - io lo spero - la fedeltà a un ammonimento severo che mio Padre quando incominciai il mio lavoro ebbe a farmi: «ricordati - mi disse - che la disoccupazione è la malattia mortale della società moderna; perciò ti affido una consegna: tu devi lottare con ogni mezzo affinché gli operai di questa fabbrica non abbiano da subire il tragico peso dell’ozio forzato, della miseria avvilente che si accompagna alla perdita del lavoro». Mi illudo perciò di non avere ignorato le vostre aspirazioni, i vostri desideri, i vostri bisogni. Poiché i vostri dolori, le vostre sofferenze, e i vostri timori e le vostre speranze sono da sempre le mie; per anni nella preghiera di ogni giorno non ho mai di certo pensato al mio pane quotidiano ma potevo rivolgere un pensiero appassionato perché mai il lavoro di cui il pane è il simbolo non vi venisse a mancare e che questa fabbrica fosse protetta e prima e durante e dopo il tempo di una terribile guerra, in una parola che la Provvidenza aiutasse un comune destino giacché Essa mi aveva assegnato un compito e una precisa responsabilità verso di voi. (…) Nel corso di tanti anni di lotte, di avversità, in quegli anni tenebrosi del fascismo e della guerra, dell’occupazione e della resistenza che ebbe tra voi i suoi martiri e i suoi eroi eravamo tutti accomunati in una stessa lotta contro uno stesso nemico; ma la fabbrica e la città vissero in salvezza poiché la Provvidenza aveva visibilmente steso un suo soffio di protezione. Quella profonda unità vorremmo che si mantenesse oltre ogni divisione. Nello sconsolato mondo moderno, insidiato dal disordinato contrasto di massicci e spesso accecati interessi, corrotto dalla disumana volontà e vanità del potere, dal dominio dell’uomo sull’uomo minacciato di perdere il senso e la luce dei valori dello spirito, il posto dei lavoratori è uno, segnato in modo inequivocabile. (…) Amici lavoratori della ICO, della OMO, della Fonderia, dei Cantieri, volgendo al termine di questo lungo messaggio permettete che io vi ricordi un messaggio più alto, che vecchio di duemila anni accende domani, su tutta la terra, il cuore di tutti gli uomini di buona volontà, per la salvezza e la redenzione del mondo. Ritornando tra poco alle vostre case vogliate portare alle vostre madri, alle vostre spose, ai vostri figli la speranza in un destino più alto e più lieto, il sereno conforto di una parola di amore e di pace. Con la pienezza di questi sentimenti mi è caro augurare a voi tutti e ai vostri cari qui vicini o in terre lontane, Buon Natale e Buon Anno Nuovo". Ing. Adriano Olivetti

 

Un abbraccio a tutti, Marco Peroni