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mondo granata
Beppe Fenoglio l'ho gustato, se così si può dire, appollaiato sulla scaletta metallica della piccola biblioteca di La Loggia, a due passi da Moncalieri, durante i lunghi mesi del mio servizio civile nel lontano 1998. A metà mattinata, appena il responsabile si perdeva nelle sue faccende, mi ritiravo lassù facendo finta di mettere a posto gli scaffali, e mentre leggevo lo tenevo d'occhio grazie a un collaudato gioco di specchi con il vetro della finestra. Cercavo soltanto di salvare quanto più tempo potevo, ma in quelle pagine avevo trovato ben di più: un affresco vivo della Resistenza, il sapore aspro sangue che dovevano avere i giorni in cui nasceva la nostra libertà. Scoprivo una volta di più qualcosa che non mi abbandonerà mai, il piacere di non dare per scontato quello che ho, il dovere di apprezzarlo in nome di chi per consegnarmelo si è fatto ammazzare; ma imparavo anche ad assaporare quella prosa cruda e feroce, piena di ritmo e umanità, da autentico fuoriclasse. Partigiano nelle formazioni monarchiche (nei cosiddetti “azzurri” o “badogliani”) e poi, dopo la fine della guerra, addetto alle esportazioni di un’azienda vinicola di Alba, Fenoglio scriveva racconti sulle pagine del registro vendite, rubando se stesso al lavoro per lasciare a tutti noi qualcosa di molto più importante. Un po’ come il “genovese da Carrara”, a cui ho accennato qualche articolo fa (chi indovina?), anche Beppe Fenoglio ha sacrificato i suoi polmoni sull’altare dell’arte, fumando a più non posso per levarsi le parole dalle mani: è scomparso ancora giovane, nel ‘63, senza rendersi conto che sarebbe diventato un classico della letteratura italiana. “Scrivo per un'infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, per restituirmi sensazioni passate; per un'infinità di ragioni, insomma. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera”.La poesia di Fenoglio non se ne sta sopra le nostre teste a volteggiare, a fare numeri da circo, a tratteggiare i contorni di un mondo etereo, “letterario”, o di un mondo freddo, “ideologico”: al contrario, fotografa dal basso gli uomini scaraventati dalla guerra sul palcoscenico della storia, e li sorprende a vivere tra coraggio e paura, nobiltà e miserie. Parla di persone, non di personaggi: in un Paese come il nostro – ancora ben lontano dall’avere costruito una memoria condivisa della Resistenza e dell’antifascismo – mi piace pensare che il disincanto e la pietà che stanno a monte delle sue parole possano essere per tutti una risorsa. Una maniera di archiviare guerra e “culto della morte” come puro e semplice orrore.Celebrare degnamente la Festa della Liberazione significa sapere, sentire da cosa ci si era liberati, per merito di chi e a quale prezzo: vi lascio con l’ultima disperata corsa di Milton – il giovane partigiano protagonista del romanzo Una questione privata – braccato dai nemici sulle colline delle Langhe. “Si raccolse e si gettò verso il ciglio. Sparavano di moschetto e di mitra, e a Milton pareva non di correre sulla terra, ma di pedalare sul vento delle pallottole. “Nella testa! Nella testa!” urlava dentro di sé e in tuffo sorvolò il ciglione e atterrò sul pendio, mentre un’infinità di pallottole spazzavano il culmine e tranciavano la sua aria (…) Correva goffamente tra un argine e il torrente, e a un certo punto pensò di fermarsi, visto che tanto non gli riusciva di prendere velocità. Sempre aspettando la scarica. “Non nelle gambe, non nella spina!” (…) Correva sempre più veloce, più sciolto col cuore che bussava, ma dall’esterno verso l’interno, come se smaniasse di riconquistare la sua sede. Correva come non aveva mai corso, come nessuno aveva mai corso, e le creste delle colline dirimpetto, annerite e sbavate dal diluvio, balenavano come vivo acciaino ai suoi occhi sgranati e semiciechi. Correva, e gli spari e gli urli scemavano, annegavano in un immenso, invalicabile stagno fra lui e i nemici. Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e del cielo. Era perfettamente concio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò diritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò”. Un abbraccio a tutti, Marco
P.S. Dopo la figuraccia della settimana scorsa, in cui pronosticavo “un Toro nel Palio”, ci siamo ritrovati con le vaccate di Siena: adesso non vorrei che in settimana ci invadessero i Tedeschi. Se così fosse, vi prometto che mollo la rubrica.
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