Quando ho saputo dell’improvvisa scomparsa di Candido Cannavò, non ho potuto fare a meno di ricordare il nostro viaggio assieme in macchina, da Milano a Ivrea e ritorno, soltanto qualche mese fa. Ogni tanto, per arrotondare, faccio da accompagnatore agli scrittori che un amico libraio invita nella mia città. Sono impegni che prendo volentieri, perché non capita spesso di poter passare qualche ora con persone conosciute e quasi sempre interessanti. A Milano pioveva forte, e avevo faticato a parcheggiare non lontano dalla sede della Gazzetta. Finisco sempre per combinare qualche casino e quella volta dimenticai l’ombrello. Così, mi trovavo ad aspettare Candido Cannavò sotto l’acqua, con la macchina in doppia fila a cento metri, e quando lui venne fuori si indispettì non poco. Ma senza mettermi a disagio: accelerando il passo sotto l’acqua, imprecava come se fossimo entrambi vittima di una situazione che si era creata da sé. Aveva paura di ammalarsi, di prender freddo, di stancarsi, e me lo sarei preso a spalle se avessi dato retta al mio senso pratico un po’ grossolano.Finalmente salimmo in macchina. Aveva un modo signorile di parlare, una cortesia innata che mescolata a un accento tanto forte dava un risultato divertente, allo stesso tempo nobile e popolare. Mi pregava di andar piano, che non c’era fretta, però imprecava con chi ci faceva rallentare. Mi dava del lei, si complimentava quando prendevo la direzione giusta, come se stessi facendo il lavoro più difficile del mondo. E rispondeva continuamente alla redazione che lo cercava al cellulare.Mi colpì subito la sua passione. Quella infantile che accompagna fino alla vecchiaia solo i più fortunati, i baciati dal signore. A un certo punto il discorso cadde su Ivrea e a lui venne in mente di un tennista della mia città, anni Sessanta o Settanta, e si indignò moltissimo del fatto che non ne conoscessi il nome. Ma quel nome non veniva in mente neanche a lui, e si tormentò fino a quando, arreso, chiamò qualcuno in redazione per fargli fare una ricerca al computer. Gli mise fretta, come se fosse questione di vita o di morte, e io trovai la cosa divertentissima.Mi sono sempre piaciute le persone involontariamente eccentriche, dolcemente disturbate, alterate dall’impellenza creativa, dall’urgenza di scrivere qualcosa, da quel vizio di seguire idee che si materializzano nella testa per incanto. I distratti, i maldestri, i pasticcioni che passano troppo tempo in qualche mondo parallelo per essere completamente “normali”, ma poi fanno di quella piccola nevrosi una compagnia, una risorsa e infine un lavoro.E il signor Candido – per quel che posso ricordare – era quasi insuperabile.Tenne la sua conferenza e io per la verità rimasi al bar a chiacchierare con gli amici. A cena fu cordiale e poi ci incantò parlando di come si scrive, del fatto che è più importante raccontare che spiegare, del fatto che la personalità del giornalista deve rimanere sempre fra le righe, non prendere mai il sopravvento sul fatto commentato. Venne fuori, insomma, il Cannavò che sapevamo.Al ritorno, con suo enorme disappunto (era davvero stanco) scoprimmo che da un certo punto in poi l’autostrada era bloccata e bisognava andare per statale. I camion rallentavano la marcia e quando la coda si è fermata in mezzo alla campagna, è andato veramente fuori. Ne diceva di tutti i colori, in preda all’ansia, e vi confesso che non sono scoppiato a ridere con una fatica enorme. Era esilarante, perché ce l’aveva con tutti e con nessuno, non riusciva ad essere volgare nonostante ce la stesse mettendo tutta. “Che diamine! Farabutti! Scriteriati”… e via di questo passo, una parola più croccante, letteraria, antica dell’altra. Un film di Totò, un repertorio d’altri tempi che mi parve cosa tenerissima. Fu a quel punto che tirai fuori l’asso dalla manica: il mio navigatore nuovo. Proposi di lasciare quella strada, allontanarci dal casino e conquistare Milano da altri fronti. Era preoccupato, il signor Cannavò, perché diffidava di tutti questi “strani congegni”.Dopo mezz’ora, eravamo immersi nel buio della campagna lombarda totalmente in mano alla voce elettronica del navigatore. A lui non pareva vero che stessimo andando veramente verso qualcosa. Era fuori di sé, ma ebbi anche il sospetto che da qualche parte avesse capito che mi stavo divertendo, e la cosa non gli dispiacesse affatto. La fatica più grande la feci quando si rivolse al direttamente al navigatore:
mondo granata
Di nome e di fatto
“Signorina ma dove siamo? E’ sicura di questa strada?”Quando, una ventina di minuti dopo, ci trovammo nella gusta direzione, eravamo ormai arrivati al teatro d’avanguardia...Il signor Cannavò mi omaggiava di tutto se stesso, fintamente serio, si baciava le mani e poi le appoggiava sul navigatore sussurrando:
“Benemerito, benemerito! Non dirò più che sono oggetti inutili… Mai più!”Quando ci salutammo a me restava ancora da tornare indietro, e si raccomandò più volte che facessi attenzione. Gli strinsi la mano e mi ringraziò di cuore per la compagnia...Io, al ritorno, mi chiesi secondo quale mistero tanta spontaneità popolare si potesse trasformare in quegli editoriali tanto raffinati, di un livello così alto da decenni.Fatto sta che il giorno dopo, il suo articolo in memoria di Pantani era bellissimo.Abbraccio a tutti, Marco
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