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mondo granata
di Walter Panero
Mi hanno sempre fatto ridere quelli che, quando dico che vengo dalla Liguria, mi ribattono sempre: “Ah che bello! Beati voi che avete sempre il sole!”. Oppure: “Che meraviglia! Da voi c'è il mare!”. Di solito, in questi casi, li lascio dire e faccio un sorriso di circostanza.Che ci venissero un po' loro a vedere se da qui riescono a scorgere il mare. Io non ci sono mai riuscito. Certo, se hai buone gambe puoi salire fin lassù dove si vedono quei monti imbiancati anche adesso che siamo a marzo, e vedere lo spettacolo azzurro che si estende davanti ai tuoi occhi. Oppure, devi avere una buona immaginazione come facevamo noi da piccoli: i nostri genitori ci avevano detto che dall'altra parte c'era il mare, ma noi non lo avevamo mica mai visto. Però, di notte, ce lo sognavamo lo stesso.Che ci venissero loro a vedere se qui c'è il sole, quando d'inverno la temperatura non supera quasi mai gli zero gradi manco di giorno. Quando il sole si alza appena su quei monti per poi andarci a dormire dopo pochissime ore. Sappiamo che dall'altra parte di quelle montagne fa più caldo di qui. A volte molto più caldo. Sappiamo che, quando qui nevica, dall'altra parte piove. Che quando di là c'è il sole che attira i primi turisti all'inizio della primavera, qui ce ne vuole ancora un bel po' perché si esca dall'inverno.Siamo Liguri di confine. Il nostro dialetto è un dialetto di confine. Se un Genovese ci sente parlare tra noi può pensare che siamo Mandrogni e quindi Piemontesi. Un Piemontese ci identificherà invece subito come Liguri, anche se magari riuscirebbe a capire che il Genovese è una lingua piuttosto diversa dalla nostra.Io poi sono sul serio mezzo Piemontese, perché mio papà era di Novi che, anche se lo chiamano Ligure (non ho mai capito perché, ma penso che lo facciano per trarre in inganno gli ignoranti nei giochi a quiz) è Piemonte per davvero.
Il mio povero papà, che è morto da una ventina d'anni dopo essere sopravvissuto a due guerre, mi ha lasciato tante cose, ma le più importanti sono soprattutto tre.La prima è la fede calcistica. Qui sono quasi tutti o Genoani o Sampdoriani, poi c'è qualche gobbo (quelli purtroppo li trovi ovunque) e una manciata di milanisti o interisti. Invece io sono di un'altra parrocchia: da bambino, papà mi parlava spesso di una squadra che, quando lui era giovane, aveva vinto due campionati, anche se poi uno glie lo avevano tolto per ragioni che io non riuscivo a comprendere. Ricordo che una volta, doveva essere finita da poco la guerra, mio padre mi portò a Genova a vedere una partita contro una squadra di quella città che si chiamava Sampierdarenese. Quante emozioni quel giorno: era la prima volta che prendevo il treno e anche la prima volta in vita mia che vedevo il mare che, fino a quel momento, mi ero solamente immaginato. La squadra per cui teneva papà si chiamava Toro ed aveva la maglia di un bel colore rosso scuro che mi piaceva molto. Oltretutto, quella squadra vinse facilmente per 5 a 0 con un gol del numero 11, due del numero 5 e due del 10 che, per quel poco che ne capivo, era sicuramente il più forte di tutti. Da quel momento divenni tifoso di quella squadra. Alla faccia di tutti quelli che al paese mi guardavano male quando me ne andavo in giro sventolando una bandiera che mi ero costruito con un ramo e un pezzo di panno che avevo rubato in sacrestia. Non era esattamente il colore della maglia della mia squadra, ma un po' le somigliava. E andava bene lo stesso. Andò bene per festeggiare tutte le vittorie di quell'anno sia contro il Genoa che contro l'Andrea Doria che, raccontò la radio, il Toro sconfisse ancora per 5 a 0 con due gol di Mazzola (il numero 10 di cui parlavo prima), due di Gabetto e uno di Ossola. Papà mi disse che il Toro era diventato Campione d'Italia: io avevo nove anni e non capivo perfettamente che cosa significasse. Ma vedendo quanto era felice mio padre comprendevo che si trattava di una cosa molto importante. E ne felice anche io.
Il tempo passava ed il Toro continuava a vincere. Batteva le squadre milanesi. Umiliava la Juventus. Distruggeva le genovesi (nel frattempo Sampierdarenese e Andrea Doria si erano unite dando vita alla Sampdoria). Seppelliva i nostri quasi amici dell'Alessandria (come avrei voluto esserci quella volta in cui si vinse per 10 a 0 proprio contro i grigi). Vincevamo campionati su campionati ed io ero sempre più fiero di non essermi fatto influenzare da nessuno e di aver seguito la fede calcistica di mio padre. Quando giravo per strada con qualcosa di granata addosso, tutti mi guardavano con un misto di invidia e di ammirazione. Fino a quel brutto giorno di maggio, quando mio papà arrivò a casa piangendo: qualcuno giù in paese gli aveva dato una notizia così tremenda, che lui subito si era rifiutato di crederci. Poi, purtroppo, la radio diede la conferma. Tutti, proprio tutti, erano saliti in cielo. “Papà torneranno per vincere il prossimo campionato, vero?” dissi un po' ingenuamente. Il babbo piangeva. Mi guardava e piangeva. L'avevo visto piangere così solamente quando, qualche anno prima, era morta la mia povera mamma. Tutti in paese piangevano. Piangevano i Genoani e i Doriani. Piangevano persino i pochi gobbi. Io stesso non sapevo fare nient'altro che piangere. E anche adesso, se ripenso a quel momento, mi vengono le lacrime agli occhi.Da allora, il Toro divenne per me una specie di religione. Tutte le domeniche accendevo la radio per seguire le partite. Quante passeggiate con la radio in mano. Quante gioie. Quante arrabbiature. Quando fui più grande e riuscii a permettermi una macchina, cominciai, di tanto in tanto, a seguire la mia squadra. Andavo a Genova. Andavo a vedere qualche partita in casa. Ero presente a quel Toro-Cesena che ci consacrò Campioni d'Italia dopo tanti anni. C'era pure mio padre. E anche quella volta lo vidi piangere come in quel brutto giorno di ventisette anni prima. Ma erano lacrime completamente diverse. Continuai ad andare allo stadio insieme ai miei due figli maschi, ai quali ho attaccato la mia malattia, per tutti gli anni Ottanta e per parte dei Novanta. Poi, col Toro che diventava sempre meno Toro e gli anni che aumentavano, cominciai a limitare la mia presenza sugli spalti. Ma nelle partite decisive faccio di tutto pur di esserci: così ero presente allo spareggio col Mantova. Quest'anno non sono ancora riuscito ad andare su a Torino a vedere il nostro Toro, ma le ho viste quasi tutte in televisione; però sarò pronto a partire se, come spero, alla fine del campionato dovessimo giocarci qualcosa di importante.
La seconda cosa che mio padre mi ha lasciato è questo nome che mi ritrovo. Qui in paese tutti mi hanno sempre chiamato Tino e pochi sanno che il mio vero nome è Costante. Fin da piccolo, papà mi spiegava che quello era il nome di Girardengo, un grande ciclista delle sue parti. Un corridore che aveva vinto due Giri d'Italia e tante altre corse importanti. Il corridore che deteneva il primato assoluto di vittorie in quella che papà, e tutti qui in paese, chiamavano semplicemente la Corsa. Un primato che, diceva papà, mai nessuno avrebbe potuto battere e nemmeno avvicinare.E qui veniamo alla terza cosa importante che mi ha trasmesso mio papà: la passione per le corse ciclistiche e in particolare per la Corsa. Mio padre diceva sempre che nel mondo c'erano tante corse importanti: si correva in Francia, si correva in Belgio, si correva in Spagna e in tanti altri posti dell'Italia. Ma nessuna gara poteva rivaleggiare per bellezza e per prestigio con la Corsa. All'epoca non ne sapevo abbastanza per ritenere che le cose stessero in modo diverso da come la pensava lui. Per me il ciclismo era uno sport bellissimo e quella era davvero l'unica corsa che valesse la pena vincere. D'altra parte, quale gara poteva essere più importante di quella che passava ogni anno a marzo proprio nel nostro paese?La prima volta che mio papà mi portò a vedere la Corsa me la ricordo come adesso. Era festa ed avrei voluto rimanermene a dormire visto che non si andava a scuola, ma mio padre mi buttò giù dal letto molto presto. Prendemmo le bici e ci incontrammo con altre persone nella piazza del paese. Poi da lì, tutti insieme, salimmo pian piano sul colle. Per me, che avevo circa dieci anni, quella era una salita molto dura. La più dura che avessi mai affrontato. Altro che la rampa che portava fin su alla nostra cascina dove sfidavo sempre gli amici. Pensavo che difficilmente si potesse fare più fatica di quella che feci io quel giorno. La mie gambe erano di pietra e avevo il fiatone, avrei voluto fermarmi, bere qualcosa, tornare indietro. Invece quelli proseguivano imperterriti lungo i tornanti in cui si era già assiepata diversa gente che parlava i dialetti più diversi. Finalmente papà si fermò e potemmo scendere dalle nostre bici e mangiare qualcosa. Papà mi indicava la strada sotto di noi. Mi diceva che quello era il punto migliore perché da lì si vedevano diversi tornanti più sotto e così avremmo potuto godere in pieno dello spettacolo. Mi disse anche che quello era il tratto più duro della salita il che ci avrebbe permesso di riconoscere meglio i corridori. Mi annoiavo. Il tempo sembrava non trascorrere mai. Ogni tanto chiedevo a mio padre quando saremmo potuti tornare a casa. Ma lui mi faceva cenno di smetterla e di tacere e diceva che presto sarei rimasto conquistato da quello che avrei visto. Sinceramente non ne ero così sicuro e di una cosa ero certo: seguire il calcio era decisamente più comodo che andare ad aspettare i ciclisti in cima ad una salita.Di tanto in tanto passava qualche moto o qualche macchina alzando un grande polverone. Non avevo mai visto così tante automobili come quel giorno. Ma non eravamo venuti a vedere una corsa ciclistica? Non osavo più chiedere nulla a mio padre. Forse avrei capito, un giorno.Ad un certo punto vidi che la gente cominciava ad agitarsi. Anche quelli che se ne stavano seduti tranquilli ai bordi della strada si alzarono e iniziarono a guardare verso valle. Il rumore delle macchine si faceva ancora sentire, ma ad esso si sovrapponeva un vociare crescente. Si sentivano urla. Si sentiva gente che applaudiva. Mio padre mi prese in braccio per cercare di farmi vedere qualcosa: indicava col dito un punto verso il basso. Ma io non riuscivo a vedere nulla se non tanta gente come non ne avevo mai vista prima. Il vociare della gente aumentava ancora. Vedevo persone che saltellavano. Che agitavano le mani. Che applaudivano. All'improvviso, la folla si aprì ed io potei vedere un uomo magro che spingeva una bicicletta. Mulinava le lunghe gambe con una potenza incredibile. Sembrava quasi non facesse fatica se non fosse stato per il fatto che, di tanto in tanto, arricciava il naso. Papà sembrava impazzito. Non l'avevo mai visto così neanche quando mi portava allo stadio. Tutta la gente sembrava impazzita. “Forza! Forza Fausto!” gridavano tutti. Anche io, che non avevo la minima idea di chi fosse quell'uomo solo, mi unii al loro coro. Fu un' emozione così grande che, ancora oggi, se ripenso a quel momento, mi tremano le gambe e mi viene un groppo in gola. Continuavo ad applaudire mentre tutti gli altri corridori passavano, chi in assoluta solitudine, chi dando vita ad un piccolo gruppetto. Papà mi spiegò che l'uomo in testa alla corsa era il degno erede di Girardengo, anche perché proveniva pure lui dalle nostre parti. Durante la guerra aveva vissuto a Sestri Ponente e spesso si allenava su quelle strade. Aveva già vinto un Giro d'Italia e, in futuro, avrebbe potuto conquistare anche il Tour de France. Quel giorno vinse la Corsa con quattordici minuti di vantaggio sul secondo classificato dopo 145 chilometri di fuga solitaria. Una grandissima impresa, diceva papà. E io gli credevo ciecamente.Quell'uomo si chiamava Fausto Coppi. Di imprese simili ne avrebbe fatte ancora tante, prima di andarsene anche lui troppo presto. A volte mi chiedo perché la gente alla quale mio padre ed io abbiamo voluto bene (compresa la mia cara mamma) se ne sia andata troppo giovane. Mio padre diceva sempre che così noi ce li possiamo ricordare sempre com'erano senza che su di loro il tempo abbia lasciato il proprio segno. Penso che avesse ragione, ma io sinceramente avrei preferito che fossero rimasti con noi un po' più a lungo.
Da quella volta, tutti gli anni, quando viene marzo, comincio a contare i giorni. Sento, annusando l'aria, che la primavera si sta avvicinando e so che con essa, dalle nostre parti, sta per arrivare quella che per tutti è la Classicissima di Primavera, ma per me è e resta semplicemente la Corsa. Con mio padre non ci siamo persi una sola edizione. Sia che ci fosse il sole, sia che piovesse, noi inforcavamo le nostre bici e salivamo sul Colle ad aspettare i corridori. Abbiamo visto passare grandissimi campioni: da Coppi ad Anquetil, da Bobet a Nencini, da Van Steenbergen a Van Looy, da Dancelli (il primo italiano a rivincere nel 1970 dopo diciassette anni di digiuno) a De Vlaeminck, da Gimondi a Merckx (che con sette vittorie battè il record stabilito da Girardengo), da Saronni a Moser, fino ai giorni nostri.
Sul finire degli anni '80, papà si ammalò gravemente ma questo non gli impedì di venire ancora sulla strada a vedere la Corsa. L'unica differenza era che non salivamo più in bici ma in automobile. L'ultima volta che seguimmo insieme la Corsa fu nel 1990. Quel giorno sulla strada c'erano anche i miei figli. Papà ebbe ancora la forza di alzarsi ed applaudire tutti. Di gridare un “Forza Gianni” per sostenere Bugno che vinse quell'edizione. Dopo qualche giorno lo portammo all'ospedale e fu da lì che prese la bici per intraprendere il suo ultimo viaggio.L'anno dopo, quando c'era da applaudire Claudio Chiappucci, il babbo non era più con noi. Probabilmente vide la Corsa da lassù con i suoi idoli di gioventù: Girardengo, Coppi, Capitan Valentino e tutti gli altri Angeli. Così come vide da lassù le quattro vittorie di Zabel, i successi di Freire, di Cipollini, di Bettini e di tanti altri. Per non parlare degli scatti del Pirata che, prima di salire lassù a sua volta, vinse tante gare ma mai la nostra Corsa.Voglio credere che anche oggi, come ogni anno, mentre io e la mia famiglia saremo sulla strada ad attendere, si ritrovino anche loro, ovunque siano, a vedere la Corsa insieme.Una volta applauditi tutti i corridori, dal primo all'ultimo, noi ce ne torneremo a casa a vedere come sempre l'arrivo di Sanremo ed a soffrire per il nostro Toro. Penso proprio che non saremo soli.
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