mondo granata

Com’è triste Licata

Redazione Toro News
di Walter Panero

1989. Colori ed odori d’autunno. Le Langhe d’autunno sono uno spettacolo di colori. Le viti, ormai liberate dal peso dei grappoli d’uva che stanno per diventare vino, assumono le tinte più diverse. Foglie ancor verdi che non vogliono rassegnarsi al trascorrere del tempo ed al mutare delle stagioni. Foglie dalle sfumature diverse che vanno dal giallo chiaro, all’arancione, fino al rosso scuro. Foglie che, dopo una lunga lotta, si sono infine arrese ed ora giacciono per terra trasportate qua e là dal vento. Foglie ormai morte che scricchiolano sotto i piedi di chi cammina tra quelle colline alla ricerca di qualcosa.C’è chi, accompagnato da un cane ed armato di fucile, vi si avventura alla ricerca di animali da cacciare. C’è chi scava cercando tartufi, per poi rivenderli al mercato del sabato a qualche ricco ristoratore di città lontane che li farà pagare a peso d’oro ai propri clienti. Ci sono giovani signore che salgono per i sentieri bagnati con scarpe dagli alti tacchi e si lamentano perché così facendo rischiano di cadere o di bagnarsi i piedi; ma non vengono minimamente sfiorate dall’idea di indossare dei gambali. Non è elegante indossare i gambali. E poi devono pur avere un pretesto per prendersela con i loro compagni che le hanno costrette a lasciare le loro città piene di bei negozi per venire sin qui dove, a detta loro, non c’è nulla se non desolazione e puzza di campagna. Io vengo in Langa soprattutto per osservarne i colori. Molti trovano deprimenti i colori dell’autunno, ma forse lo pensano perché la tristezza si è impossessata dei loro cuori vuoti. Vengo in Langa anche per respirarne gli odori. L’odore acre della terra umida coperta di foglie e di muffa. L’odore dei boschi. L’odore della campagna. L’odore dell’autunno che avanza inesorabile. Anche le cascine qui in Langa hanno un loro odore. Odore di frutta matura e di vino che cresce nelle cantine. Odore di sugo che cuoce per ore come per prepararsi all’inevitabile matrimonio con i tajarin o con gli agnolotti. Odore di carne arrostita o lessa. Odore di tavole imbandite e di pranzi della domenica. Le lunghe domeniche trascorse nell' attesa di un duplice evento: il solenne pranzo dai nonni, sempre uguale e sempre diverso, ed il collegamento della radio che è l’unico mezzo per seguire le partite.Tante partite vissute e sofferte con la radio in mano calpestando le foglie. Scalciando per la rabbia le mele marce in occasione di qualche gol subito. Saltellando tra le foglie quando Ameri o Ciotti annunciavano un nostro gol. Come quella volta in cui Junior, grazie ad una punizione, sistemò il Milan. Come quella volta in cui Serena, all’ultimo minuto, ci regalò un derby che, alla fine del primo tempo, credevamo di aver perso. Come quella volta che….

A Licata! A Licata!

Cammino solo tra i filari con la mia radiolina verde in mano. La stessa radiolina che, qualche anno fa, mi annunciò i gol di Dossena, Bonesso e Torrisi nel derby più bello. Sarebbe ora di sostituirla facendomene regalare una più moderna. Ma per oggi mi accontenterò ancora di lei. Oggi il Toro gioca a più di mille chilometri da qui, in un posto di cui, fino alla scorsa estate, ignoravo praticamente l’esistenza. Ora, invece, ho imparato benissimo dove si trova. Licata è in provincia di Agrigento, nella Sicilia meridionale. Si tratta di una cittadina di circa 40.000 abitanti, che sono meno di quelli di Moncalieri o di Rivoli, tanto per parlare di posti che tutti conosciamo.Avrei potuto continuare a fregarmene di Licata e penso che la mia esistenza non ne sarebbe stata sconvolta. Non fosse che oggi, a Licata, scenderà in campo il mio Toro.Sì. Proprio il Toro. Quello che, poco più di tredici anni fa, diventava campione d’Italia. Quello che giocava (e purtroppo perdeva…) le finali di Coppa Italia. Quello che usciva indenne dall’Olimpico di Atene, che distruggeva il Nantes e che espugnava lo stadio di Beveren. Quel Toro per il quale arrivare quinto in campionato era considerato un mezzo fallimento. Quel Toro per cui Junior e Zac erano ormai troppo vecchi e Dossena non più adeguato agli schemi di Radice. Quel Toro che veniva fischiato dopo un pari interno contro l’Inter o contro il Milan. Quel Toro che non esiste più. Quel Toro che lo scorso anno è inaspettatamente retrocesso e che ora, mentre cammino nervosamente tra le foglie, sta per toccare quello che, a mio avviso, è il momento più basso della sua gloriosa storia. Il Licata, che qualche anno fa aveva visto gli esordi del giovane tecnico boemo Zdenek Zeman, ha centrato la sua prima storica promozione in serie B al termine della stagione 1987-88 con Aldo Cerantola alla guida. Nella scorsa stagione, i siciliani sono stati una delle sorprese del campionato: guidati da Giuseppe Papadopulo erano partiti benissimo per poi impantanarsi verso la metà del torneo. Il tecnico pisano venne così esonerato ed il Licata fu affidato a Francesco Scorsa che lo condusse ad un sorprendente nono posto nella classifica finale. Quest’anno i gialloblu siciliani, la cui maglia ha questi colori in onore dei marinai svedesi che imbarcavano lo zolfo prodotto nelle miniere dell’agrigentino (storia simile a quella del Boca Juniors), sono nuovamente affidati a Cerantola. Finora hanno raccolto dodici punti e si trovano a metà classifica, staccati di sette lunghezze da noi che siamo al comando con un punto di vantaggio sul Pisa del vulcanico presidente Anconetani.Accendo la radio e cerco il canale privato su cui sintonizzarmi per la diretta. Il cronista sembra triste, come se fosse accaduto qualcosa di brutto. Capisco che c’è stato un gravissimo incidente. L’interesse suscitato dall’arrivo del Toro nella cittadina siciliana è stato enorme: nel minuscolo stadio “Dino Liotta” sono assiepate circa ottomila persone; mai se n’erano viste tante da quelle parti. Alcuni spettatori, rimasti senza biglietto, sono saliti sul tetto del palazzetto dello sport limitrofo allo stadio per cercare di assistere comunque allo storico match. La tettoia non ha retto ed ha ceduto sotto il loro peso. Si parla di una ventina di feriti. Forse c’è stato addirittura un morto.Ma come quasi sempre accade in questi casi, lo spettacolo va avanti ugualmente. Qualche anno fa, non bastarono trentanove morti per impedire che allo stadio Heysel di Bruxelles si desse vita ad una farsa di cui i gobbi hanno ancora il coraggio di vantarsi. Figuriamoci se per un morto e qualche ferito lo spettacolo si ferma. Si gioca, tra l’entusiasmo della folla ignara.Passiamo presto in vantaggio, grazie a Policano che segna dopo quattordici minuti. Penso che a questo punto sia tutto facile. Forse riusciremo a conquistare finalmente il primo successo in trasferta di questa stagione. E invece no: Minuti pareggia all’undicesimo del secondo tempo e finisce 1 a 1 in un tripudio di folla. Il piccolo Licata ha fermato il grande, o ex grande, Toro. Delusione. Ce ne torniamo a casa ancora una volta a bocca asciutta. Quando riusciremo a rompere questo tabù delle partite in trasferta che dura da tanto, troppo tempo? Intanto, il Pisa ha regolato per 3 a 0 il Pescara e ci ha nuovamente raggiunti in vetta alla classifica. Ci avevano raccontato che la B, per questo Toro, sarebbe stata una passeggiata, e invece siamo lì nel gruppo e proprio non riusciamo a spiccare il volo solitario che tutti ci aspettavamo.Di una cosa sono certo: mai più il mio Toro dovrà giocare su campi come quello di Licata. I teatri in cui i nostri ragazzi si devono esibire sono ben altri: San Siro e l’Olimpico di Roma. O magari il Bernabeu….ma non certo il minuscolo stadio di Licata!

Madrid, Castel di Sangro, Andria ed altre storie.

Nessuno di noi poteva pensare, in quella triste domenica di fine novembre, che poco più di due anni dopo il Toro si sarebbe esibito per davvero al Santiago Bernabeu di Madrid. In poco più di due anni saremmo passati dalle tribune malferme di un minuscolo stadio di provincia, al “miedo escenico” che caratterizza uno dei catini più suggestivi del mondo. Proprio da Licata prendemmo lo slancio per imboccare la strada che ci avrebbe portato a Madrid e ad Amsterdam a giocarci la Coppa Uefa.In quei giorni del 1992, eravamo assolutamente certi che non avremmo mai più visto stadi come il “Liotta” di Licata, se non in occasione di qualche amichevole estiva. La provincia è bella se ci vivi o se la visiti come turista, ma non lo è per niente se ci vai come tifoso del Toro.E invece, non solo non era finita lì, ma ora possiamo dire che il peggio doveva ancora venire. La storia del calcio ha voluto effettivamente che il Toro non mettesse mai più piede a Licata (anche perché i siciliani retrocedettero al termine di quella stagione scivolando inesorabilmente verso l’anonimato). In compenso, abbiamo giocato e perso per ben due volte nella minuscola Castel di Sangro. Ci siamo conquistati la serie A ad Andria. Abbiamo subito un’autentica lezione di calcio a Cittadella.Poco più di tre anni fa abbiamo nuovamente pensato: mai più a Mantova. Purtroppo ora sappiamo che dovremo ritornarci tra alcuni mesi, così come ci toccherà affrontare (sia detto col massimo rispetto) avversarie come il Gallipoli ed il Sassuolo. Non pretendiamo di rivedere il Bernabeu o, così per cambiare, di calcare per la prima volta il prato del Camp Nou, dell’Old Trafford o di Anfield. Ci accontenteremmo di tornare a giocare al Ferraris o a San Siro, magari senza prenderne cinque. Ci accontenteremmo di tornare a disputare il derby, magari evitando di perderlo senza manco giocarlo. Ci accontenteremmo di tornare ad essere una squadra in grado di competere con chiunque. Ci accontenteremmo di respirare l’odore delle nostre campagne d’autunno osservando i nostri figli che esultano per un gol del Toro su campi diversi da quelli di Licata, Grosseto o Cittadella.Da Madrid a Licata saremo sempre fieri di essere granata. Ma speriamo davvero di non doverli vedere più per tanto tempo posti come Licata.