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mondo granata
"Cosa narra il Decameron? Narra di un gruppo di giovani che per dieci giorni si trattengono fuori da Firenze per sfuggire alla peste nera che in quel periodo imperversava nella città, e che a turno si raccontano delle novelle di varie tematiche. Sull’idea di Giovanni Boccaccio vorremmo strutturare qualcosa di simile insieme a voi. Il Decreto #iorestoacasa ci costringerà giustamente a rimanere nelle nostre abitazioni fino al 3 aprile. E allora perché non sforzarci con la memoria e provare a ricostruire alcuni nostri frammenti di vita rigorosamente granata. Momenti che giacciono nella nostra testa, ma potrebbero tenere compagnia e regalare emozioni ad altri “colleghi di fede”. Come Toro News, vorremmo creare un casolare virtuale granata, sull’esempio di Boccaccio, così come le storie che vorremmo che voi condivideste con noi e con tutti gli altri “fratelli” del Torino. Un modo per tenerci impegnati e per liberarci per qualche momento dei cattivi pensieri. Continuiamo dunque con la trentatreesima giornata di novelle.
"MANDA LA TUA NOVELLA GRANATA A redazione@toronews. net
"Luigi Radice è l'allenatore che ricordo con maggior affetto. Il motivo per cui mi è rimasto impresso è perché mio padre mi portava allo stadio a vedere il suo Toro. Anche a Emiliano Mondonico sono affezionata. L'anno che i ragazzi del Mondo facevano il ritiro a Torre Pellice e gli allenamenti a Luserna sono riuscita a parlargli. Persona simpaticissima, conservo ancora l'autografo, così come quello di Annoni.
"Sempre Forza Vecchio Cuore Granata
"Patrizia Ricuperati
Marco Ghione ci ha inviato un suo contributo in cui ci racconta la sua prima volta allo stadio, tema delle scorse puntate del Decameron:
La mia prima volta allo stadio, un semplice racconto di una domenica all’inizio degli anni ’70, da cui tutto cominciò?
No, di più, molto di più, oggi si direbbe: come un drone, dai colori granata, che volteggia incontrollato su 50 anni di vita con il Toro nel cuore, episodi reali, piccole storie, dalle tinte granata che, una dopo l’altra, ci portano fino ai nostri tristi giorni dell’Aprile 2020.
Dalle immagini ormai lontane di quel bambino, alla vigilia dei suoi 10 anni, alla realtà di oggi, un uomo quasi sessantenne, trapiantato a Milano da 20 anni, e oggi bloccato in casa come tutti dal Covid-19.
C’era una volta una domenica di fine Gennaio, non particolarmente fredda, siamo nel lontano 1971.
Terminata la colazione, come da abitudine, salivo sulla vecchia Singer di mia mamma, per raggiungere il calendario appeso al muro, in alto, e staccare dal blocchetto il foglietto del giorno prima che, in quel mattino di Gennaio, riportava la scritta in nero Sabato 23, per lasciare così spazio al nuovo foglio con la scritta rossa indicante Domenica 24.
A fianco della Singer una vecchia televisione, in legno, ricevuta qualche mese prima in premio da mio fratello dal mitico Don Mino, Parroco della Chiesa della Divina Provvidenza, per dei lavoretti da lui eseguiti nella precedente estate.
Nonostante la novità questa nuova televisione stentava a prendere il posto della sottostante radio, grande anch’essa, con i suoi 5 bottoni a scatto in primo piano che parevano dei denti sorridenti, sopra, quasi in centro, l’occhio magico, e ai lati le due grosse manopole che parevano orecchie.
Infatti da quella radio, tutti i venerdì alle ore 13, imperversava la Hit Parade che, in quella settimana, aveva sentenziato in classifica Iva Zanicchi con ben due canzoni, Lucio Dalla con 4 Marzo 1943, i Pooh, con ancora Riccardo Fogli, anch’essi con due brani, poi Bruno Lauzi, Mina, e Lucio Battisti al primo posto.
In quelle giornate di sole invernali, non fredde, ricordo che, mentre tornavo a casa, nel breve tragitto dalla Scuola Elementare John Kennedy, dalle finestre aperte, capitava spesso di sentire tutte le radio sintonizzate sullo stesso canale RAI, unico a trasmettere musica, che diffondevano tutte insieme la stessa piacevole colonna sonora.
Non avevo una mia cameretta, dormivo nell’ingresso, in un letto a ribalta come tanti avevano.
Al muro il poster di Aldo Agroppi con la maglia della Nazionale Italiana, occasionalmente bianca con una banda azzurra.
Torniamo però a quella domenica, non avevo ancora 10 anni e non ero mai stato allo stadio, all’uscita dalla Messa alcuni bambini Juventini si davano appuntamento all’oratorio per il dopo il pranzo poiché al pomeriggio non dovevano andare allo stadio con i papà, la Juve giocava infatti a Firenze dove vinse poi 2 a 1.
Lo stadio!
Si un vero miraggio, chissà come doveva essere bello andarci, pensavo!
Mia mamma in settimana aveva ricevuto la bolletta del telefono, con un importo doppio rispetto al solito.
Dopo aver assistito alla sgridata fatta a mio fratello diciottenne decisi di confessare: la bolletta era lievitata così tanto, non per colpa delle sue telefonate alla fidanzata Valentina, ma per gli innumerevoli tentativi da me compiuti per contattare i malcapitati omonimi torinesi dei calciatori del Torino.
Ne ricordo uno per tutti, molto gentile, un certo Claudio Sala, presente sull’elenco telefonico, più semplicemente all’epoca chiamata guida, che aveva un negozio di articoli sportivi in Corso Agnelli, anche lui tifoso del Toro, che, ad ogni mia telefonata, tentava in ogni modo di spiegarmi che non era lui l’altro Claudio Sala, quello che cercavo, il poeta del goal.
Mio fratello era interista, già meglio che bianconero direte voi, disinteressato però allo stadio preso dalle fidanzate, dalla scuola guida, dagli amici della Scuola Avogadro che frequentava e da tanti altri interessi.
Mio papà non aveva fedi calcistiche, operaio alla Fiat Grandi Motori.
Grazie ad un suo turno di lavoro domenicale, avevamo evitato, come molte altre volte capitava, il consueto viaggio nella campagna astigiana dai nonni, con la fiammante 600 di colore celeste dove, io e mio fratello, trovavamo posto nel sedile posteriore incastrati tra pacchi e pacchettini senza necessità della allora sconosciuta cintura di sicurezza.
Mia mamma decise quindi, dopo le mie disperate implorazioni, di sospendere per una volta le faccende di casa, il suo lavoro di sarta che svolgeva spesso anche nei giorni festivi, e di portarmi allo Stadio sperando così di fermare anche i miei costosi tentativi telefonici, che avevo fatto per tutto il mese precedente alla ricerca di un segno, di una voce, di un qualcosa che mi facesse vivere più da vicino l’ambiente granata.
Del resto era stata proprio lei, mia mamma, a trasmettermi la passione per quel colore, qualche anno prima, ai tempi di Gigi Meroni, la Farfalla Granata.
Le immagini di quel ragazzo esile che con il suo stile, semplice ed estroso, esprimeva l’evoluzione dei tempi in modo pacato, in maniera pulita ed educata, figlio di gente come era la mia, ma molto avanti rispetto a tutti, la cui prematura scomparsa mi avrebbe definitivamente inchiodato al Toro sempre per sempre.
Andando indietro di qualche anno ricordo infatti che era appena iniziato il primo anno di scuola elementare, mi presi subito le orecchioni, all’epoca si stava a casa molti giorni e un lunedì mi svegliai con mia mamma, e le altre giovani signore del condominio, che piangevano tutte per quel ragazzo dal viso pulito, per quel loro fratello minore che ci aveva lasciato.
Sento ancora la disperazione della Sig.ra Nepote che continuava a non rassegnarsi all’idea che Gigi non era riuscito a fare un’acrobazia delle sue in corso Re Umberto, un gesto atletico, a cui era abituato, che gli avrebbe permesso di evitare l’automobile e di salvarsi dal tragico incidente.
Quei giorni struggenti, il rievocare da parte degli adulti, sportivi e no, di fede granata e no, la precedente disgrazia aerea del 49 che colpì altri uomini importanti, fecero maturare in me un sentimento che mi ha poi sempre accompagnato nella vita non solo nell’aspetto calcistico, la capacità di calarsi sempre con una corda nella profondità di ogni dettaglio, la ricerca dell’emozione, la consapevolezza di seguire cammini illuminati da storie autentiche.
Era stata quindi proprio mia mamma a indurmi quell’amore spontaneo, senza dottrina e senza fatica, per il Torino e, ripensando a quella mia mamma, non ancora quarantenne, era il nostro modo per sentirci più vicini per volersi ancora più bene, in altre parole io e lei non potevamo essere di una squadra, eravamo infatti di quella squadra, non poteva che essere così.
Tornando al 24 Gennaio 1971, l’incontro con il Bologna era la giusta occasione per il debutto alla stadio, il derby, o una partita con il Milan o con l’Inter, avrebbe messo mia mamma più in difficoltà poiché un maggiore pubblico sviluppava maggiori timori per lei che non era stata mai allo stadio.
Il viaggio da Via Pietro Cossa allo Stadio, con il mitico vecchio rumoroso 62, durò un eternità, una volta scesi, le bandiere, i rumori sempre più persistenti.
La spesa fu di 300 lire in totale, grazie alle precise dritte di un attempato poliziotto Palermitano che abitava sopra di noi, da molti anni in città e tifoso del Torino, guadagnammo una buona posizione nonostante la calca.
La vista del rettangolo verde di gioco dalle gradinate della curva maratona, era un sogno diventato finalmente realtà!
L’annuncio delle formazioni, le maglie granata, il sole negli occhi, il bel Bologna schierato con la maglia bianca con una bella banda rossa e blù.
Iniziò la partita, non vedevo niente perché stavano tutti in piedi, sentivo mia mamma ridere, si divertiva a sentire le imprecazioni in dialetto torinese dei più anziani spettatori che, poco più di vent’anni prima, avevano visto, in un certo campo a poca distanza, chiamato Filadelfia, le prodezze di Valentino Mazzola e compagni, ma quella è un’altra storia che purtroppo non ho vissuto.
Il mio cuore batteva sicuramente più di quello dei calciatori, tra gambe e braccia della gente avanti a me, riuscivo ogni tanto a intravedere il Giaguaro che vigilava la porta, Luciano Castellini era lì, in carne e ossa, poco distante, sopra di me tamburi martellanti con i cori che scandivano più volte il Forza Vecchio Cuore Granata che mi dava brividi allora come oggi.
Poco prima della fine del primo tempo, un boato più forte mi fece capire che avevamo segnato, mia mamma non riusciva a capire chi fosse l’autore del goal, sopra di me i Fedelissimi urlavano: “E’ lui è lui, è Gianni Bui”.
Capii che era stato proprio lui l’artefice del vantaggio granata.
Nell’intervallo capitò qualcosa che, ancora oggi, stento a credere quando il mio pensiero torna indietro di quasi 50 anni.
L’altoparlante annunciò un incendio in un condominio della zona Francia, per uno scoppio a causa di un guasto nelle tubature del gas, si invitava quindi il pubblico ad uscire al termine della partita in modo ordinato e scaglionato al fine di non intralciare i mezzi di soccorso che si stavano recando sul posto, a quel tempo, in certe situazioni, si usava così.
Mia mamma con il suo solito esagerato senso di ubbidienza innato, anche preoccupata per quanto comunicato dallo speaker del Comunale, decise di lasciare lo stadio tra i primi e così, alla metà circa del secondo tempo, eravamo già di nuovo sul 62.
Perdemmo il primo autobus poiché, nell’attesa, un po’ contrariato per l’uscita anticipata, per rivivere i momenti trascorsi all’interno dello stadio, nel tentativo di imitare un gesto atletico di Pulici visto poco prima, una scarpa mi partì dal piede finendo oltre il muretto all’interno della scuola di via Tripoli.
Mia mamma mi fece immediatamente scavalcare il muretto della scuola per il recupero forzato e immediato della costosa calzatura della domenica, fui più veloce del cane lupo del custode, rigorosamente senza museruola.
Il pericoloso quadrupede decise infatti, per mia fortuna, di fare un sopralluogo in quella parte del giardino della scuola solo nei minuti successivi, quando ormai ero già salvo, nuovamente sul marciapiede, dopo il coraggioso salto.
Con la faccia contro il motore dell’autobus, accanto all’autista, le cui vibrazioni ad ogni semaforo mi trasmettevano fastidio e solletico insieme, la mia gioia, per quella prima domenica allo stadio, a tratti veniva offuscata dalla preoccupazione che leggevo negli occhi di mia mamma per quanto stava sentendo in merito all’incendio.
Qualcuno sul pullman aveva la radiolina transistor ma, a tratti, le sirene dei soccorsi mi impedivano di sentire Enrico Ameri e Sandro Ciotti nel tutto il calcio minuto per minuto, capii solo per intuizione che la partita era intanto finita e che avevamo vinto 1 a 0.
Giunti in piazza Massaua il 62 proseguì a passo d’uomo, quel fumo dalle finestre di un palazzo di fronte alla Venchi & Unica mi terrorizzava e impedì di godermi sia la vittoria che il dopo partita della mia prima rocambolesca presenza allo stadio.
Sirene ambulanze, la confusione in atto, bloccarono la mia contentezza, l’esuberanza per il mio debutto al glorioso Comunale, ogni entusiasmo fu soffocato e di conseguenza anche il desiderio del racconto che nessuno ascoltava poiché tutti presi da ciò che di brutto stava accadendo nel quartiere.
Giunti a casa, mancava il gas, l’avevano tolto in tutta la zona, mangiammo un panino, la luce tornò poi solo verso le 10 di sera, giusto in tempo per sentire le interviste, in onda alla domenica sportiva, a Claudio Sala e al Grande Giacomo Bulgarelli che si complimentava con il Torino, con sana sportività, per la vittoria di misura ma meritata.
Altri tempi!
Nella primavera successiva mia madre fu costretta, dalla mia insistenza, a portarmi anche ad un provino nei Pulcini del Torino, in Piazza Robilant.
Fui scartato, con grande mia delusione, il portiere Sattolo presente alla selezione salendo in auto, mentre aspettavamo il filobus 34 che ci avrebbe riportato nelle vicinanze di casa, consolò la mia amarezza poiché il colpo, credetemi, fu davvero pesante.
Tra gioie e dolori, negli anni successivi seguirono tante altre domeniche allo stadio, con zii, cugini, il mitico Cagliari di Gigi Riva, La Lazio di Chinaglia sotto un acquazzone senza precedenti che mi lasciò i capelli umidi per lungo tempo.
Altre domeniche con gli amici, attraverso le finestre dei bagni dalla curva maratona passavamo nei distinti centrali, poi di nuovo in maratona con lo stupore di Vittorio, giovane fotografo della Stampa, nostro vicino di casa, che dal campo seguiva stupito i nostri malfatti minacciando con gesti evidenti di riferirli ai nostri genitori.
Non posso negare la mia gioia di dodicenne al goal di Rep, il 30 Maggio del 1973, che firmò così la mancata conquista della Coppa dei Campioni dei cugini Juventini.
Il caro amico Carlo, Juventino, mi accompagnò per le orecchie fuori dalla porta di casa sua dove ci eravamo riuniti per assistere al tentativo bianconero della prima vittoria della coppa più ambita, per altro mai scusatosi, come giusto che sia.
Per molti anni venni stipendiato con 100 lire alla settimana da suo papà (tifoso granata) per lo sfottò che dovevo praticare nei riguardi del figlio ad ogni sconfitta della Juventus, paga doppia se la sconfitta sopraggiungeva nel derby con il Torino.
Torino in quegli anni era anche questo.
Poi il colbacco di Giagnoni, il suo scudetto sfiorato nel 1972, quello conquistato nel 76 con il pressing all’olandese di Gigi Radice, inculcato a quei ragazzi che ho rivisto al suo funerale e che avrei voluto abbracciare per l’intensità umana che ancora una volta sono riusciti a trasmettere: campioni d’Italia nel calcio per un anno, campioni sempre nella loro vita di tutti i giorni, anche ora con i capelli grigi.
Grandi persone, grandi uomini, fuori nel parcheggio della casa di riposo di Monza un Signore non più giovane, al mio arrivo, raggiungeva veloce la propria auto piangendo, ho capito solo dopo che era Renato Zaccarelli che andava via perché, a stare lì, proprio non ci riusciva.
La loro forza trasformò in scudetto un idea nuova di calcio.
Poi gli anni 90, la sedia alzata da Mondonico in Olanda, nella sfortunata finale di coppa dopo la vittoria con il Real Madrid al Delle Alpi.
Le sconfitte in serie B, ricordo una sabato sera freddissimo sulle gradinate del Delle Alpi ad assistere alla sconfitta con la Cremonese penultima in classifica.
Poi storia più recente, il Torino di Ventura a Bilbao, Quagliarella & Darmian 2 Juventus 1, gli ultimi incontri a San Siro con Milan e Inter, il goal di Moretti all’ultimo minuto, a poche centinaia di metri da dove oggi abito.
Tanti capitani si sono succeduti a Ferrini nella lettura dei caduti di Superga fino a Glik e Belotti.
Rimangono tutti qui goal di Pulici, le sue corse verso la Maratona, braccia alte e pugni chiusi, i tanti derby vinti con Zoff che raccoglieva palloni nella rete, i 3 goal in 2 minuti il 28 Marzo 1983, la buca di Maspero che nel 2001 difese il 3 a 3 in rimonta.
Dedico questo racconto al Grande Paolo Pulici che, con quelle sue due braccia alzate con i pugni chiusi che toccavano il cielo ad ogni suo goal, mi ha regalato le più belle emozioni, in quelle domeniche in bianco nero, inteso come tv, per lunghi anni e che ancora oggi mi fanno compagnia con grinta e tenerezza insieme.
Un grazie a mia mamma, che sta per compiere 90 anni, per aver condiviso con me la passione per il Toro in tutti questi anni, per avermi insegnato a non farmi attrarre dalle urla provenienti dal carro dei vincitori ma di individuare valori importanti tra le lacrime di chi perde, di chi sa soffrire.
Oggi vivo a Milano, ho due figlie interiste, nate a Milano, a cui non sono riuscito a trasmettere la mia fede granata ma che riconoscono nella squadra del Torino valori unici, nonostante le disgrazie calcistiche di questo inizio 2020, rispettando la mia struggente passione che spero di essere riuscito a esprimere a tutti voi in questo modesto e umile racconto.
Marco Ghione
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