mondo granata

Il fiore reciso

Redazione Toro News
di Mauro Saglietti

Questa è un'opera di fantasia. E' dedicata a tutte le persone che pensano che essere del Toro non sia soltanto lagnarsi, ma possa anche essere amicizia e voglia di trascorrere cinque minuti insieme isolandosi dal mondo, scopo ultimo di questa rubrica. Un abbraccio a tutti.

Per molto tempo non avevo più pensato alla Sede del male.Avevo cercato di dimenticare tutto.Bastò la frase che lessi in un racconto a far tornare tutti quanti i fantasmi.“Sei così vigliacco da scappare dalla ragazza che ti ama…”.

Forse penserete che vi parli di Toro. O che ve ne debba parlare.Sì, certo, potrei parlarvi di Hakan Sukur, di Biato, Doardo e Caniato e altri eroi del 1995-1996.Sarebbe facile, forse. Ma triste.Il Toro quando si ritrae e non è più se stesso, diventa un sospiro nel tempo, un calendario senza giorni. Non è più palla che rotola sul campo, ma le storie delle persone che si muovono attorno a quel vuoto. Fu quello che capitò.

 

Esistono posti al mondo che sono catalizzatori di negatività.Avrei dovuto capirlo subito, appena arrivato nel Paese del Male, nella tarda primavera del 1995.Pioveva, il cielo rispecchiava il mio umore.Fermai la macchina poco prima del cartello che indicava la località.Sotto il nome, qualcuno aveva scarabocchiato“Paese di De Ville”.La strada scendeva leggermente, tra due file di case, avvolte da una tonalità triste di beige e grigio.Rimontai in macchina e mi sembrò di superare delle porte invisibili, che mi conducevano dentro a un dipinto sinistro.

 

Non occorre andare troppo distante da Torino, per scoprire quel luogo, solo qualche decina di chilometri.Ripensandoci oggi, lo ricordo come un posto avvolto in una bolla, i colori pastello spesso spenti, l’atmosfera stantia di un’umidità stagnante, i suoni ovattati, le nuvole di che si addensavano sul fiume poco distante.Il male. Il male ha molte forme per manifestarsi. Oh, certo, noi lo associamo a comportamenti violenti e malvagi. Il male che conobbi, quello di De Ville, quello della Sede, era una cosa più strisciante.Ti svuotava l’anima di valori e volontà senza che potessi rendertene conto.

 

Ero giovane, ingenuo e sciocco, allora. Sciocco come possono esserlo molti giovani, che credono che le loro possibilità siano eterne.Passavo da un’avventura a un’altra, convinto che le occasioni fossero infinite e che avrei sempre avuto il tempo per mettere all’opera i miei talenti.Lavoravo da poco, operavo per una società che si occupava di gestione di prodotti di prima necessità. Avrei dovuto cooperare con una filiale locale di un Ente nazionale.Un anno di lavoro distante da Torino, il territorio era stato devastato dall’alluvione del novembre precedente.Affrontai il trasferimento in quel posto sperduto e abbandonai gli amici e le abitudini. Lo feci malvolentieri, Torino era il mio respiro. Affrontai il tutto con rabbia e diffidenza.

 

Ricordo quando vidi la Sede dell’Organizzazione per la prima volta.Parcheggiai la macchina nel piccolo piazzale di fronte ai garage.Era una vecchia costruzione che si affacciava su di un prato circondato da alberi, lungo la via principale. L’unica di quel posto sperduto.Sulla facciata si apriva una vetrata con una strana forma, che mi ricordò immediatamente quella di una bocca spalancata.Non ero mai stato eccessivamente suggestionabile, ma quel posto mi mise a disagio dal primo momento.

 

Ricordo lo stanzone ombroso e mi chiesi per quanto tempo mi sarebbe toccato vivere lì.Trovai ad attendermi tre dei giovani che lavoravano per l’Organizzazione.Mi accolsero con affabilità e sorrisi. Troppi forse, ma non era mio compito fare questioni. Nomi? I nomi sono andati perduti con quello che successe dopo. Sono rimasti soltanto i soprannomi: Genova, un infido ragazzo basso dagli occhi sfuggenti che arrivava dal capoluogo ligure, Barbetta, un giovane artista che, chissà come, era arrivato fin lì, e il Ciccione, un ragazzo che non la smetteva di sorridermi beffardo.Poco dopo arrivò la Segretaria, una donna variopinta di mezz’età, con la quale avrei dovuto collaborare nel mio lavoro. Si prodigò in sorrisi, ma lessi dietro il suo modo di fare, l’abitudine a soppesare e calcolare quanto valesse una persona, per poterla sfruttare o manipolare a proprio vantaggio. Nel paese, come scoprii più tardi, solo De Ville era più potente di lei.

 

Non tardai a comprendere che le cose nel Paese non funzionavano come dovevano.Scoprii che parte delle sovvenzioni della mia Società venivano smarrite nei meandri dall’Organizzazione.Genova e gli altri, agli ordini della Segretaria, avevano l’abitudine di stornare il 5% delle cifre, talvolta anche il 10.Spariva di tutto tra le ombre della Sede. Vidi transitare sulle scrivanie false fatture riguardanti la riparazione degli automezzi di distribuzione, false carte carburante, offerte private girate a conti esterni all’Organizzazione.Quando finalmente vinsi le mie remore e chiesi spiegazioni, Genova, sorridendo, prese una busta da uno degli armadi e la depose con sguardo complice sulla mia scrivania, facendomi segno di aprirla.Era piena di soldi. Era la mia parte.- No, grazie – dissi – Non mi interessano i vostri extra.Vidi scendere il gelo sui loro volti.Mi odiarono da quel momento in avanti. Non ero uno dei loro.

 

Non era soltanto il malaffare a rendermi disgustoso quel Paese.Era l’aria difficile da respirare, era la Sede stessa nella quale continuavo a sentirmi a disagio. Era la vetrata a forma di bocca famelica.Mi sentivo osservato, e cominciai a provare la sgradita sensazione di essere spiato, come se qualcuno stesse frugando tra i miei pensieri.

 

Non mi sentivo bene, facevo lunghe passeggiate per espirare aria pura.Durante una di queste passeggiate, un paio di mesi più tardi, conobbi Rebecca.Stavo risalendo il paese, a piedi col giornale aperto, alla ricerca di notizie confortanti sul Toro.Mi imbattei in lei e nel suo soprabito rosso, appoggiata alla mia macchina, di fronte ad uno dei pochi negozi. Aspettava qualcuno.- E tu chi sei? - Le chiesi.- Il diavolo, non vedi? – si mise a ridere – Piacere, Rebecca… e mi tese la mano i con un ampio sorriso – Ah… è la tua macchina? Oh, scusa…Ci conoscemmo così. Eravamo coetanei, lei era carina, molto vistosa e questo bastò per dare un senso ad un’esperienza che non avevo voglia di vivere.Andammo d’accordo immediatamente e ci trovammo l’uno tra le braccia dell’altra con una velocità impressionante.Tutto semplice? No, lei viveva con un uomo e fu franca dall’inizio.Lo so bene, questa non è la storia della moralità scesa in terra.E’ la storia di quello che capitò nel Paese del Male.

 

Mi raccontò della sua vita, dei problemi che aveva con la persona con la quale viveva.Di quello che era capitato, del fatto di non poterlo lasciare da solo.Le solite storie insomma.Ma a quell’epoca ero davvero convinto che le occasioni fossero virtualmente infinite e si potesse indugiare su qualcuna.Anche Rebecca, come molti altri del paese lavorava per l’Organizzazione. Appena il nostro turno terminava o quando riusciva a svicolare dalla persona con cui viveva, mi raggiungeva nella casa che avevo affittato e lì facevamo volare le ore.In molti vedevano, ma nessuno stranamente parlava.Era un paese strano, tutti avevano l’abitudine a tenere la voce bassa e a guardarsi oltre le spalle prima di dire qualcosa. Avrei compreso in breve tempo il perché.Rebecca fu la mia compagnia nei mesi che portarono all’inverno e nei lunghi mesi nei quali il gelo e la neve avevano avvolto il paese, rendendo i suoi suoni se possibile ancora più ovattati.

 

Tra le persone che frequentavano la Sede, c’era un gruppo di giovani ragazze addette alla mensa.Dapprima non mi accorsi di loro, poi un giorno mi sentii osservato e mi accorsi che una di loro mi stava guardando di nascosto. Non doveva avere più di diciotto anni, parlava a bassa voce e pizzicava la “r”, Non fu mai invadente nei miei confronti. Spesso mi tenne compagnia nei momenti di libertà tra un turno e l’altro, quando Rebecca non poteva uscire. La chiamavo “Ragazzina”, per sfotterla, ma il nomignolo anziché farla arrabbiare sembrava divertirla.Era un’accanita lettrice e mi parlava dei suoi libri e dei suoi progetti nella sua casa immaginaria piena di pargoli, lontano da quel posto.Io ridevo, gradivo la sua compagnia e non volevo uccidere i suoi sogni con il mio cinismo.Spesso però la mia mente quando ero con lei, andava in cerca di Rebecca.La immaginavo tra le mura domestiche e mi intristivo. Mi stavo innamorando di una persona che non avrebbe mai potuto essere mia.Credo che la Ragazzina avesse capito fin dall’inizio. Ma non disse mai una parola per chiedere o per sapere, accontentandosi di quei pochi minuti che avevo per lei.

 

Un giorno in Sede, nel quale facevo fatica a respirare come al solito, il Ciccione, scuro in volto, posò un plico sulla mia scrivania.- Questo deve passare prima di tutto il resto. Troverai il 100% dei fondi. Questo non si tocca… E’ per De Ville – aggiunse sottovoce senza più sorrisi strafottenti.Genova e Barbetta osservavano la scena tra le ombre della sala con lo sguardo basso. Non compresi e mi misi a ridere. - E’ per De Ville – aggiunse ancora guardandosi intorno – Sei sordo? Non capisci?- Chi… chi è De Ville? – chiesi tamburellando sulla scrivania.

 

Rebecca era perfetta. Sembrava plasmata e modellata sui miei desideri.Era l’unica persona della quale mi fidassi all’interno di quel paese sinistro.- Ma insomma, chi è questo De Ville? – le chiesi un giorno.- Tu non ne hai paura? – camminavamo lungo il fiume mano nella mano per cercare un po’ di intimità. Aveva occhi profondi che non ho mai dimenticato.Rebecca parlò sottovoce, guardandosi attorno come per cercare di scorgere se qualcosa si nascondesse nell’oscurità del bosco.- Si dice viva nella vecchia casa sopra la collina di Priaglia, quella che domina il paese. Pare che sia molto vecchio e viva da solo… ma sia potente… molto potente – Mi strinse la mano con forza, come a cercare sostegno, mentre camminavamo.- Dicono conosca tutte le cose che avvengono in paese… e molti pensano che le venga a sapere anche in anticipo.Sbarrai gli occhi.- Lo so che sembro ingenua. Solo i più anziani dicono di averlo visto, quando era giovane. Dicono che uccise un uomo, da qualche parte qui vicino al fiume. Ma non fu mai incriminato né messo in galera. Il commissario che fu mandato dalla città per indagare morì improvvisamente nel suo letto… Quello che seguì terminò i suoi giorni in una casa di cura…Quel racconto metteva i brividi, ma non volevo lasciarmi suggestionare da dicerie di paese.- E’ proprietario di quasi tutte le attività qui. Anche la fabbrica di fiammiferi vicino all’autostrada è sua. E ovviamente è lui che gestisce l’Organizzazione. Agisce per intermediari. Se De Ville ordina qualcosa, bisogna farlo in fretta, senza discutere. Tutti fanno capo a lui, anche se nessuno lo conosce. – Si fermò e mi prese le mani, piazzando gli occhi blu, impauriti nei miei – Pare sia una persona perfida e spietata – sussurrò - molti pensano che sia una sorta di... oh mio Dio, di persona con strane capacità… Alcuni pensano che riesca a sentire e a vedere oltre il confine della sua stessa villa. Forse in questo momento ci sta ascoltando… Io sono terrorizzata da queste storie… Mi abbracciò forte. - Sono tutte stronzate! Siamo nel 1995, come fai a credere a queste leggende di paese? – Provai a sdrammatizzare, ma quella che uscì fu una strana risata nervosa.

 

- Quanto mi è antipatica quella lì… - Dai, Rebecca, ha solo 18 anni… - - Mi è antipatica lo stesso. So che le piaci…Mi misi a ridere di gusto.- Cosa fai? Leggi nel pensiero? - Sono un po’ strega alle volte – disse facendomi l’occhiolino e stringendosi nel suo giaccone rosso.La sua gelosia verso la Ragazzina mi parve irragionevole. Rebecca cambiava espressione quando lei transitava nei paraggi, e sinceramente non capivo come in che modo una donna bella e ambita come Rebecca potesse sentirsi minacciata da una giovane ingenua spesso rinchiusa in golfini bianchi.

 

- Perché non prendi anche tu la tua busta? – Mi chiese, mentre eravamo ancora abbracciati dopo uno dei nostri momenti di intimità e passione. Le avevo raccontato ciò che succedeva all’interno della sede - Lo fanno tutti e forse anche a De Ville non dispiacerebbe…- Al diavolo De Ville! Non ne ho bisogno, non sono come loro… - dissi seccamente. Ma ne avrei avuto bisogno eccome e la testa cominciò a frullare. Fu la prima volta che pensai seriamente di mettere le mani sulla mia parte.- Vorrei che tu rimanessi a vivere qui, quando sarà finito quest’anno… Pensaci…- mi disse tra un bacio e l’altro.Ma io in realtà stavo cominciando a pensare di scappare da quel luogo che stava annebbiando le mie scelte, da una donna che non riuscivo più a condividere con altri, e tornare dove tutto aveva un senso. Avrei sofferto, staccandomi da Rebecca, ma non avevo scelta.

 

- Dovresti leggere questo libro – mi disse un giorno la Ragazzina, mentre stavamo camminando lungo l’unica strada del paese – se vuoi te lo presto…Lo accolsi con diffidenza, credendolo una cretinata adolescenziale – Di cosa parla? – chiesi distrattamente. Si intitolava “Il fiore reciso e il nome dell’autore non era indicato.- Tu leggilo… non ti deluderà… A me è piaciuto enormemente… l’ho riletto tre volte…!Lo portai nel mio appartamento, lo gettai su una sedia e dovettero passare mesi prima di decidermi a sfogliarne anche solo mezza pagina.

 

Le cose continuarono a peggiorare nella Sede, mentre i giorni scorrevano con una lentezza inesorabile. In quel periodo la Direttrice mi propose, col suo solito sguardo da brividi, di fermarmi oltre il termine del mio mandato.Io ero uno di loro.Tutti mi chiedevano di fermarmi. Rebecca me lo chiese fino all’ultimo, mi implorò durante l’ultimo mese. Io però volevo soltanto scappare da quel luogo maledetto. Mi maledì al mio rifiuto. Disse che non l’avrei mai più vista.

 

Quando mancavano solo pochi giorni alla fine del mio mandato di lavoro, la Ragazzina ed io ci trovammo da soli poco distante dalla Sede, vicino a un prato, durante una delle nostre tante conversazioni complici e innocue sulla letteratura e sui suoi progetti.D’un tratto rimanemmo senza più discorsi e lei mi sorrise dal suo vestito bianco La sua tristezza per il fatto che me ne sarei andato, quasi parlava.Avvicinai il mio viso al suo, e la baciaiLei rispose con naturalezza, per nulla sorpresa, allungando le sue braccia attorno al mio collo.Non chiedetemi perché lo feci, non ci fu un motivo e non provai sensi di colpa. Benché fossi fortemente legato a Rebecca, sapevo che non avrei avuto futuro con lei, nonostante i suoi inviti a fermarmi in quel luogo.O forse la confusione mentale e morale del Paese del male aveva contagiato anche me.Restammo un po’ abbracciati senza parlare, poi la vidi andare via saltellando nel suo vestito bianco.

 

Sarei partito due giorni dopo il mio compleanno.- Posso passare da te stasera? – Mi chiese.Tentennai. Pensai a Rebecca.Ma pensai anche alle emozioni inespresse di quel giovane fiore che mi trovavo di fronte. Alla sua saggezza di donna in abiti da ragazzina. Le dissi di sì.

 

La aspettai seduto, leggendo finalmente qualche pagina de “Il fiore reciso”, il libro che mi aveva regalato, ascoltando le note ancora lontane di un temporale che si stava avvicinando.Era la storia nella quale trovai molte similitudini, con quanto avevo vissuto fino a quel momento e la lettura mi incuriosì. Quando sentii squillare il campanello da sotto, ripiegai l’angolo di una pagina come indice e me ne dimenticai.

 

Si presentò con un piccolo regalo e una busta, che mi pregò di non aprire fino a quando non me ne fossi andato dal paese.I suoi occhi comunicavano una tristezza sconfinata e mi spezzò il cuore.Ci baciammo istintivamente e quasi mi vergognai per gli anni che avevo in più di lei, dietro ai quali non potevo nascondermi.- Sai i rischi che corri? – le sussurrai.Non rispose e continuò a baciarmi.Sapeva bene i rischi che correva, nonostante il fatto che mi fossi ripromesso di non farle del male.Ma tant’è, come vi ho detto credevo che la vita fosse fatta di attimi pressoché infiniti. Era una serata di lontani tuoni e le nubi nere si addensavano tra i tetti e la finestra, mentre tutto accadeva.Sono rimasti pochi frammenti, puzzle di tenerezza, che all’epoca scambiai per altro.Ricordo le sue mani che diventavano pugni chiusi, aggrappati alle lenzuola.Non chiese mai nulla.Non mi chiese di portarla via con sé.Sapeva che con avrebbe potuto competere con l’altra donna e si diede senza condizioni, sperando che io capissi.Non lo avrei fatto se non molto tempo dopo.

 

L’ultimo giorno. Volevo andarmene, avevo la testa pesante, confusa e piena di pensieri che non erano più i miei.Restai in casa tutto il giorno a fare le valigie, in un giorno sballottato da temporali in sequenza.Avevo appuntamento di fronte alla Sede, ma nessuno si presentò. Neanche Rebecca, che era sparita dalla circolazione dopo il nostro litigio.Non vederla fu una sensazione di fallimento.L’atmosfera era strana. Tutto era strano. Una nuvolaglia nera che quale non avevo mai visto, si affacciava dalla parte superiore del paese.Non c’era nessuno per le strade. Sembrava si stesse per scatenare l’inferno. Tuoni senza pausa stavano circondando il paese, sempre più vicini. L’orizzonte era frantumato da lampi.- Devi scappare – disse una voce dietro di me.Trasalii, voltandomi di scatto. Era la Ragazzina. Era bianca in volto ed il suo pallore era accentuato dal vestito bianco, lo stesso che aveva indossato durante la notte che avevamo trascorso insieme.- Devi scappare… amore mio… – sussurrò – De Ville sta venendo a prenderti. Diventerai uno di loro se rimani.Non capivoUn lampo ferì il cielo. Un boato ci investì. Il fulmine era caduto nel prato poco distante.- E’ già qui… - disse. La pioggia prese a scendere prima copiosa, poi furibonda.La vidi correre in mezzo al prato di fronte alla Sede.Qualcosa o qualcuno di indefinibile stava arrivando dalla sommità del paese.Lei allargò le braccia di fronte a quella cosa, mentre i fulmini scoppiavano tutto intorno a lei.- Scappa – gridava - scappa e non tornare! Scappa… Ero terrorizzato. Vidi le sue guance rigate di lacrime – …Scappa e non tornare più. – gridò piangendo guardandomi un’ultima volta.Aveva occhi azzurri e i capelli scompigliati dal vento impetuoso.La sua figura si stagliava contro il cielo diventato nero, la veste bianca che quasi le si strappava di dosso.La ricordo in mezzo al prato, i rami degli alberi sembrava si stessero tendendo verso di lei. Lingue di notte nera scendevano dal cielo e vorticavano come per volerla inghiottire.Cercai di resistere a quel vento maligno e feci mezzo passo in sua direzione.La bocca della Sede ci guardava famelica, potevo udire la sua voce.Fermati qui con noi… Stiamo bene tutti insieme … Lei morirà se la lasci qui da sola…Udii una risata sorda nascere dal profondo di quella bocca malvagia.Era De Ville.Era un insieme di risate beffarde ed estranee.Era il riso di Genova, al quale si univano beffardi quelli di Barbetta e del Ciccione. Era il freddo calcolo della Segretaria.Era un respiro che sapeva di aria fredda e umida.Le porte della Sede si aprirono sbattendo. La Ragazzina stava attirando il vento e i tuoni verso di sé.La pioggia che cadeva a catinelle.Poi udii un colpo terribile.Scappai.Corsi a perdifiato verso la macchina.Fuggii come un vigliacco da quella scena di maledizione, abbandonando la mia dignità e parte della mia anima.Due giorni dopo mi ritrovai nella casa di Torino. Dimostravo dieci anni in più dei miei 28.Dormii per una settimana intera con l’eco di quei tuoni ancora nella mia testa.

 

Pensai di essere stato vittima di un’allucinazione. Qualcosa che dovevo aver mangiato l’ultimo giorno… o una droga che mi era stata somministrata a mia insaputa. Ero sconvolto, ma cercavo di non ripensare all’accaduto.Aprendo i bagagli mi cadde l’occhio sulla busta che la Ragazzina mi aveva consegnato la sera della sua visita.Non l’avevo aperta. La scartai con mani tremanti.

 

Amore mio, Non ho molte frecce al mio arco e non posso chiederti l’impossibile.Volevo solo ringraziarti per il tempo che hai passato con me, rendendomi felice.Ti chiedo soltanto di ricordarmi e ricordare questi giorni che abbiamo trascorso insieme.Vorrei tanto salvarti perché io... ecco… ti voglio bene.

 

Vorrei tanto salvarti…Mi strinsi la sua lettera al cuore e provai vergogna per quello che avevo fatto e per come l’avevo lasciata. Cercai di scacciare il ricordo, volevo vigliaccamente dimenticare, l’esperienza mi aveva sconvolto.Dimenticare… dovevo dimenticare… Frequentai i vecchi amici, facendo lunghe passeggiate in montagna per cercare di ridare equilibrio alla mia mente.La ragazza col vestito bianco tornava sempre però a visitare i mie sogni.Continuavo a vederla mentre stava per essere investita dall’uragano, lei sola contro le nuvole nere.E se non fosse stata solo un’allucinazione?Decisi di tornare, non appena rimessomi in forze.Ma non ne ebbi la possibilità.

 

Ebbi un incidente in montagna.Le cime mi facevano sentire a casa, lontano da quel mondo alieno che aveva tentato di assorbirmi.Ero con un amico. Attraversammo un nevaio, privi di qualsiasi protezione.Lui passò, la neve invece si staccò sotto i miei piedi.Scivolai lungo la montagna per trenta metri di neve. Sarei sicuramente morto, ma mi fermai a soli dieci metri dal baratro finale.Qualcosa o qualcuno mi fermò. Impiegai un’ora a tirarmi fuori da quella situazione, le dita e i piedi piantati nel ghiaccio, e alla fine raggiunsi alcune rocce al sicuro.Avevo battuto la testa durante la caduta, ancora oggi faccio fatica a ricordarne la dinamica.Quando mi svegliai, due giorni dopo, in ospedale, non ricordavo più nulla degli avvenimenti più recenti, della vicenda che avevo vissuto nella Sede del male, dei personaggi sinistri che avevo incontrato, del misterioso De Ville, e della ragazza avvolta dai fulmini, che una notte aveva stretto i pugni sulle lenzuola.

 

Ricostruii la mia vita.Dimenticai.Volli dimenticare.Ho sposato la donna che amo, dalla quale ho avuto figli. Non tornai più nel paese del male, neanche per sbaglio.Sembrava una storia finita, un capitolo da archiviare con un’alzata di spalle.

 

Capitò invece un anno fa.Leggendo le pagine di un racconto.“ Sei così vigliacco da scappare dalla ragazza che ti ama…”.Non so chi abbia scritto quelle frasi, ma mi pugnalarono la coscienza per aver abbandonato la Ragazzina tredici anni prima.Ricordai tutta la vicenda, fui scosso da brividi, trascorsi giornate da incubo pregando che i ricordi tornassero nell’oltretomba, da dove erano venuti.Poi, dopo qualche giorno, fui colto da uno strano senso di serenità e calma.Senza dire niente a nessuno, partii quello stesso pomeriggio.

 

Posteggiai la macchina di fronte al cartello stradale con il nome della località.Come molti anni prima, il cartello presentava la scritta Paese di De Ville.Entrai nel paese.La luce stava scemando lentamente e una nuvolaglia nera molto simile a quella dalla quale ero scappato nella notte maledetta si profilava lungo le coline. In lontananza giungeva un rombo sommesso.Tutto era silenzioso, immobile e ovattato come ricordavo, le persiane erano serrate, non una sola macchina incrociò il mio cammino. Non un singolo rumore sfiorò quelle ombre.I miei passi risuonarono sinistri lungo la lieve discesa e la loro eco si perse tra le case.Fui avvolto dai brividi. Che cosa mi aveva spinto a tornare in quel luogo dannato, che ora mi aveva richiamato per chiudere il conto?

 

La trovai dopo quasi mezzo chilometro.Faceva venire i brividi anche dopo tanti anni.Forse la Sede non aveva mai smesso di aspettarmi.Pensai alla fame di quelle fauci, che non era stata placata in tanti anni.Era vuota, non c’erano vetture posteggiate nel parcheggio.Non c’erano suoni, non c’erano rumori.Le nuvole si stavano avvicinando inesorabili.Improvvisamente udii un rumore lontano lontano. RitmicoEra un rumore sordo di passi, che si avvicinava.Mi guardai attorno, senza capirePoi la vidi, scendere passo dopo passo per la strada. Verso la Sede, verso di me.Aveva un impermeabile rosso fuoco.Mi sorrise.Era Rebecca.

 

Mi corse incontro e allungò le braccia verso di me. La abbracciai incredulo, come rapito da un sogno.- Quanto tempo hai impiegato per tornare? Quanto tempo? – mi disse stringendomi forte.Non riuscivo a comprendere quanto tutto fosse reale e quanto fossi sprofondato nell’onirico.Nel prato di fronte alla Sede, proprio nel punto nel quale avevo visto la ragazzina per l’ultima volta ergersi contro i fulmini, era nato un fiore, un magnifico fiore che sembrava illuminato di luce propria.Tutto attorno si stava facendo buio e le prime gocce di pioggia cominciavano a scendere.- Cosa è successo? Perché non c’è nessuno? Dove sono finiti tutti gli altri…? - chiesi- Ci sono tante cose che devo raccontarti…. – disse piantandomi in faccia gli occhi più blu che avessi mai visto.- Perché sei sparita in quei giorni? Perché non sei venuta a salutarmi, quando sono partito?- Ero arrabbiata con te – rispose con freddezza. – Sapevo che eri stato con la Ragazzina. Ma non importa… ora potremo stare insieme…Mi fermai a fissarla. Non capivo. Che cosa stava dicendo? Come faceva a sapere che ero stato con la Ragazzina? Stare insieme? Di quale tempo stava parlando?Un tuono più vicino annunciò la pioggia più intensa.

 

Guardai il fiore col riverbero di luce, scosso dalla pioggia. – Che fine ha fatto la Ragazzina? – chiesi con insistenza, temendo la risposta.- Non ricordi? Capitò poco dopo la tua partenza. Provammo a telefonarti, ma il numero che ci avevi lasciato era muto… Fu un incidente alla curva del Mulino… Quasi per incanto mi ritrovai di fronte alle lapidi di un cimitero poco distante.Non capivo come ci fossi arrivato, ma Rebecca era ancora di fianco a me.La sera diventava lentamente notte avvolgendoci.Ci spostammo poco distante, di fronte ad una lapide isolata dalle altre.Vidi il volto della Ragazzina prima di riuscire a distinguere le lettere del nome.La data di morte coincideva con quella della sera nella quale ero scappato.- No… - dissi, mentre una tenaglia di rimorso mi stringeva lo stomaco. Calde lacrime mi rigarono le guance.- E’ stata sciocca. Col motorino di notte. Noi le avevamo detto di restare con noi… Con noi sarebbe stata bene…La voce di Rebecca suonò strana e fredda alle mie orecchie, mentre il cuore si stringeva nel rivedere la foto della Ragazzina sorridente, così come la ricordavo, sotto il peso del tempo.I nostri riflessi si specchiavano e si sovrapponevano alla foto della lapide.Il mio riflesso di uomo e quello di Rebecca…Solo allora compresi e una lama di gelo scese nelle mie vene.Cercai di urlare, ma non ne fui capace.

 

Non era invecchiata di un solo giorno.Era uguale al giorno nel quale l’avevo incontrata per caso, appoggiata contro la mia macchina.Per caso. Con il soprabito rosso. Rosso.Non me ne ero accorto.Venni scosso dai brividi.- Tu… tu… tu sei De Ville! Eri…tu… Dall’inizio… eri tu!Il suo volto sincero lentamente assunse un sorriso ancora più ingenuo.La bocca, la bocca che le avevo baciato così tante volte si arcuò fino a ad assumere una posizione beffarda. Gli occhi, gli occhi nei quali mi ero perso più di tredici anni prima, si allargarono e mi penetrarono come due lame.Potevo sentire il suo pensiero malsano, quello che tante volte avevo avvertito tutto attorno senza identificare, la sensazione umida, di fiato corto, di disagio. La mente frugata.Ed i flash del passato esplosero nella mia mente.

E tu chi sei? Il diavolo, non vedi?Cosa fai? Leggi nel pensiero?Sono un po’ strega alle volte

Rise come avrebbe potuto ridere una bambina. Una risata fredda che avrebbe disintegrato il ghiaccio.Si portò una mano alla bocca quasi per nascondere la sua risata beffarda e pazza.

 

Fu una risata di uomo.Furono mille risate che si sovrapponevano.Erano le risate cattive della gente che avevo conosciuto.Era ingenua e felice nel vedere la mia faccia terrorizzata, mentre la sua bocca stava diventando qualcos’altro, in una smorfia.Solo allora mi accorsi che assomigliava alla smorfia della bocca delle Sede del male.

 

De VilleCome Devil.Come il Diavolo, per qualcuno.Come avevo potuto non pensarci?Il male ha molte forme per manifestarsi.Alle volte ha bisogno di spazi ampi e di imprese epocali.Altre volte ti succhia l’anima portandoti via la felicità e suggerendoti l’immoralità come cosa normale.

 

Tentai di scappare, ma nell’universo di follia nel quale ero piombato, corsi sul posto, con lei che si avvicinava. Rideva emozionata, mentre si avvicinava a me, parlandomi col suo pensiero alieno.Sei stato tu a scegliere me e non lei… Pensaci bene. Sapevi che Rebecca aveva un uomo. E lei ti si è offerta senza chiederti nulla in cambio… eppure continuavi a venire da me… hai preferito me, una persona impegnata e immorale a lei, mio caro… amore…! Pensaci bene. Io l’ho solo tolta da questa vita, ma chi era stata d ucciderla veramente?La sua risata mi esplose nel cervello. Non era una voce di donna e neppure più quella di un uomo. Era una voce strascicata, sibilante, aliena, che mi paralizzava.Rideva, l’Essere era felice.Mi aveva in pugno, dopo che le ero sfuggito tredici anni prima.Pensai alla Ragazzina. Feci forza nella mia mente e pensai a lei, con le lacrime agli occhi.E provai vergogna per quello che le avevo fatto.Sentii Rebecca, o De Ville o quello che era diventata, smorzare la presa.Il solo pensiero della Ragazzina dava sollievo al mio cervello e allontanava leggermente l’essere maligno.Approfittai di quell’attimo di confusione e mi lanciai via da quell’incantesimo, gridando di disperazione.

 

Mi ritrovai di fronte alla Sede.Non mi ero mai mosso da lì. Stavo perdendo il lume della ragione.Lei, era poco dietro di me. Mi seguiva, ma la distanza non aveva importanza. Sentivo i suoi passi nella mente, che stava di nuovo per essere invasa dalla sua presenza.Pioveva secchiate d’acqua, come quella sera, prima della mia fuga.Avevo di fronte a me il prato e quasi rividi la scena.I tuoni fecero vibrare il terreno e i lampi illuminarono lo scenario spettrale a giorno.La rividi mentre allargava le braccia in mezzo ai fulmini.Aveva fermato De Ville, che stava venendo per me.Mi aveva permesso di fuggire.

Ti chiedo soltanto di ricordarmi e ricordare questi giorni.Vorrei tanto salvarti perché io... ecco… ti voglio bene.

L’hai uccisa… maledetta… la mia mente si rivoltò contro De Ville.L’acqua scrosciava impazzita e la discesa del paese si stava trasformando in un canale che convogliava acque imbizzarrite.Sentivo la sua voce che mi diceva di fermarmi con gli altri, la sentivo trafiggermi il cervello e quello non era più un fastidio, era un dolore irresistibile, che minacciava di sciogliermi, di annientarmi la testa.Devi fermarti con noi… questo è il tuo posto. Il dolore cesserà. Stiamo bene qui, tutti insieme…In quell’istante mi accorsi che la Sede non era vuota. Dalle finestre si affacciavano figure scure, che allungavano le braccia infinite, verso di me.Riconobbi i loro sorrisi beffardi.Erano Genova, Barbetta e il Ciccione. Poco più in là anche la Segretaria tendeva le braccia nere come tenaglie. Avevano tutti occhi neri e profondi, specchio di menti senza anima.Feci per scappare verso il prato, verso l’unica cosa che sembrava sopravvivere di luce propria in quell’universo che stava implodendo. Il fiore, dove l’avevo vista per l’ultima volta.Ma fui sballottato dalla mia mente in fiamme e dal vento.  Le folate furibonde si incanalarono. Non era più un vento, ma un vortice che mi impediva di avanzare e mi risucchiava all’indietro. Mi stava risucchiando dentro la Sede, la cui bocca maligna aspirava senza bisogno di svuotare i suoi polmoni infernali.Fai come quella volta in montagna. Fai così…Era un’altra voce che mi stava risuonando nel cervello. Era quella della Ragazzina. Mi riempì di dolcezza e sollievo e placò il dolore che stava spaccandomi la testa.- Come dici? Urlai. Come… cosa…?Sentii Rebecca ruggire di rabbia. Il mio pensiero quasi esplose di dolore.Le finestre e le porte della Sede cominciarono a sbattere impazzite. I vetri esplosero tra i tuoni, una porta fu scardinata dall’interno.Mi gettai a terra nel prato, le mani piantate nel terreno bagnato, contro il vento fortissimo che mi trascinava in senso contrario.Fai come quella volta in montagna… aggrappati, salvati…I lampi squarciavano il cielo sopra la Sede ed il prato. Gli schianti scossero la mia anima e aprirono la porta dei ricordi.

 

Stavo cadendo.La mente era vuota, pensavo soltanto quanto fosse assurdo morire così.La neve scorreva sotto di me, verso il precipizio.Cosa ci fa un fiore sulla neve?Un fiore sulla neve…sul ghiaccioMi ero aggrappato a un fiore.

 

Il ricordo svanì e tornai preda del vento.AggrappatiLa voce si faceva largo tra lampi di dolore che neanche più sentivo e le mani nere dietro di me che mi avevano quasi raggiunto.Vieni da noi Non volevo voltarmi, non volevo vedere in cosa si fosse trasformata… ma il vento mi stava facendo indietreggiare verso tutti loro. Verso quella bocca che mi avrebbe inghiottito.Aggrappati… fallo per me…amore mio.Con un impeto di rabbia affondai le mani nel terreno che era diventato viscido e freddo come quella lontana neve e mi trascinai, con un balzo, con due, con tre.La cosa era dietro di me.Afferrai il fiore con la mano destra e mi ci aggrappai con tutte le mie forze.Strinsi i pugni nel terreno come lei quella notte lei li aveva stretti nelle lenzuola.- Perdonami… - sussurrai piangendo - con la poca voce rimasta… - perdonami.Poi il mondo esplose. Il vento si scioglieva nell’acqua, il fuoco si condensava sulla terra. Fui scaraventato lontano, ma la mia mente aveva smesso da tempo di capire.

 

Il sole sul mio viso.Avevo il volto bagnato.Potevano essere lacrime. Poteva essere rugiada.Il volto appoggiato contro il suolo, il braccio sinistro addormentato.Un usignolo poco distante cantava la sua canzone e la mia coscienza pensò che almeno l’inferno potesse essermi stato risparmiato.Mi alzai a sedere di scatto, spaventato.Dolore. La schiena doleva per l’umidità. Mi trovavo su un prato, una piccola radura inondata dal sole.Mi alzai con fatica, riconobbi il luogo.Era il prato sulla collina opposta al paese.Dovevano essere passate molte ore. Ero distante, al sicuro, in quel luogo dove il vento o il mio angelo custode mi avevano trasportato.Vidi le case in lontananza, riuscii a distinguere la Sede e la sua bocca malvagia.Guardai i mie vestiti infangati, la mano sporca di terra.Stringeva ancora, nel pugno chiuso, un fiore, diventato ormai secco.Il prato era pieno di altri fiori. Mi parvero bellissimi in quel momento, mentre mi avviavo lontano da quella storia.Quanti fiori. Tutto il mondo ne è pieno.

 

Vi chiederete cosa sia stato della mia vita dopo quella notte.L’ho ripresa dove l’avevo lasciata poche ore prima, non ho avuto altra scelta e non ho mai raccontato a nessuno quello che avvenne nel paese maledetto.A un osservatore esterno la mia vita può sembrare più che normale, vado a prendere i figli a scuola tutti i giorni, c’è sempre un sorriso o una parola buona per tutti e all’apparenza sono una persona allegra e felice.Spesso però mi piace rimanere da solo, fare quattro passi da solo per le mie montagne e lì, dove nessuno può vedermi, spazio con lo sguardo tra i fiori alpini dai mille colori e lì, lascio che la malinconia che abita dentro di me, mi avvolga.

 

Soltanto oggi, dopo tanto tempo, ho provato a buttare giù queste righe, ma sono inutili, so bene che nessuno mi crederebbe.Ogni tanto ripenso a quella ragazza che diede la vita per regalarmi la salvezza.Ho conservato questo fiore ormai secco.L’ho chiuso dentro a una copia de ”Il fiore reciso”, quello che le piaceva tanto.Alla stessa pagina che stavo leggendo quella sera, quando suonò alla mia porta.Ho finito di leggerlo. E’la storia di noi due. Quella che sarebbe stata se avessi scelto lei, se avessi deciso di portarla via.Era già stata scritta su quel libro che mi regalò, sperando inutilmente che io fossi così umile da leggerlo affinché ci salvassimo. Ricorderò finché vivrò.Ma non potrò mai parlare con nessuno, di un fiore che aveva radici tanto salde da sostenermi, di un amore tanto grande che pure non fui in grado di vedere e che morì per la mia superbia.Ora abita, da qualche parte, nei miei ricordi.Straccerò questi fogli, cancellerò queste righe. No, non potrò mai parlarne con nessuno. Sia questa, se necessario, la mia condanna. Mauro Saglietti