Danilo Careglio, classe 1970, firma il suo primo contratto con il Torino nel 1981 a neanche undici anni. Fa tutto il settore giovanile e gioca con future stelle del calcio nazionale come Dino Baggio. Con la maglia granata vince per due volte di fila il campionato con la Berretti (1987-88 e 1988-89), due Coppe Italia con la Primavera (1988-89 e 1989-90) e un Torneo di Viareggio (1989). Sarà poi protagonista di una carriera da calciatore tra C e D con Monopoli, Belluno, Pinerolo, Cuneo e Saluzzo. Oggi allena da nove anni il Perosa (Prima categoria) e sta per tagliare il traguardo delle 500 panchine dopo alcune avventure nel calcio dilettantistico. Ha scritto, con l'ausilio di Marco Magrita, Fila, un sogno color granata. Il libro è un bel ritratto degli anni ruggenti del Filadelfia come ineguagliabile fucina di talenti calcistici. L'autore raffigura l'ambiente granata ed il suo valore umano ed educativo, partendo dalla sua esperienza personale con un carico di trasporto emotivo non indifferente. Insieme a Toro News, Careglio parla del libro e di quello che era il Filadelfia.
ESCLUSIVA
Danilo Careglio e il suo libro sul Fila: “Ecco cosa c’era di speciale lì dentro”
La firma del contratto nel 1981 l'ha portata a vivere l'epopea di Vatta e dell'avvocato Cozzolino. Che ricordi ha di loro?
"Io ho vissuto tutti gli anni Ottanta nel settore giovanile del Torino perché il primo approccio è stato verso la fine del 1980 con alcuni provini ed allenamenti all'Agnelli. Poi abbiamo siglato il contratto a marzo dell'anno successivo quando avevo appena 10 anni e mezzo. Come ho scritto nel libro, l'avvocato Cozzolino incuteva un certo timore perché aveva questa postura molto austera, di poche parole, con uno sguardo molto alto, come se stesse sempre osservando qualcos'altro. Poi, piano piano, dopo aver fatto tutta la trafila e l'approdo in Primavera il rapporto è un po' cambiato perché lui vedeva i calciatori della Primavera come giocatori arrivati alla fine di un percorso, quindi c'era un rapporto un pochettino più diretto ed era anche più facile farsi ascoltare. Per quanto riguarda Vatta è stato un allenatore al posto giusto nel momento giusto perché ha contribuito a costruire e valorizzare questa organizzazione capillare fatta di tanti allenatori bravissimi che da un anno all'altro selezionavano e mandavano alla categoria superiore giocatori sempre più pronti. Lui ha sempre detto che raccoglieva i frutti del lavoro precedentemente fatto, ma il biennio di Primavera era sicuramente un periodo di affinamento totale, perché, oltreché calciatori, si diventava anche sportivi di un certo tipo. Lui si arrabbiava moltissimo con chi simulava, perché pensava che noi non avevamo bisogno di farlo e che questo non dava merito al nostro valore che sarebbe bastato per vincere. Poi, sicuramente, è stato un grande innovatore perché nel nostro biennio introdusse uno psicologo, il dottor Brunelli, con cui cominciammo a lavorare già in ritiro. Lui era eccezionale nel non far pesare l'importanza di un impegno e noi arrivavamo carichi ma sereni. Anche lui da fuori incuteva timore perché durante le partite era davvero molto focoso".
Ha passato tutta l'adolescenza al Fila o comunque nel settore giovanile del Toro. Veniva data un'importanza particolare allo studio e ad un certo tipo di comportamento da tenere?
"Il Filadelfia rappresentava il termine di un percorso perché quando si arrivava al Torino si veniva dirottati nei mille campi di periferia della città e un signore anziano mi disse subito: "Tu potrai considerarti a tutti gli effetti un giocatore del Toro solo quando ti allenerai qui (riferendosi al Fila)". Questo perché all'epoca lì si allenavano solamente la Primavera e la Prima Squadra e le altre categorie facevano solamente delle apparizioni sporadiche: ad esempio, quando giocavo nella Berretti giocavo le gare casalinghe al Fila, ma non lo frequentavo ancora settimanalmente. Questo l'ho fatto solo dalla Primavera. Il mondo Toro di quegli anni era davvero a 360 gradi: c'era la sede di Corso Vittorio Emanuele II dove c'era la signora Teresa e il signor Ermes che erano dei genitori putativi per molti dei ragazzi della foresteria. C'era un clima all'interno di quel luogo molto simile al telefilm "Saranno famosi", tipico di quegli anni. Per quanto riguarda la scuola i dirigenti cercavano di far capire ai ragazzi che non si poteva stare in sede ad aspettare solamente gli orari degli allenamenti, ma si facevano scuole serali e normali. Naturalmente i brutti voti potevano essere causa di esclusione dagli allenamenti e dalle partite. Poi quello che mi è rimasto dentro è stata l'educazione al rispetto delle persone: per esempio al Filadelfia quando facevo la Primavera era un dovere essere cortese con i tifosi. Erano guai se questo non avveniva: ricordo benissimo di un compagno sgridato sonoramente dal mister perché era andato via trattando sgarbatamente un signore che gli si era avvicinato. L'allenatore sapeva che il Torino erano prima di tutto loro ed era giusto perciò rispettarli. Tutto questo mi ha fatto crescere dal punto di vista sportivo, ma soprattutto umano. L'obiettivo era insegnarci ad assumerci le nostre responsabilità, non nascondendoci davanti alle nostre mancanze. Questo è stato il grande messaggio che ci ha dato mister Vatta e il mondo del Filadelfia".
Che squadra era quella della foto del libro che vinse il trofeo Barcanova nel 1989?
"Era consuetudine che i calciatori del primo anno di Primavera meno impiegati quando c'erano partite importanti della Berretti andassero a giocare nella categoria minore. Quell'anno lì quindi giocai quel torneo in finale contro la Lazio al Comunale di Torino. In semifinale avevamo incontrato la Sampdoria di Enrico Chiesa, padre di Federico. Feci anche la finale d'andata dello Scudetto Berretti a Napoli, poi al ritorno non potei partecipare a causa della rosolia. Quel Napoli era forte con Ferrante centravanti e con un trequartista di livello che si chiamava Enrico Bonocore e che cercava di assomigliare a Maradona".
Si vedeva già il valore della magica nidiata che poi andò a costituire l'ossatura della squadra che fece la cavalcata in UEFA e vinse la Coppa Italia?
"Quella fu la Primavera precedente alla mia, quella di Venturin, Sordo, Fuser, Lentini, Di Sarno, Bolognesi... Alcuni, come questi ultimi due, rimasero ancora in Primavera l'anno successivo perché erano del '70 e io entrai a far parte di quella squadra. Quelli dell'ossatura di Amsterdam sono stati i ragazzi che ci hanno preceduti, infatti sulla nostra maglia faceva bella mostra lo Scudetto e la Coppa Italia. Noi completammo l'opera perché rivincemmo la Coppa Italia, ma soprattutto il Torneo di Viareggio. Io in tre anni, tra Berretti e Primavera, ho vinto due Scudetti Beretti, due Coppe Italia Primavera ed un Torneo di Viareggio. Poi anche il Torneo Barcanova (a livello giovanile tra i più importanti a Torino) e poi il Carlin Boys a Sanremo contro la Juventus ai rigori".
Ebbe dei contatti con qualche giocatore di quegli anni della Prima Squadra?
"Uno dei punti di forza del Filadelfia di quell'organizzazione stava proprio nel fatto che nello stesso corridoio c'era lo spogliatoio della Primavera e lo spogliatoio della Prima Squadra. Ricordo perfettamente la partitella del giovedì con la Prima Squadra. Ricordo Luis Muller e Policano. L'ultimo mio anno a Torino fu quello della Serie B e il Toro fece una straordinaria cavalcata solitaria. Questa esperienza a contatto coi giocatori era veramente molto importante perché loro ci davano consigli e venivano a vederci. In molti casi ci chiedevano di indossare per un mesetto le scarpe nuove per cercare di sformarle, questa era una consuetudine molto bella e spesso poi ce le lasciavano a noi. C'era un bel clima e si partecipava molto delle vittorie, ma anche delle sconfitte della Prima Squadra. Il mio primo anno in Primavera fu quello della retrocessione a Lecce e Vatta andò a fare le ultime tre partite sulla panchina della Prima Squadra. Fece esordire anche parecchi miei compagni di squadra. Noi percepimmo nitidamente che in quel periodo eravamo per i tifosi molto importanti perché eravamo l'unica squadra che poteva dare delle soddisfazioni. Stare al Fila con i ragazzi della Prima Squadra è stato sicuramente bellissimo".
C'erano figure particolarmente evocative anche tra quelle che lavoravano più nelle retrovie?
"Era un mondo, un microcosmo, nel quale tutti i sentimenti, positivi e negativi, venivano fuori. Mario sembrava sempre molto burbero però poi era uno che dava anche l'anima. Brunetto Vigato bisognava avere la fortuna di beccarlo nel giorno giusto perché prima di avere un paio di scarpe nuove era necessario presentare quelle vecchie distrutte. La cura del materiale faceva parte del percorso di crescita dei nuovi calciatori del Toro. La signora Carla era sempre molto dolce perché sapeva come prendere noi ragazzi e riconosceva quando c'era qualcosa che non andava. Era un mondo di persone che sapevano stare al loro posto, creando allo stesso tempo un clima positivo e rispettoso, sempre proiettato al fare e al risultato sportivo quindi alla crescita umana".
Ha fatto le giovanili nel Toro e poi ha allenato squadre come il Pinerolo e il Perosa. Si nota una differenza particolare tra i due ambienti?
"Il mondo dei dilettanti da quello dei professionisti è completamente diverso perché l'organizzazione e gli obiettivi sono diversi ed è normale che sia così. Spesso accade che, raccontando queste mie esperienze, mi venga fatta l'obiezione legata al cambiamento del mondo del calcio dopo alla sentenza Bosman. Secondo me ci sono dei tratti specifici che hanno ancora assolutamente una validità fondamentale nella creazione di un settore giovanile e prolifico. Alludo all'organizzazione capillare e alla scelta di allenatori di primissimi livello, da ragazzini maestri di calcio e dopo magari con un passato da professionisti per dare il giusto approccio mentale. Questo ha un valore attualissimo. Per evitare che il ragazzino scappi alla prima offerta importante è necessario creare un fortissimo senso di appartenenza, che si può creare solo coccolando e crescendo i calciatori in luoghi che per loro diventano simbolici. Una grandissima forza di quel settore giovanile stava nei luoghi, nelle persone e nel modo di approcciarsi che creava un fortissimo senso di appartenenza. Forse l'Atalanta oggi riesce ancora a farlo. Nel libro uso la parola sobrietà per descrivere quel settore giovanile. Il superfluo non era di quel mondo: c'era l'essenzialità e l'andare in fondo alle cose importanti, lasciando i fronzoli. Noi eravamo orgogliosissimi di quella maglia, la sentivamo proprio come una seconda pelle. Quella magia incredibile la sto percependo quando incontro i vecchi compagni di squadra. Di recente ho incontrato ad una serata a San Secondo di Pinerolo Alvise Zago, che non vedevo da più di trent'anni. Quello che scrive Luigi Vatta nella prefazione, quando dice che la magia sta nel fatto che questi ragazzi del Fila sono rimasti eternamente tali, è verissimo. Noi siamo quelli lì ancora oggi e sentiamo fortissimo quel senso di appartenenza nato da un'esperienza unica, e fondamentale per la nostra vita, che ci ha accumunati".
Il calcio di oggi è cambiato, ma il sistema Fila può essere un valore aggiunto anche per il Toro di oggi, una delle squadre che è tra quelle con il più alto numero di stranieri in Serie A?
"Può essere un vero valore aggiunto nella misura in cui ci siano delle persone che raccontino queste cose. Tutto questo patrimonio simbolico, che nel mio libro si rinnova, forse lo racconta per la prima volta una persona dall'interno. Quella parte lì per me è stata tutta la mia vita con il Toro e come tale è fondamentale nella narrazione. Se ci fosse la possibilità di avere ex ragazzi del Fila che facciano gli allenatori che possano spiegare che si può essere diversi in un mondo omologato come quello attuale, sarebbe stupendo. Si può essere diversi perché noi lo siamo stati. Mi sto muovendo anche per presentare il libro nelle Academy. Quel Toro non era una società economicamente fortissima: l'avvocato Cozzolino spiegava che c'era un grande settore giovanile perché si puntava su ragazzi di qualità, facendo una selezione enorme. Nel 1982 i tesserati del Toro non arrivavano ad ottanta e il calcio era enormemente più popolare, oggi il numero di tesserati si contano a centinaia. La selezione forse è oggi meno stringente. Registro invece che la Juventus sta producendo buoni calciatori dal settore giovanile. Le seconde squadre possono essere molto di aiuto per questo e il caso di Miretti ne è un esempio lampante. Crescere in un ambiente più riparato e dove si è seguiti meglio fa maturare molto meglio i calciatori. Magari anche per me le cose sarebbero andate diversamente se non fossi andato al Sud dopo il settore giovanile del Toro".
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