DECAMERON GRANATA, RACCONTATECI LA VOSTRA PRIMA VOLTA ALLO STADIO
mondo granata
Decameron granata, ecco la raccolta definitiva: un grazie ai nostri lettori
Il Decameron granata mi porta a ripercorrere a ritroso un cammino iniziato nell’ormai lontano 1949 quando bimbetto di 5 anni in spalla a mio padre ho assistito al funerale degli “Invincibili” tra la folla che assiepava piazza Castello. Lì è iniziato il mio “granatismo”che si è poi sviluppato gradualmente nel corso degli anni e anche grazie alla passione di mio cognato, che con la sua Lambretta spesso mi portava al Fila ad assistere ai mitici allenamenti del giovedì pomeriggio. Nella stagione 1959\60 ( la nostra prima in B) mio padre per “premiare” il mio “decoroso”andamento scolastico decise di regalarmi il mio primo abbonamento. Che emozione! Mi rigiravo tra le mani quel sottile cartoncino sul quale volta volta venivano punzonati gli ingressi e tuttora lo conservo come una reliquia. La mia prima partita ufficiale la vidi quindi con mio cognato al Filadelfia in occasione del nostro esordio in B che, se la memoria non mi tradisce, avvenne contro la Sambenedettese. Partita vinta in una bolgia incredibile dei trentamila presenti tra un tripudio di bandiere: era la “fossa dei leoni”. Altri tempi e chissà mai se…
Sempre FVCG!!
GC Natali.
Ero già andato altre volte allo stadio con mio papà, ma la prima partita che ricordo con chiarezza è la prima casalinga del primo campionato di serie B, al Filadelfia. Era la fine di settembre del 1959. Lo stadio era colmo all’inverosimile. Si calcola che almeno cinquemila persone non riuscirono ad entrare. E pensare che molti alla fine del campionato precedente, finito con la prima penosa retrocessione dicevano: “Ve-u mai pì a vedde ‘l Tor”, ed invece la passione e l’amore…Avevo 14 anni; ero attaccato alla rete di protezione tra gli spalti ed il campo, con mio fratello. Una rete di ferro intrecciato, semplice, come si usava allora. Vedevo i giocatori a 2 metri, quando venivano a tirare il “fuori”. Mi ricordo di un giocatore cagliaritano con un calzettone strappato. Un signore vicino a me, disse: “Cui lì a l’han pa’ tanti sold”… La tensione era al massimo, e lo stadio esplose letteralmente quando Beppe Virgili “Pecos Bill” insaccò la prima rete! Che gioia! Il risultato finale fu di 5 a 0. I “portoghesi” sui balconi delle case a fianco si complimentavano fra loro dandosi la mano (l’abbraccio non usava ancora…). Fu l’inizio di una galoppata strepitosa, con il primo posto nel campionato ed il ritorno immediato in serie A. L’amore per il Toro in verità, per me, era già sbocciato l’anno prima, nonostante le sconfitte in serie. Ma se uno si innamora di una persona od una squadra nel momento più difficile, nella sofferenza, non potrà mai più staccarsene.
Sempre Forza Toro!
Luciano Toso, classe 1945
Anno 1961 (i dinosauri non si erano ancora estinti). Dopo un anno nell’altro campionato, torniamo in quello che più ci compete. Era febbraio e faceva freddo, ma entrando nella cattedrale chiamata “Fila” ho sentito un calore dentro. Ero con mio padre che mi disse essere il calore della fede. “Bravo Bruno incominci nel migliori dei modi”. L’avversario era l’Atalanta. Pareggiammo 1 a 1 e della partita non ricordo quasi nulla. Quella fu la mia prima partita e anche se non bella non la dimenticherò mai. Avevo 13 anni ed ero ancora innocente quel tanto da capire per chi tifare!
Bruno Giorsa
…dedicato al Giò
Aprendo un cassetto della memoria, nell’armadio dei ricordi infantili della mia non più verde età, ho trovato una scatola con dentro delle figurine, delle briciole di un vecchio panino ed un biglietto dello stadio; allora mi è venuta forte la voglia di raccontare una storia semplice, una storia che forse in qualche modo, ha incanalato la mia vita, una storia di un’epoca lontana, ma così lontana che sembra quasi impossibile sia esistita. Un’epoca nella quale le famiglie avevano, se va bene, una sola auto, un solo bagno, più figli, difficilmente avevano il riscaldamento, ma i papà lavoravano, i computer invece erano delle cose lontane e occupavano intere stanze di fantastici centri che si vedevano solo alla televisione… già: la televisione, chi l’aveva la condivideva con i vicini, e tutto era rigorosamente in bianco e nero e senza telecomando (… già, a che sarebbe servito con un solo canale?). Un’epoca nella quale tutti, ma proprio tutti, dalla serie A alla terza categoria, giocavano al calcio alla stessa ora dello stesso giorno, la domenica, un’epoca in cui anticipo e posticipo erano parole che non evocavano eventi sportivi, un tempo lontano e magico nel quale la televisione faceva vedere, tassativamente in bianco e nero, solo un tempo della serie A ed uno della serie B, rigorosamente differiti, prima di cena, e su tutti la faceva da padrona la radio a cui tutti incollavano i padiglioni auricolari dalle 15 alle 17…
E’ tutto grigio e fa un freddo cane, guardo fuori dalla finestra: – accidenti che tempo da lupi, non piove ma ci beccheremo sicuro un raffreddore… e poi, io sono debole di gola!
E’ il 1974, domenica 3 marzo… non è una domenica come le altre, mi preparo con agitazione a partire da casa; il cielo sarà anche grigio, ma nel cuore sembra primavera e le sensazioni si sommano: gioia, timore, impazienza… sento le farfalle nello stomaco, mentre le mille raccomandazioni della mamma passano come acqua sul marmo: “stai attento, copriti, non perderti…” uffa!
E’ un regalo del Giò, questa domenica. Lui sì che mi conosce, lui sì è riuscito a capire cosa sento dentro, che cosa la mia timidezza nasconde; è lui che ha insistito con i miei, peraltro non troppo convinti, ma che alla fine hanno ceduto alle mie insistenze ad alla fiducia nel Giò, o Giuanìn, come lo chiama papà.
E allora è arrivato il momento tanto atteso: l’appuntamento è davanti alla “Betulla”, il bar del paese, un po’ prima di pranzo, si deve arrivare presto a Milano, si sa: il traffico, poi l’ingresso e trovare i posti…
Siamo i magnifici 4, o meglio, loro sono i tre moschettieri ed io un passerotto tutto ossa di dodici anni appena compiuti, ma con tanta voglia di andare… è la prima volta da solo con in grandi, è la prima volta allo stadio, si va a Milano per Inter-Torino: è la prima volta a vedere dal vivo il Toro!
Non so come mi sia nata questa passione per una squadra che in questi anni non vince nulla, questa innocente ossessione, questo ritagliare ogni articolo ed ogni fotografia dai giornali invenduti dell’edicola della mamma, eppure al mio papà non interessa nulla del calcio, forse un amico, un compagno di giochi, forse il destino, chissà…
Con Giò, amico di papà, ci sono gli inseparabili cuori granata: ‘l Peru da’n Mijè (quello che ha comperato la 500 e se l’è fatta tingere di granata) lui sa tutto del toto e della sua storia passata, presente e… futura; e il Pierangelo, (lui è il portiere della squadra del paese: forte, spericolato, guascone, invincibile, un vero mito per noi ragazzini), quello che avrei rivisto molti anni dopo, per caso in televisione, un 5 maggio, intervistato dalla RAI a Superga, e lui, proprio lui, commosso, con il magone, a parlare degli Invincibili…
Si parte con il Torino Club di Cossato, siamo pronti, siamo tutti? Perfetto, partiamo, si sale sul pullman, anzi no: la corriera!
Prima esperienza nuova di questa giornata tanto attesa: un panino mangiato sul sedile, durante il viaggio, ascoltando ad occhi sbarrati i discorsi dei grandi… emozionante! “Vedrai, ‘stavolta gliela facciamo vedere, è la volta buona…” barzellette, battute, risate grasse… la porta su di un mondo nuovo!
Poi l’arrivo a Milano, ci si chiude nelle giacche, si deve fare un pezzo di strada a piedi per arrivare a San Siro e fa un freddo cane… le raccomandazioni della mamma.
E poi eccolo: lo stadio! E’ enorme, penso che non vedrò mai più una cosa così grande… Nell’avvicinarsi fra la marea disordinata di persone, si intravedono delle bancarelle: panini e birre, magliette e bandiere… già bandiere… mi fermo e guardo incantato la più bella: è granata, ha un toro nel mezzo e porta tutto intorno, come fosse una costellazione, gli scudetti dei 6 campionati vinti e gli stemmi tricolori circolari delle 4 coppe Italia; oggi credo di poter dire che così si può solo guardare negli occhi il primo amore, che quella fu la dimostrazione che il colpo di fulmine esiste… Giò che probabilmente non mi perdeva di vista un istante deve aver sorriso sotto i baffi che non aveva, non ha parlato, si è avvicinato alla bancarella, ha contrattato il prezzo e, sotto il mio sguardo sospeso fra dubbio e speranza l’ha comperata!
Un attimo dopo, mi ritrovavo ad avvicinarmi agli ingressi in compagnia del mio Virgilio, in viaggio verso il mio paradiso, con le mani strette sino a farmi male, su quella bandiera arrotolata…
E il momento magico continua: entriamo, saliamo le gradinate, siamo sistemati nell’anello in basso, nei distinti, all’altezza della linea di centrocampo. Trattengo il fiato: lo spettacolo è bellissimo, suoni, colori, canti… il campo sembra enorme: ma come faranno a correre per un’ora e mezza in quella prateria?
Mentre siamo in attesa, c’è chi chiacchiera, chi si mangia qualcosa, qualcun altro ha comperato un mignon di Ramazzotti per riscaldarsi, siamo tutti pigiati, e ad un certo punto sentiamo poco lontano un parapiglia… dall’anello superiore qualche tifoso dell’Inter ha pensato bene di far cadere un sacco con qualcosa di bianco, probabilmente farina. La mira del lanciatore è stata senz’altro pari alla sua fantasia, infatti ha centrato perfettamente in testa un signore anziano (o così a me allora è sembrato), il quale in verità non si è scomposto più di tanto…
Ma tutto passa, la partita ha inizio, entrano in campo i miei miti: Castellini, Ferrini, Bui, Lombardo, Cereser, Zecchini, Agroppi, Fossati, Mascetti, Rampanti, Pulici… così vicini che li riconosco, d’altra parte ci incontriamo mille e mille volte ogni giorno sull’album delle figurine… sono tutti in tenuta granata e calzoncini bianchi, che all’epoca erano ridottissimi… corrono, lottano, chiamano palla, imprecano, insomma ci danno l’anima!
Una scena che non so perché, porto stampata nella memoria: Bui, “è lui, è lui, è Gianni Bui” gridano tutti, prende palla a centrocampo e proprio davanti al mio posto, in palleggio volante, senza farle toccare terra (in verità a me sembra che anche lui si muova, o meglio, danzi, a mezzo metro dall’erba…) arriva sino al limite dell’area, dove un difensore interista, (peccato non ci sia più la sedia elettrica) lo atterra… avrei sofferto meno se il calcione lo avesse affibbiato direttamente a me!
La partita prosegue, è la prima partita, sono gioiosamente confuso, non capisco bene se siamo così bravi come a me sembra, o forse spero, e se loro, gli interisti, resisteranno ancora a lungo… ma poi al 40’ ci pensa Boninsegna, un mantovano tracagnotto che un giorno diventerà juventino, a chiarirmi le idee: tira un rigore perfetto, che mette a sedere Castellini ed è 1-0.
Inizia la ripresa, recupereremo!
Infatti, quello che in seguito scoprirò soprannominato Bobo, o Bonimba, insomma, sempre il mantovano con un futuro da gobbo, ci infila la seconda volta, stavolta su azione: è il 54’.
Certo, in campo non ci saranno gli Invincibili, certo non ci sarà Capitan Valentino a rimboccarsi le maniche e fare un cenno ad Oreste Bolmida, il trombettiere del Fila, però, accidenti, adesso sicuramente faremo vedere di che pasta siamo fatti! Ed in effetti i torelli corrono, non mollano mai, sgomitano e scalciano, cercando il bandolo della matassa, dalla panchina il colbacco di Giagnoni sembra vivere di vita sua, ma il tutto non dura più di 10 minuti: sul più bello, al 63’ è ancora lui, Boninsegna, che sembra aver aperto con noi una guerra personale: dal suo metro e settanta, tira fuori dal cilindro un velenoso tiro al volo rasoterra, che il Luciano granata, non ancora in versione “giaguaro” lascia colpevolmente passare per il definitivo 3-0!
E così ce ne andiamo dalla Milano che qualcuno chiamava “da bere” (ma che vorrà mai dire…) con gli sfottò degli interisti nelle orecchie; così finisce questa domenica pomeriggio tanto attesa, tanto sospirata, tanto pregustata. Risalgo sul pullman… pardon: sulla corriera, e non riesco ad essere triste, non ho la rabbia degli altri, non ne capisco le critiche, quelle le capirò molto più avanti negli anni… riesco solo a pensare, o forse lo riesco a pensare solamente adesso, che in quella fredda domenica pomeriggio, la mia prima esperienza è stata una sconfitta, la prima di tante, e non solo calcistiche, eppure una sconfitta felice… e se è vero che sono le esperienze negative che ti fortificano, che ti fanno crescere, è forse proprio allora e proprio per questo motivo che questo colore mi è saltato addosso, e che da allora il mio cuore e il mio futuro non sono potuti che essere granata… come quella bandiera, quella con la B maiuscola, quella del Giò, che ho stretto per tutta la partita, per tutto il viaggio e che ho portato a letto con me quella sera, appendendola poi sopra il mio letto, con la sua costellazione di tricolori, e lì è rimasta, sino a quando quel letto non è stato solo più mio, ma l’ho condiviso con un’altra grande esperienza della mia vita…
Luca Gruppo
Non ricordo un giorno o un avvenimento preciso. Credo di essere nato del Toro.
Probabilmente nel ventre di mia madre udivo i suoi spasmi e la voce tonante di mio padre, mentre ascoltavano la radiocronaca di una partita del Toro. Loro avevano già tanto gioito e tanto pianto. Io ancora non sapevo eppure incominciavo ad assorbire.
A scuola giocavo con le figurine dei calciatori. I miei compagni si comportavano come tutti i compagni: Milan, Inter o quell’altra squadra di Torino, per loro era un gioco. Qualcuno cambiava squadra seguendo il vento, qualche altro la rinnegava di fronte alla prima sconfitta. Altri, ma erano i più innocui, per non sbagliare ne sceglievano due o tre.
Noi del Toro eravamo già diversi anche da ragazzini. Spesso sceglievamo il silenzio, non ci andava di giocare: per noi si trattava di una cosa seria. Gli altri compagni avevano i loro idoli e li chiamavano per nome. I nostri idoli avevano addosso innanzitutto una maglia granata da inzuppare con il loro sudore.
Le partite si ascoltavano alla radio, ogni domenica. Il programma si chiamava “Tutto il calcio minuto per minuto” e lo seguivo assieme a mio padre. Era un rito che ci accompagnava ovunque fossimo: in casa, a passeggiare nel parco, in gita sull’auto appena acquistata, in casa di amici. L’ascolto moltiplicava la nostra fantasia e ci aiutava a capire. Ci abbracciavamo e ci disperavamo, io e mio padre.
Quelle poche volte che la radio era negata allora, appena possibile, correvo sotto i portici verso il Caffè Roma che esponeva ben in vista i risultati della schedina, con gli occhi rivolti a un’unica parola. Era un colpo al cuore qualsiasi fosse il risultato. Perché ero pronto ad accettare anche la sconfitta nella speranza che almeno la prestazione della squadra fosse stata all’altezza. All’altezza del cuore.
Ricordo quella volta che, in assenza dei mie genitori, fui ospitato una domenica presso conoscenti in una baita di montagna. Niente radio, niente risultati. Durante quella notte feci un sogno nel quale mi apparve la schedina del totocalcio con un solo risultato: Vicenza-Torino 1-1. Era il 20 novembre 1960, avevo sei anni.
Il giorno seguente scoprii, con stupore, che quella partita era proprio finita così.
La prima formazione che ricordo recitava: Panetti, Scesa, Buzzacchera, Cella, Lancioni, Berarzot, Crippa, Ferrini, Hitchens, Moschino, Facchin.
L’anno dopo la difesa della nostra porta passò al giovane Lido Vieri che divenne subito il mio idolo. Per Natale, Gesù Bambino mi portò la divisa completa (fatta a mano da una sarta, seguendo la foto di una figurina dell’album). Amavo il ruolo del portiere, come spesso succede, perché è un ruolo anomalo, dove chi lo interpreta deve essere un po’ acrobata e un po’ matto. E un ruolo d’artista.
Ma l’anno successivo arrivarono Law e Backer e bastò poco per amarli.
Ancora i ragazzi non usavano tingersi i capelli, eppure io chiedevo a gran voce a mia madre parrucchiera:
«Mamma, fammi biondo come Law!»
*Venne anche il giorno della prima volta allo stadio a vedere il Toro.
Non avevo ancora otto anni. La partita era Torino-Fiorentina, 1 aprile 1962 e non potevo immaginare come quella data potesse avere anche un significato beffardo.
Andai allo stadio con entrambi i miei genitori e due loro amici toscani, tifosi viola. Era una bellissima giornata di sole e lo stadio enorme e gremito ebbe il potere di anestetizzarmi. I miei occhi carpivano immagini che il mio cervello non riusciva a decifrare. Non provavo altri sentimenti che una felicità assoluta.
In verità, Law e Backer si erano già schiantati contro il monumento di Piazza San Carlo. Backer era già forse tornato nel Galles. In classifica, il Toro veleggiava nella mediocrità, ma nulla avrebbe potuto scalfire l’estasi di quel momento.
Facevo oscillare la mia bandierina nel vento e respiravo a pieni polmoni quell’aria di gioia e di festa. Non mi accorsi nemmeno o forse sorvolai sul dettaglio di due goal della Fiorentina segnati nell’ultimo quarto d’ora. Quell’incanto non poteva neppure essere spezzato da una sconfitta, tuttavia non avevo fatto i conti con la crudeltà umana. Infatti, poco prima della fine, uno dei due toscani mi disse, con un sorriso beffardo:
«Puoi anche smettere di sventolare quella bandierina, tanto non ci raggiungete più.»
Fu un colpo al cuore. D’improvviso la magica atmosfera che aveva riempito i miei occhi e la mia mente si dissolse e apparvero gli sguardi straniti del pubblico e nelle mie orecchie penetrarono i fischi dei tifosi delusi. Trattenni a stento la rabbia, ma subito dopo il fischio di chiusura, appena abbandonate le gradinate, proruppi in un pianto liberatorio, senza che mia madre riuscisse a consolarmi.
Perché io non piangevo per la sconfitta, per la brutta prestazione o per la delusione provata. Io piangevo per rabbia verso chi mi aveva svegliato, brutalmente, da quel bellissimo sogno che avevo costruito nella mia mente per vivere appieno una giornata che doveva essere comunque memorabile.
E memorabile lo fu, ma non come avrei desiderato.
D’accordo, ancora non sapevo, e qualcuno più avveduto avrebbe potuto consolarmi, dicendo:
«Benvenuto tra i tifosi del Toro!»
Il lungo viaggio era dunque incominciato.*
Passarono altre stagioni e altri campionati.
Nella stagione 67\68 il Toro svolge la preparazione precampionato a Cuneo. E’ un’occasione unica per vedere i miei idoli da vicino e così più volte prendo il treno e mi reco allo stadio Paschieroper seguire gli allenamenti della squadra.
L’allenatore è Edmondo Fabbri, reduce dalla disfatta della Nazionale dopo la sconfitta con la Corea ai mondiali in Inghilterra. Il Toro (e chi altro?) gli offre l’occasione per riabilitarsi.
Il suo secondo è Enzo Bearzot, futuro commissario tecnico e campione del mondo. Tra i giocatori spiccano il nuovo idolo, Gigi Meroni e poi Nestor Combin, uno scarto dei “Gobbi”, in cerca di riscatto. C’è anche un giovanissimo Aldo Agroppi, oltre naturalmente a capitan Giorgio Ferrini.
Gigi Meroni non è solo un fuoriclasse (durante l’estate i tifosi hanno, di fatto, impedito il suo trasferimento all’altra squadra di Torino), ma un personaggio a tutto tondo, anticonformista, estroso nella vita come sul campo. Nella soffitta di Piazza Vittorio usa il pennello con la stessa abilità con cui tratta sul campo il pallone, disegna egli stesso gli abiti che indossa, si sposta con un’auto d’epoca (una Balilla) e alle volte passeggia in modo provocatorio, lungo i portici di Via Po, con una gallina al guinzaglio.
Avevo scritto un tema a scuola su di lui: immagina di incontrare il tuo idolo preferito, questa era il titolo. Non avevo fatto fatica ad immaginare di essere un giovane cronista a cui Gigi concedeva un’intervista. Avevo raccontato tutto quello che sapevo di lui e ancora di più. La professoressa di Italiano aveva lodato quel mio scritto ed anzi mi aveva invitato a leggerlo davanti a tutta la classe.
Poi venne quella sera. Dopo la vittoria per 4 a 2 contro la Sampdoria, bastò un gesto avventato di Gigi e quell’auto mise fine alla sua vita, ai suoi e ai sogni di tutti i suoi tifosi.
Conservo un ricordo indelebile di quel gelido lunedì, quando, recandomi a scuola e passando davanti all’edicola accanto al campanile del Duomo, mi bloccai di fronte a quella terribile notizia.
Fu un dolore immenso, mai provato: un senso di disorientamento, di paura.
Arrivato a scuola, trovai Cicci, mio vicino di banco e tifoso granata come me, che piangeva disperato e così continuò per tutta la mattina con la testa appoggiata sul banco. Toccò a me, a ogni cambio di ora, giustificare quel suo comportamento con il professore di turno.
Poi vennero gli anni del “tremendismo granata”, così coniato da Giovanni Arpino nonostante la sua fede a strisce. Furono gli anni di Pulici e Graziani, i gemelli del gol, del Poeta del goalClaudio Sala, di Gigi Radice Sergente di ferro, dello scudetto del ‘76. Quel giorno, Torino-Cesena 1 a 1, con l’altra squadra di Torino che perde a Perugia, ero in un letto di una piccola Pensione milanese con una colica in corso. Non riuscii a vedere nessuna immagine in televisione, stavo troppo male. Soffrivo doppiamente e la felicità della vittoria si fuse con il dolore fisico. Una cosa da Toro, insomma. Il giorno dopo acquistai tutti i più diversi quotidiani trovati in edicola, anche quelli della sera.
Seguirono anni bui, la serie B che diventa quasi un’abitudine, poi la risalita sino a oggi. Eppure…
Eppure, la sera, prima di addormentarmi, c’è sempre spazio per un pensiero sul Toro. Come da bambino. Perché per me il Toro è una realtà trasferita in un mondo fantastico.
Gianmario Bonino
Finalmente! Solo per radiolina potevo seguire i granata, ma……finalmente! Mio zio Piero, fiorentino e viola nel midollo, mi invita a vedere Fiorentina-Torino. 3 dicembre 1961. Law e Baker infiammavano la fantasia del popolo granata e figurate voi un sedicenne, granata fin da bambino! Un pullman, mio zio e all’indomani lo stadio. Un sogno? No, no! E’ proprio vero, sono in gradinata in mezzo a tifosi viola vocianti, un po intimidito ma fiero del mio granatismo. La partita? Finale: Viola 2 Toro 0Pazienza! La partita si era trascinata vivace e combattuta ma i viola erano superiori. Law giostrava da campione; non bastava. A un certo punto all’ennesima magistrale giocata dello scozzese ….. un applauso scrosciò. Tutto lo stadio applaudiva il mio campione. Tutti tranne il sottoscritto commosso per quello spontaneo caloroso omaggio alla classe cristallina di Denis Law. Non credo si fosse già gemellati ma per me iniziò quel giorno il gemellaggio. Da allora andai a veder la Carrarese con il mio amico Derio (viola sfegatato) più contento e solidale, festeggiando assieme le imprese dei viola e dei granata. Finita? NOOO. Nel tardo pomeriggio lo zio mi porta in stazione a Santa Maria Novella sul binario del mio treno. Aspetto. Arriva un tizio; gli somiglia. Sarà? Non sarà? Ma si, certo! Mi avvicino con il biglietto in mano e chiedo timido l’autografo. Quello sorride ma è senza penna. Chiama gli altri. Law Baker e tutti firmano quel biglietto e gentili mi danno la mano, quasi a ringraziare. Qualche gioia e tante delusioni segnano la vita sportiva di un granata, ma le nostre gioie sono davvero speciali!
Giovanni Faggioni
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Carlo, il bidello della mia scuola media, mi venne a caricare al mio paese con la 600 e partimmo direzione Torino. Non ricordo se facevo prima o seconda media, ma ricordo perfettamente che giocavamo con il Cesena di Schachner, che tra l’altro l’anno dopo venne proprio al Toro, l’emozione era forte la gioia incontenibile.Arrivammo a Torino dopo quel lungo viaggio (60 km a scollinare sue giù per le strade) e per la prima volta vidi il Comunale. Grandissimo, enorme, mastodontico, bellissimo, chi l’avrebbe mai pensato di vedere dal vivo una partita del mio Toro… il mio sogno si era avverato. Entrarono in campo i giocatori,iniziò la partita, la Maratona vista dalla tribuna era a dir poco immensa, tremavo a sentire i cori che rimbombavano nelle mie orecchie, il cuore mi batteva fortissimo e già mi immaginavo l’esultanza che avrei avuto quando il Toro avrebbe segnato. Vidi tutta la partita come se mi trovassi in un’altra dimensione, fino al novantesimo,e li mi resi conto che la partita sarebbe finita zero a zero. La mia prima partita quindi, fu dettata subito da una mezza delusione,non avevo visto nemmeno un goal, ma le emozioni ,la tensione, la gioia che provai quel giorno fu indescrivibile e ancora oggi ringrazio Carlo, il bidello che mi fece innamorare del Toro!
Giancarlo operaio di Conzano
"Era l’11 ottobre 1959, il Toro aveva da poco iniziato il primo campionato di B della sua storia, solo 10 anni dopo Superga, e la Società aveva deciso di ritornare a giocare al Filadelfia, come poi avvenne mi sembra per un altro paio di stagioni, anche in serie A.
"Un anno o poco prima – non ricordo esattamente – io avevo domandato a mio padre come si facesse a tifare per il Torino visto che perdeva quasi sempre; allora mi aveva raccontato di “Quelli là”, di un aereo caduto, e che da quel giorno lui – prima tifoso come tanti – non poteva che essere del Toro: già lì in me era scattato qualcosa e così, alla quarta giornata del campionato successivo, decise di portarmi per la prima volta a respirare l’atmosfera di uno stadio tutto granata.
Ricordo che dal giornale mi copiò la formazione su un foglietto, in modo che potessi riconoscere i giocatori (vado a memoria): Soldan, Scesa, Cancian, Pellis, Lancioni Bonifazi…
"Andammo in curva, e se non ricordo male proprio in quello spezzone lato via Filadelfia ancora rimasto in piedi. Lo stadio era pieno, e la cosa già mi impressionò. Ma ciò che mi colpì di più, fu il calore della gente e poi l’entusiasmo al pareggio di Virgili (finì infatti 1-1), che naturalmente io quasi non vidi, essendo piccolo e avvenuto sotto la curva opposta..
"Di fronte a tutto questo, rammento benissimo che continuai a pensare, anche dopo essere tornato a casa: “Ma se queste persone, che tutte quante avranno visto giocare sullo stesso campo il Grande Torino, sono così contente per un pareggio, in casa, in serie B, questa squadra deve avere per forza qualcosa di speciale, di magico, deve essere diversa da tutte le altre squadre del mondo…”.
"Non mi ero ancora reso conto d’aver preso il virus, e che non mi avrebbe abbandonato più.
"Dino Angelotti
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Correva l’anno 1971, ed al compimento del mio 16° anno, mio padre mi regalò il biglietto (il primo che conservo ancora) per il derby.
Sono diventato GRANATA, grazie ad uno zio, che sin da bambino mi ha introdotto alla storia del GRANDE TORINO. Riuscendo, per mia fortuna, a plasmarmi monocolore!
Tutto entusiasta del regalo, ho sfidato il professore più tremendo dell’istituto che frequentavo, giocandomi la sufficienza al primo trimestre in caso di vittoria, contro l’essere interrogato ad ogni lezione!
Quella domenica pomeriggio credo di aver vissuto le più forti emozioni della mia vita. Entrare per la prima volta al Comunale, infilarsi in quella marea di gente, grazie agli spintoni di tre marcantoni con funzione di apripista, il prato verdissimo, le coreografie e i cori.
All’ingresso in campo delle squadre, il cuore batteva fortissimo. Finalmente dopo tanta attesa si comincia, e cominciano subito i guai….segna Anastasi e mi crolla il mondo addosso. Col passare dei minuti il Torino prende campo e sul finire del primo tempo guadagna una punizione dal limite dell’area sulla sinistra, proprio sotto il settore 24 dei distinti centrali, dove eravamo. Il più anziano dei tre marcantoni sentenzia: “Sa tira Ferrini, ai lu buta antdrinta, vlu disu mi!”
Mai profezia fu più azzeccata, finalmente pareggio e lì, il morale risale notevolmente.
Purtroppo sul finire della partita si completò la mia disfatta personale e calcistica con il gol di Bettega.
Per la scommessa vi garantisco che ho patito le pene dell’inferno, ma non ho mai cambiato bandiera.
Sempre forza TORO.
Luigi Carlo CAMIA
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Beh, che dire, ormai sono passati quasi 11 primavere dal mio battesimo, a benedirmi furono Rolando Bianchi e Cesare Natali. Un Torino-Catania d’altri tempi, o forse no, vista la situazione attuale, finì 2 a 1 per noi.
Un dettaglio che mi salta in mente, ogni volta che ci penso, è la pioggia battente che irrigava l’ex Olimpico. Mi trovavo in curva primavera con mio papà e un amico di famiglia. A fine partita, alla veneranda di 5 anni, mi preoccupai solo per i giocatori, continuavo a ripetere: “Poverini, si bagnano tutti”, tra le risate. Penso che sia stato uno dei momenti più importanti della mia vita, potevo considerarmi ufficialmente granata, per me il Toro adesso non è più semplice tifo, come dice il caro Liboni: “E’ una seconda pelle”, ma non solo, rappresenta dei valori da seguire, qualcosa in cui credere, a cui aggrapparsi anche nei momenti bui, la luce in fondo al tunnel, anche quando quella della squadra è più fiacca della mia.
Da quel momento fui credente, ma probabilmente lo ero già in fase embrionale. Non dimenticherò mai il gol di Cesarone al volo di mancino, ma ciò che mi rimase più impresso fu la frase di un’anziana signora fedele che prima del match disse al mio babbo con tono scherzoso: “Poverino, dovrà soffrire per tutta la vita” e lui rispose: “Stia tranquilla che è pronto”. Perché granata si nasce, non si diventa.
Edoardo Paoletta
Possiedo ancora una delle prime edizioni in lingua italiana di “Morte nel pomeriggio” di Hemingway; ne sbirciavo le fotografie, sfocate e ritoccate, di nascosto, perché quello era uno dei “libri proibiti” nella biblioteca di casa. Ma mio padre aveva allora poco più di trent’anni e non è del tutto vero che allora a quell’età si era uomini fatti, o per lo meno non è vero che essere diventati uomini cancelli quella parte trasgressiva che anima l’infanzia e la gioventù. E una volta, ignaro del fatto che quelle fotografie le conoscessi a menadito, e che nonostante i miei otto anni da poco compiuti percepissi il fascino di quelle didascalie, tradotte da Fernanda Pivano in uno stile che più hemingwayano non si poteva, me le mostrò. Tori e toreri, vili picadores e beffardi banderilleros. Ma soprattutto tori. “Il toro da combattimento sta al toro domestico come il cane sta al lupo”, sentenziava Hemingway in quelle pagine. Eppure quanto sangue versava quel toro, e com’era nero, in quelle fotografie, quando sgorgava sotto i colpi inferti dai suoi uccisori. Amore e morte, avrei pensato anni dopo, comprendendo con più chiarezza quel era il tragico ossimoro che, come in tanti poeti e artisti, aveva scatenato in me, né poeta né artista, una passione.
Il rosso si mescolava col nero per dare il granata vero, cupo, tutt’altro che squillante delle maglie del Toro negli anni Sessanta. C’era il sole, quella prima volta. Poco altro, in verità, ricordo, se non che quel granata restava cupo e profondo nonostante la luce del pomeriggio di un autunno non ancora iniziato. Con gli anni, mi sarebbe sembrato che quel colore pulsava di vita particolarmente potente quando il sole non c’era, in certi pomeriggi grigi e senza ombre. Le ali della farfalla, e il loro lieve fulmineo alitare nell’aria, quelle sì le vidi, finta, scatto e tiro (alto, o forse deviato da un difensore) sotto la curva Filadelfia, ma mi sarebbero venute in mente anni dopo grazie al libro di Nando dalla Chiesa. Ci sono le immagini televisive di quell’azione; sono in bianco e nero, ma io vidi tutto a colori.
Mia madre, al ritorno, mi accolse col sorriso di una madre che abbraccia il figlio iniziato al culto. Non erano passati sette anni dal “battesimo” a Superga, ma quella volta lì ero troppo piccolo per ricordarmene. Mio padre disse: “Ha visto Meroni”, confermando l’avvenuta iniziazione.
La mattina dopo, alle ultime cucchiaiate di zuppa, dello zio che mi avrebbe accompagnato a scuola e che rispose a mia madre (“Franco ieri ha visto Meroni”) “Meroni è morto”, ricordo il sorriso amaro e fatalista di chi era un ragazzo il 4 maggio 1949. E ricordo anche, ora con sgomento, che la notizia non mi colpì tanto per la morte di Meroni, ma perché la morte entrava per la prima volta nella mia vita attarverso un inaspetto ingresso, un pomeriggio di sole, di festa e di vittoria (e di dissimulata emozione, per timidezza, per pudore, di fronte a quel padre che veniva dal sud e che detestava l’esternazione dell’intimità), il pomeriggio di un bambino che per la prima volta vedeva di che colore è il granata e che nello stesso momento comprendeva che la vita altro non è se la compresenza di anima e sangue, luce e tenebra. “Sol y sombra”, avrebbe detto Hemingway.
Non piansi. Raccolsi le mie cose e andai a scuola, con l’oscura sensazione (col tempo sarebbe diventata consapevolezza) che stavo intrecciando la mia vita con una forma di laica religione, un modo di essere, che nel suo vivere, come il Toro, in virtù di un’apparente contraddizione, fede e tragedia, era essa stessa metafora della vita.
Qualcuno avrebbe profanato, raccontano le cronache, il corpo di Meroni; ma da ragazzo, lo confesso, pensavo a una sorta di rito pagano, di compimento di un sacrificio. Fu solo, in realtà, l’ultimo scempio sul povero Gigi (altri e altri ancora ne avrebbe subiti, e d’ogni tipo, il Toro)
Il 2 novembre 1975 il Toro battè 2-1 l’Inter al Comunale; una di quelle vittorie che ci avrebbero portato, qualche mese dopo, al primo e unico scudetto dopo Superga. Un giorno grigio, come si conviene e il granata pulsava forte. Nella notte trucidarono sul Lido di Ostia Pier Paolo Pasolini. Un’altra dolorosa tappa del mio crescere insieme all'”essere del Toro”. Quel corpo straziato dai carnefici e violato dai fotoreporter mi fece venire Gigi Meroni. Allora vennero finalmente le lacrime, perché a volte solo gli scrittori e poeti possono prenderci per mano a aiutarci a sciogliere anche il più doloroso dei nodi.
Franco Fanelli
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Il 10 ottobre del 1965 rimarrà nella mia mente come un giorno particolare.
Alla domenica, quando il Toro giocava in casa, subito dopo pranzo, mio padre andava allo stadio a vedere la partita.
Io restavo a casa con la mamma ed il nonno e, dopo il sonnellino pomeridiano, ascoltavo alla radio le cronache che la trasmissione “Tutto il calcio minuto per minuto” trasmetteva. La capacità dei cronisti era tale da creare nella mia immaginazione chiaramente lo svolgersi degli incontri, i gol segnati, le parate, i falli.
Ma quella domenica , mio padre mi disse. “Riccardo vieni, ti porto a vedere il Toro”. Mamma mia che emozione. Potevo finalmente vedere la realtà dei miei sogni, delle mie immaginazioni.
Eravamo partiti con la 600 celestina, dopo circa mezz’ora parcheggiammo davanti all’ Ospedale Militare.
Poi, con fatica, seguì mio padre che, da buon amante della montagna e dotato di gambe più lunghe delle mie, mi fece correre letteralmente per stare al suo passo.
Mio padre aveva l’abbonamento in tribuna, retaggio di conoscenze fatte al lavoro. In quegli anni c’era la regola che un bimbo di 5 anni entrava allo stadio senza bisogno del biglietto. La scala che portava alla tribuna era breve ma l’emozione era forte.
Ecco finalmente il campo di gioco, di un verde brillante. Era enorme. Quanta gente…. Ci sedemmo e la musica “Il brandy che dà la felicità…è il cavallino rosso” accompagnò l’attesa. Poi l’ annunciatore elencò le formazioni delle squadre :
Torino: Vieri Poletti Fossati, Rosato Puja Bolchi, Meroni Ferrini Orlando Moschino e Simoni. Allenatore: Nereo Rocco
Papà sottolineò: “Oggi vedremo i 2 “Luigi d’oro” Meroni e Simoni”. E lo disse con gli occhi che brillavano, come quando mi raccontava della squadra che non c’è più.
Credo che il racconto dell’incidente aereo di Superga sia stata la prima scintilla fece nascere in me la febbre granata.
Giocammo contro il Varese. La partita fu bellissima, molto meglio di quanto immaginavo. Dopo circa mezz’ora, per un fallo in area del Varese, l’ arbitro fischiò un rigore a nostro favore. Poletti segnò e fu 1-0. Arrivò l’intervallo e le squadre, come mi disse mio papà, andarono a prendere un tè negli spogliatoi.
Dopo un quarto d’ora rientrarono nel terreno di gioco. Il Toro continuò ad attaccare ed arrivò il gol di Meroni che suggellò il 2-0 finale.
A casa non mi limito a raccontare ma, complice una palla di pezza, istituisco un vero e proprio 90’ minuto a favore di mamma e nonno che ridono divertiti a vedere la mia emulazione di Meroni e Poletti.
E’ nata cosi la fede granata, che mi porterà a vedere lo scudetto del 1975 da adolescente e la finale di Coppa Uefa ormai adulto
Il Toro ha accompagnato le fasi della mia vita e poco importa se siamo primi ultimi , in serie A o B. Quello che importa è che il colore granata è il più bello del mondo.
Riccardo Bussone
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Correva l’anno 1983, avevo circa 10 anni. Mio papà, grande tifoso del Toro, mi portò al Comunale per vedere la partita tra Torino e Pisa… Sulla carta era classica partita facile da vincere. Ma il finale fu 0 a 2 per la squadra toscana. Comunque da allora il Toro ha sempre fatto parte di me e dopo 36 anni il sangue è ancora granata, e lo rimarrà per sempre! Forza Toro
Andrea Bianco
"Era l’anno dello scudetto e io non avevo ancora compiuto 5 anni. Distinti centrali, all’altezza della linea di centro campo. Non un metro più in qua, non un metro più in là. Con papà. Di preciso non ricordo che partita fosse, io ero più interessato a raccogliere dalla gradinata del Comunale i coriandoli fatti con la carta del giornalino che omaggiavano all’ingresso. Stavo rigorosamente ai piedi della transenna: “tente bin” mi diceva papà. Il giornalino si chiamava J-Toro (perdonatemi ma quelle quattro lettere in fila proprio non le riesco a mettere) naturalmente in bianco e nero ma, ricordo bene, la parola “Toro” era contornata di granata: un pregio per le stampe incolori anni ’70. E quando, qualche anno più in la, imparata la lettura, mi rendevo conto che il titolo riportava prima il nome dell’altra squadra e che i primi articoli erano sempre dedicati a quelli li, ecco che iniziava una sorta di antipatia vera verso quella squadra intifabile e dai colori tristi; mi rallegravo pensando: “Tanto quando li incontriamo gliele suoniamo sempre”! Alla faccia dei favoritismi della stampa….e dei tempi grami odierni.
"Ma torniamo a quella partita: non ricordo di preciso che partita fosse ma anche quella volta lo speaker o disco che fosse, annunciava gli spot pubblicitari, sempre gli stessi, sempre con lo stesso tono. E comunque il Toro vinse! E quando ci fu il gol, papà mi issò sulla transenna e io braccia al cielo gridai: “goooool”! Non credo sapessi cosa stavo facendo o cosa stesse succedendo ma sapevo che dovevo esultare perché stava vincendo la squadra per cui tifava il mio papà… e lui faceva sempre la cosa giusta.
"Quella fu la mia prima volta allo stadio a tifare il Toro, la prima volta a vedere Pulici coi calzoncini corti, i quadricipiti esplosivi mentre salutava i suoi tifosi sotto le gradinate prima del fischio d’inizio e i pugni alzati per esultare dopo un gol.
"Di preciso non ricordo che partita fosse ma a quella ne seguì un’altra e poi un’altra ancora e dopo ancora un’altra. Nel mio cuore di bimbo non lo sapevo ma mi stavo ammalando, stavo sempre peggio…ormai ero incurabile… mi ero ammalato di Toro! Nel cortile di casa giocavo a calcio da solo… partite interminabili 11 contro 11… li sapevo tutti i nomi dei giocatori del Toro e degli avversari…ma una volta Pulici, poi Graziani o Claudio Sala o Zaccarelli e il Toro vinceva anche nel cortile di casa.
"È grazie a quella prima volta che posso onorarmi della mia più grande soddisfazione granata… Ricordata e raccontata per anni, decenni, ora anche ai miei figli.
"Questa volta ricordo perfettamente che partita fosse: 27 marzo 1983. Ormai ho quasi 12 anni e papà decide che è giunta l’ora di portarmi a vedere il derby. Anzi: a vedere il Toro vincere il derby, perché succede quasi sempre così… il Toro onesto e battagliero naviga tranquillamente a centro classifica, quegli altri come sempre, a contendersi lo scudetto con la Roma di Falcao e Pruzzo.
Si parte da casa con papà che raccomanda a mamma di preparare la torta di mele perché “poi si festeggia”.
"Distinti centrali, all’altezza della linea di centro campo. Non un metro più in qua, non un metro più in là. Come sempre. In mezzo a tifosi del Toro e dell’altra squadra, quando ancora si poteva.
Comincia la partita e dopo una decina di minuti un gol di Paolo Rossi porta in vantaggio quelli a righe. Vabbe’ recupereremo. Inizia il secondo tempo e cosa capita? Calcio di rigore per loro: tira l’infallibile Le Roy Platini, uno già antipatico solo per il soprannome affibiatogli! Ma Terraneo respinge…vorrai mica che ci sia andata bene? No… la palla rotola verso il francese che di piatto insacca! 0-2… guardo papà un po’ incredulo ma lui mi rassicura: “ades vinciuma!” mi dice. Mah…
Intanto i gobbi vicino a noi esultano, ci sfottono, pacificamente come si poteva fare in quegli anni e mamma a casa, appreso il risultato parziale dalla tv, inizia a chiedersi se è il caso di preparare la torta.
"La prepara la stesso. Come aveva chiesto papà.
La partita prosegue e succede quel che tutti sappiamo, Dossena-Bonesso-Torrisi in poco più di 2 minuti, Lo Bello fischia la fine e il Toro ha vinto!
Quelli che prima ci sfottevano sono già andati via. Un signore anziano con la sciarpa a righe al collo piange e il nipotino lo guarda triste… adesso esultiamo noi…esulto io! Corriamo a casa… ci aspetta la torta alle mele di mamma… papà mi ha portato a vedere il Toro vincere il derby! Non un derby… il derby! Lui faceva sempre la cosa giusta.
E tutto grazie a quella prima volta anche se di preciso non ricordo che partita fosse.
"Marco Tarabra
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La mia prima volta allo stadio fu in curva (Maratona), gli altri settori erano troppo cari e ancora oggi alla soglia dei 50 anni, anche se sono più accessibili, non li trovo coinvolgenti.
La partita era serale, coppa Italia, Torino Bologna: sono riuscito a risalire alla data aiutato da un particolare che ricordo bene: l’ingresso in campo di Vincenzo D’Amico che segna poi un gol. Era giugno 1981.
Avevo 9 anni, ci posizionammo al primo settore a ridosso delle ringhiere e naturalmente io non potevo vedere molto: mi tirarono su dalla prima balconata e mi fecero sedere sul muretto. Così iniziò la passione per il Toro, ma soprattutto per la curva.
A distanza di quasi 40 anni i particolari che ricordo sono tre: D’Amico, seduto sul muretto del primo anello e un brutto rientro notturno con mio fratello e un vicino di casa: si rompe l’auto e chissà per quanto l’abbiamo spinta, dal Comunale dovevamo andare in Barriera di Milano…
Angelo
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La mia storia col nostro amato Toro ha un prologo che mi ha visto coinvolto inconsapevolmente.
Solo in seguito, guardando la bandiera granata che mio padre teneva orgogliosamente in soggiorno, e andando a ritroso co la memoria, sono riuscito a comprendere quale evento mi aveva coinvolto.
Ero un bambino di quattro anni e pochi mesi, ignaro di calcio, quando un giorno mio padre comunicò a mia madre che sarebbe uscito assieme a mio zio, venuto nell’ occasione a trovarci. Mia madre, che doveva accudire mio fratello più piccolo, per avere un po’ di respiro domenicale e godere di un po’ di silenzio, gli disse di portarmi con loro.
Fino a quando non giungemmo in centro a Trento, città dove tutt’ora vivo, ricordo solamente di essermi seduto sul edile posteriore della vecchia Simca color verdone. Giunti davanti alla stazione dei treni, l’auto si fermò. Fu allora che mio padre, dopo essere sceso dall’auto, aver aperto e chiuso il bagagliaio e avere armeggiato con del nastro adesivo e quelli che a me sembravano due bastoni, mi consegnò, infilandolo dal finestrino posteriore socchiuso, un tubolare in plastica dicendomi di tenerlo stretto e di non lasciarlo.
Poi risalì in macchina, accese il motore e partì suonando il clacson. Io non capivo. Ricordo solo un lungo giro in centro città con mio padre che suonava all’impazzata e una bandiera che sventolava al mio fianco all’ esterno del finestrino. Solo parecchi anni dopo, ormai follemente innamorato dei colori granata, capii che, essendo nato nel 1972, quel giorno era il 16 maggio 1976 e avevo festeggiato l’ ultimo scudetto del Toro!
Il Toro ricomparve nella mia vita alcuni anni dopo, all’ inizio degli anni ’80 quando mi sarei, di lì a poco, interessato calcio. In quell’occasione mio padre aspettava un amico per vedere una partita. Gli chiesi che partita fosse. Mi rispose che era la finale di coppa Italia e a successiva domanda, se fosse più importante la coppa o il campionato, disse che era più prestigioso il secondo lasciandomi un po’ deluso. Non seguii la partita ma mi informai del risultato finale: il Toro aveva perso ai rigori (contro la Roma). Ricordo la mia delusione e il mio sgomento dovuto non alla sconfitta ma al fatto che mio padre, che all’ epoca mi sembrava invincibile e infallibile, tifava per una squadra che era stata sconfitta.
Le mie perplessità sulla sua fede calcistica aumentarono l’anno seguente, quello di Giacomini e di una prima squadra infarcita di primavera, quando realizzai che il Toro non era una squadra in lotta per dei trofei ma combatteva per salvarsi. Fu allora, dopo una domenica pomeriggio trascorsa a slittare in montagna, durante la quale mio padre non aveva staccato l’orecchio dalla radiolina per seguire i risultati, che mi decisi a chiedergli per quale motivo tifasse per il Toro.
Iniziò così a raccontarmi di quando era bambino, subito dopo la guerra, quando aveva imparato a memoria la formazione di quelli che erano i stati i suoi eroi: Bacigalupo, Ballarin, Maroso… e a raccontarmi le loro imprese, per concludere poi con la loro tragica fine.
Da quel giorno non ci fu storia, ero diventato orgogliosamente del Toro, fiero della sua storia e follemente innamorato del color granata!
Ps: la mia prima volta a vedere il Toro allo stadio fu a Verona in occasione della gara di andata della semifinale di Coppa Italia del 1983, vinta col gol di Hernandez, ma nei mie ricordi tale evento è poca cosa rispetto a come è nata in me la passione per il nostro Toro.
Luca, granata a Trento
a vita è un continuo susseguirsi di emozioni e sensazioni che, seppur inconsciamente, decidiamo di racchiudere all’interno della nostra memoria. Spesso, in particolare quando meno te lo aspetti, tali momenti felici riaffiorano nei nostri ricordi e ci permettono di colorare le giornate. Durante questo periodo di quarantena vivere situazioni mozzafiato è assai difficile e, dunque, per passare il tempo adoro immergermi nei ricordi più belli che hanno caratterizzato la mia vita sino ad oggi. Uno di questi è senza dubbio la mia prima partita allo stadio a vedere la mia squadra del cuore: il Toro!
Sin da piccolo ho sempre visto il mondo granata e pian piano ho coltivato una fede tramandata dal nonno.
Con lo scorrere del tempo ho avuto modo di accorgermi sempre di più che tifare per il Torino sia un vero e proprio stile di vita! Ricordo ancora quando nel calendario ho circondato la data del match Bologna-Torino con un pennarello rosso fuoco ed ogni sera prima di dormire facevo la conta dei giorni che mi avrebbero separato dalla mia prima partita. Il fatidico giorno arrivò ed io ero più carico che mai.
Io ed il papà ci svegliammo presto per andare a prendere il nonno che, ovviamente, non sarebbe potuto mancare. Quando si parla della giornata perfetta nella mia mente appare il ricordo del Dall’Ara, dei cori e delle urla.
Il viaggio di andata in macchina passò in un battibaleno tra canzoni, cori e risate. Una volta entrati a Bologna abbiamo trovato subito parcheggio ai piedi dello stadio. I miei occhi non ci potevano credere, il mio corpo si sentiva attratto come una calamita da quell’immensa struttura che dal vivo non sembrava avere fine.
Una volta dopo aver mangiato il panino più buono della mia vita ci siamo diretti all’ingresso,
ahimè tra i tifosi del Bologna, ma poiché i biglietti per il settore ospiti erano esauriti ci siamo dovuti accontentare. Una volta entrato i battiti del mio cuore cominciarono a seguire il ritmo dei tamburi e subito mi sentii parte viva della storia della mia squadra. L’arbitro fischiò l’inizio della gara, partiti!
Subito mi accorsi dell’enorme differenza tra una partita vista in tv dal divano ed una tifata allo stadio. Mi sentivo racchiuso a 360° in una realtà parallela, in un vero e proprio sogno. Fuori dalle mura dello stadio tutto aveva cessato di esistere, pensieri e preoccupazioni sparite per lasciare spazio ai cori e alle emozioni. Si stava scrivendo la storia ed io non stavo semplicemente guardando la partita, ma la stavo vivendo assieme alla squadra. Fu una partita combattutissima, tra tackle, dribbling, tiri e passaggi: il mio sguardo non voleva distogliersi dal campo.
Giunti al novantesimo il risultato era fermo sullo 0-0, ma avvenne qualcosa di incredibile: rigore clamoroso per il Torino! Tutto attorno a me stava rallentando, non sentivo più i fischi e le urla di disapprovazione da parte dei tifosi del Bologna accanto a me; senza pensarci due volte mi alzai di
scatto, non curandomi di ciò che la gente seduta accanto a me potesse pensare o dire. In quel momento c’era il Toro da difendere.
Capitan Belotti prese la rincorsa e colpì di forza il pallone che si insaccò sotto la traversa. Un boato assordante proveniente dal settore ospiti, quasi veniva giù lo stadio ed io non potevo tradire le mie origini così mi scatenai e cominciai a saltare tra i fischi e la disapprovazione della gente attorno: la gioia era troppo grande per essere contenuta e, in quel momento, il colore granata era la mia unica ragione di vita.
Enrico Penzo
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Era il 1975 ultima giornata del girone di ritorno
del campionato 74-75 credo a gennaio.
Avevo 13 anni e c’era TORO-CAGLIARI
Mio zio ( buonanima ) era si tifoso si Toro
ma non uno sfegatato, era uno molto obiettivo e sportivo e mi disse
“VIENI TI PORTO A VEDERE GIGI RIVA!”
Era la prima volta che mettevo piede al “Comunale” e ovviamente mi
portò in Maratona perchè le curve costavano meno.
Fu una emozione incredibile, ma non vedere Gigi Riva ( per carità grandissimo
campione ) praticamente annullato da Mozzini e Cereser.
Fu incredibile vedere sfrecciare Claudio Sala sulla fascia
Fu incredibile vedere la grinta di Capitan Ferrini
Fu incredibile vedere il Toro vincere 1-0 con gol di Mascetti
Fu un peccato non vedere Pupi che era infortunato
Fu li che Gigi Radice seduto sulla panchina del Cagliari si innamorò
del Toro e l’anno dopo arrivò per vincere lo Scudetto.
Gian Domenico Sartori
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Anche se sono nato a Torino, le origini famigliari mi hanno portato, sin da piccolo, lontano dal Piemonte e, più precisamente, a Pordenone.
La prima vera occasione, per assistere alla partita dei miei eroi, avvenne quindi, grazie al ritorno in serie A della compagine friulana, l’Udinese di Del Neri e Nerio Ulivieri (cugino di Renzo).
In quegli anni gli idoli granata erano “i gemelli del gol”, affiancati da Patrizio e Claudio Sala, dal mitico e sempre elegante, Renato Zaccarelli ed in panchina sedeva ancora il mister del nostro ultimo scudetto, il compianto Gigi Radice.
La partita si giocò il 25 novembre del 1979, allo stadio Friuli, in una splendida giornata autunnale.
Allora avevo 8 anni, ma il Toro era già diventata una fede ossessiva.
Qualsiasi capo d’abbigliamento mi venisse proposto, non doveva assolutamente essere di colore bianco e nero, soprattutto se associato.
Ricordo le dispute in classe con i miei compagni gobbi, interisti, nerazzurri, ma soprattutto, ricordo le facce dei miei cugini gobbi, quando ci si ritrovava durante le festività.
In quegli anni i derby ci permettevano ancora di gioire.
Ritornando al giorno della partita, uno dei ricordi più vivi è sicuramente, quello legato all’acquisto della “prima” bandiera granata, un vessillo tuttora gelosamente custodito.
Era quella con lo scudetto del 76 in evidenza, che riportava tutti gli scudetti e le coppe vinte sino ad allora.
Anche su questa bandiera potrei spendere molti ricordi…
Un altro importante ricordo, e stato quello dell’incontro con i colori.
Per i più giovani, è doveroso ricordare che in quegli anni era da poco arrivata la TV a colori, ma non ancora a casa mia.
Il verde del campo, decisamente intenso e perfetto, sembrava un tappeto di velluto.
ma, soprattutto, quelle maglie Granata che vi correvano sopra.
La maglia dei giocatori del Toro, le bandiere che sventolavano in curva.
Come in un grande amore, questi fotogrammi hanno consacrato definitivamente la mia Fede Granata, sfociata in una passione unica ed indissolubile.
Il colore della maglia dei miei idoli, l’avevo visto solo sulle figurine Panini.
Naturalmente, il Granata dal vivo è qualcosa che ti fa venire la pelle d’oca, ti mette i brividi lasciandoti senza fiato.
Posso sostenere tranquillamente, senza timore di cavalcare la retorica, che la stessa sensazione la provo ancor ora che il Toro è nelle condizioni che conosciamo.
A tal proposito vorrei citare uno dei cori più appropriati alla nostra fede: “Questa è una malattia che non va più via, vorrei andar via di qua, ma non resisto lontano da te!”
L’ultimo, ma non per importanza, rimane l’abbraccio con mio padre, al minuto 45 del primo tempo.
L’arbitro fischia una punizione dal limite dell’area, a nostro favore. A calciarla ci va il capitano Claudio Sala.
Il tiro è perfetto e si infila sotto l’incrocio dei pali…GOOOOOL!
La bandiera granata che si leva al cielo, l’esultanza dei tifosi, io e mio padre stretti in abbraccio di gioia.
Un abbraccio che dura ancora oggi che lui non c’è più,
un abbraccio che, con molta difficoltà, tento di trasmettere ogni volta che c’è una rete per il Toro, a mie figlie!
Un saluto tutti i cuori granata!
FORZA TORO!
Dimitri Doro
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Era il 2 ottobre 1957 domenica di derby al Fila avevo 8 anni e mio padre mi aveva promesso di portarmi a vedere il Toro
Allora si giocava alle 14.30 era una bella giornata di sole ed io non riuscivo a stare nella pelle dalla emozione.
Il Fila mi sembrò un tempio una cosa grandiosa immensa tutta quella gente ai botteghini le bandiere che cosa magnifica.
Entrai con papà e mamma ci mettemmo vicino alla rete quasi a centrocampo.
L’attesa era spasmodica ma finalmente uscirono i calciatori il toro con maglia granata calzoncini bianchi .
Ricordo il ruggito della maratona e l’urlo di tutti i tifosi.
Inizia non riuscivo a capire molto ma ricordo che vedevo solo le azioni del Toro poi l apoteosi segna Armano 1 a 0 per il toro poi jepson 2 volte mi sembrava tutto incredibile poi per finire Arce finì 4 a 1 per noi ma il gol degli altri non lo ricordo .
Il Toro purtroppo non mi farà sempre sognare come quella domenica ma non ho mai smesso di amarlo-
Carlo Suetta di Genola
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