mondo granata

FEBBRE A 90°

Redazione Toro News
di Marco Peroni

Le umiliazioni non finiscono mai, non posso che chiamare in causa Nick Hornby e le sue meravigliose ossessioni calcistiche. Infatti, in questo bellissimo romanzo c’è qualche risposta al filosofico quesito “ma cosa cavolo ci è successo?” che ci attanaglia. Personalmente, credo che in queste interminabili settimane al Toro sia capitato quello che capitò all’Arsenal nelle prime cinque, sei partite della stagione 1972-73… Ovvero un tentativo fallito di marciare contro la propria Natura. Sentite come lo scrittore inglese descrive l’anima, l’identità, il carattere storico dei 'gunners'. Siamo noiosi, e fortunati, e sleali, e petulanti, e ricchi, e gretti e, per quanto ne so, io lo siamo almeno dagli anni Trenta. Fu allora che l'allenatore più grande di tutti i tempi, Herbert Chapman, introdusse un difensore in più e cambiò il modo di giocare, dando così origine alla nostra cattiva reputazione. Immagino che il “Fortunato Arsenal” sia nato dal Noioso Arsenal, poiché sessant'anni di vittorie per 1-0 tendono a mettere alla prova la pazienza e il senso di realtà dei tifosi avversari. Nel 1972 quella che era sempre stata la squadra più inglese (ovvero la più austera e la più aggressiva) fu messa a giocare il Calcio Totale. L'invenzione olandese che prevedeva, al contrario, la più ampia flessibilità ed elasticità da parte di tutti i giocatori in campo: difensori che attaccano, attaccanti che difendono: fu il postmoderno in versione calcistica, e gli intellettuali ne andarono pazzi. Un paio di mesi dopo perdemmo a Derby per 5-0 e ritornammo immediatamente alle nostre vecchie, ostinate e rassicuranti maniere. Insomma, tutto lascia presupporre che ci sia un Destino nel mondo del Pallone. Le idee che non mi toccano nella vita, mi travolgono nel calcio: divento superstizioso (da ragazzino ebbi la netta sensazione che il gol di Muller a Innsbruck, direttamente dal calcio d’angolo, fosse stato per colpa mia: ero con i miei genitori a qualche metro dalla bandierina e mi distrassi guardando per un attimo la loro curva: alzai lo sguardo e la frittata era ormai fatta), divento fatalista, non vedo altre possibilità che accettare e assecondare il destino portandolo con eleganza come si può fare con l'età o un vecchio vestito. Ecco, per capirci. Io un undici granata concentrato, determinato, sereno, consapevole, vincente, organizzato, equilibrato e razionale, scusate, proprio non me lo riesco a immaginare. E non mi riferisco tanto alle idee di mister Zaccheroni (l'unico che ha pagato, insieme a noi e alla nostra classifica), quanto alla cantonata che dopo l'estate 2005 Sarebbe Cambiato Tutto. Ci ho voluto credere anche io, ma non l'ho fatto veramente. Non è nel nostro dna, nelle nostre possibilità psicologiche prima ancora che economiche: ci esaltiamo smodatamente per quattro vittorie di fila, ci deprimiamo e dividiamo quando la crisi si fa largo, ci ricompattiamo come un pugno quando abbiamo finalmente trovato un ostacolo dietro a cui andarci a riprendere il cuore. Siamo scalatori, abbiamo bisogno della salita per sentirci a posto, e andiamo in crisi alla prima discesa.Siamo a caccia di Epica, più che di risultati. Poi, se le due cose coincidono, tanto meglio. Che ci piaccia o no, è il nostro destino. Il meglio lo diamo a un passo dal burrone: il ritorno di Coppa Italia con la Roma, il derby da 3-0 a 3-3, il ritorno col Mantova dopo un’andata assurda, e così via: arrivati oltre metà classifica in un campionato strano (diciamo pure la verità: orrendo), con un gioco che non ci assomiglia, qualche trentenne in punta di piedi, il destino ha preso il sopravvento su un tecnico che forse in una società dal passato, dal karma, dal destino meno ingombrante avrebbe fatto benissimo.Ma qui è il Toro e valgono altre regole. Qui siamo a teatro, siamo a una rappresentazione dove il pubblico pretende che sia rispettato il copione. Siamo una grande, grandissima società e tifoseria, ma non vincente. Possiamo vincere nonostante tutto ma anche noi stessi, e allora la gioia diventa mistica, doppia e sublime. Ma non è scritto nei cieli né da nessun altra parte: ci dobbiamo alzare l’uno sulle spalle dell’altro e scriverlo da noi.Dallo spazio di questa piccola rubrica mando un saluto pieno di rispetto all’uomo Zaccheroni, per la sua correttezza e gli alti valori: certo non si era immaginato la portata della sua sfida, stretto nel suo cappotto, i pugni in tasca e gli occhi attraversati da mille pensieri. Cercava di leggere ogni partita fra le righe, guardare le cose in prospettiva, ma non si accorgeva che il Toro semplicemente perdeva perché non si incazzava più da tempo. Auguri Signor Alberto, lei è ancora un ottimo allenatore e lo dimostrerà sicuramente altrove. Lo speriamo tutti.Adesso che si ritorna alla nostra Realtà, però, i giocatori facciano la loro parte. Credano a qualcosa, si diano da fare, si facciano ammonire, reagiscano, resuscitino, si mandino a quel paese, tirino in porta, marchino stretto l’avversario. Facciano almeno finta di essere da Toro. Recitino la parte di questa rappresentazione che è l’unica che applaudiremo per davvero e può farci rimanere in serie A.

Vi lascio con le parole dello scrittore inglese che oggi ci ha fatto compagnia. Parla di una vittoria ottenuta dall’Arsenal alla sua maniera, e della differenza fra essere tifosi e giocatori. Che sia di buon auspicio per il nostro campionato. I giocatori sono semplicemente i nostri rappresentanti e certe volte, se guardi bene, riesci a vedere anche le barre metalliche su cui essi sono fissati, e le manopole alle estremità delle barre che ti permettono di muoverli. Quella vittoria a Wembley fu tanto mia quanto di Charlie Nicholas o di Gorge Graham, e io faticai tanto quanto loro. L’unica differenza tra loro e me è che io ci ho dedicato più ore, più anni, più decenni, e quindi capii meglio quel pomeriggio, e apprezzo di più la ragione per cui il sole brilla ancora quando lo ricordo.