mondo granata

Il paese maledetto (Poles apart)

Redazione Toro News
di Mauro Saglietti

Davvero Non vuoi conoscere la Leggenda, Maestro?Sei l’unico di Borgarino a non averla ancora sentita…- No. E non chiamarmi Maestro, ti supplico. E poi io non sono di Borgarino, lo sai…

 

Era la primavera del 1974.Forse avrete sentito parlare di questa storia, almeno, quelli di voi più avanti con gli anni. Oggi ho 60 anni, faccio il pittore nei limiti di tempo e quando avrò una pensione, sempre ammesso che ci riesca, potrò farlo a tempo pieno.Nella primavera del 1974 avevo 24 anni ed ero il maestro di un piccolo paese di meno di duecento anime, nell’entroterra della Riviera, Borgarino.Avevo completato gli studi artistici a Torino, ma, benché utilizzassi il monolocale di un amico come studio di pittura, avevo quasi inevitabilmente cominciato ad insegnare per sbarcare il lunario. Le graduatorie tuttavia erano quelle che erano.Erano state piccole supplenze, fino a quando, alla fine del 1973, non mi era stata assegnata una supplenza annuale, in un paesino dell’entroterra della Riviera.Un pugno di anime e i balconi di un vecchio borgo, che si affacciavano sul mare tra case di più recente costruzione.Così, in quell‘autunno, avevo lasciato Torino a bordo della mia Dyane color cicoria, per farvi ritorno soltanto nei week-end, in particolare quelli nei quali giocava il Toro, ed avevo preso in affitto una camera in una casa di recente costruzione.All’epoca gli affitti non erano così proibitivi, anche per un povero maestro alle prime armi.

 

Sognavo l’America, il rock e gli Impressionisti, e mi ritrovai a Borgarino. Non sarebbe stato per sempre, pensai, immaginando il mio futuro di artista libero e cosmopolita, non intrappolato negli ingranaggi di un lavoro dipendente. Insegnavo nell’unica classe, composta da 18 bambini, figli del boom economico che era arrivato fin su quegli anfratti. Insegnavo loro la storia e la grammatica come un ex figlio dei fiori poteva farlo, ma appena potevo li portavo sul grande terrazzo di fronte al mare a disegnare il mare e l’isolotto non troppo lontano.- Il disegno e i colori - dicevo loro - aprono la mente e la sensibilità… Creano altre realtà… ognuno ha la propria - spiegavo goffamente a quei visetti curiosi, che annuivano probabilmente solo per farmi piacere.Celeste era la più brava, mi sarebbe mancata molto con gli sviluppi che avrebbe preso quella drammatica vicenda. E così anche Angelino, un ragazzino di 10 anni che strappava commozione come solo un bimbo sa fare con la sua ingenuità. Oppure Agnese, che aveva un anno meno degli altri. Se chiudo gli occhi mi sembra di rivederli ancora tutti lì, nella classe della vecchia scuola.

 

Il paese distava appena sette chilometri dal mare, eppure il tempo sembrava essersi fermato ad un’età ancora contadina. I caruggi, dominati dai ruderi del vecchio castello, si alternavano a nuove costruzioni. Gli uomini adoravano radunarsi la sera per giocare a carte nell’osteria di Raffaele, tranne il giovedì, quando si formavano tanti piccoli gruppetti casalinghi per la visione del Rischiatutto. Pietruzzo invece, era l’unico Carabiniere di Borgarino che, ben inteso, non aveva una stazione vera e propria. Benché non fosse nativo del luogo, la gente lo aveva preso in simpatia.

 

Durante i primi giorni della mia permanenza in quel paese, mi capitò spesso di imbattermi in una figura di donna, esile e quasi eterea. Era vestita completamente di nero. La intravidi saltuariamente da lontano, mentre attraversava un arco lontano, o girava l’angolo di una piazza. Era una figura sinistra, che mi faceva paura, ma almeno sulle prime, non ci feci caso.

 

Per un po’ di mesi, viaggiai allegramente con la mia Dyane cicoria, avanti  e indietro la domenica, perché nemmeno una donna sarebbe riuscita a farmi rinunciare agli amici e alle partite del Toro.Il lunedì mattina, prima dell’alba, mi rimettevo in movimento verso il mare.Un giorno, verso l’orario di uscita da scuola, la piccola Agnese mi mostrò il disegno che aveva fatto durante l’ora appena trascorsa. Raffigurava due figure, una maschile ed una femminile, che allungavano le braccia l’una verso l’altra, senza riuscire a raggiungersi. - Brava!- le dissi, mentre la accompagnavo all’uscita - Hai fatto un disegno… pieno di speranza.- No, Maestro - disse lei con la sua vocina ancora acerba - Questo è un disegno triste…- E perché mai? - sorrisi stupito.- Perché i due personaggi non si incontreranno mai.Non ebbi tempo di sorprendermi e neanche per riflettere troppo.Eravamo sulla scalinata della scuola, tutti i bambini erano già stati condotti a casa da genitori e nonni. Io e Agnese ci eravamo attardati per parlare del suo disegno.- Finalmente ce l’hai fatta, lumacona! - disse una voce, a metà della scala.Non l’avevo mai vista prima di allora. Era una ragazza slanciata e, in quella che sembrava la sua immaturità, mi parve subito molto attraente.Era la sorella di Agnese. Mi porse la mano con un gesto rapido e un sorriso, ravvivandosi i capelli, cosa che non cadde inosservata da parte mia – Piacere, Laura - disse.Corsero verso casa, e la ragazza si voltò a guardarmi una volta, mentre scioglievo la coda nella quale contenevo i capelli, durante le lezioni.Come venni a sapere ben presto, aveva 17 anni, ben sette in meno di me.E, come forse avrete già temuto o intuito, diventò la donna della mia vita.Proprio la donna, esatto. Non l’ho mi dimenticata, anche se da quel giorno sulle scale della scuola di Borgarino è trascorsa una vita, anche se da allora ho girato il mondo.

 

Dapprima ci incontrammo scambiandoci un - Ciao - alle volte un po’ imbarazzato ed io dovevo lottare con me stesso per nascondere il filo di attrazione che provavo per quella che era in fondo ancora una ragazzina. Poi cominciai a trovarmela di fronte in maniera un po’ sospetta.Avevo preso l’abitudine di dedicare i miei solitari pomeriggi alla pittura, in uno spiazzo erboso vicino ai ruderi del castello, dal quale si intravedeva il mare. Lì posavo il mio cavalletto e mi mettevo all’opera con tavolozza e tela.- Ti posso tenere compagnia? - udii un giorno.Sembrava sbucata dal nulla. Quel giorno quasi svenni dalla paura e la trattai malissimo. Ma, giorno dopo giorno, presi ad abituarmi alla compagnia della ragazza, che trascorreva i suoi pomeriggi con me, parlando, alle volte studiando, altre volte semplicemente guardandomi mentre dipingevo.- Davvero non hai di meglio da fare? - le chiesi un giorno, dopo circa un mese dal nostro primo incontro.- Mi piace… tenerti compagnia mentre dipingi. A te dispiace? - disse. Udii il fruscio dell’erba, sapevo che era dietro di me, prima ancora che la sua mano si posasse sul mio fianco.- Laura… - le dissi piano - Ho una ragazza a Torino…Mentii. Avevo paura dell’attrazione che provavo. - Lo immaginavo - rispose calma, nascondendo la punta di delusione - Chissà quante ne hai tu ragazze a Torino…! - la sua mano mi pizzicò all’altezza dei fianchi.Per quel giorno se ne andò scivolando lentamente sul pendio erboso e immediatamente venni assalito dal rimorso e mi diedi dell’imbecille per averla mandata via, come se in fondo già mi mancasse.Sperai di vederla tornare il giorno successivo, ma non venne. Sperai di scorgerla aspettare Agnese all’uscita da scuola, ma non la vidi neanche lì. Non venne quel pomeriggio allo spiazzo e non venne neanche il terzo giorno, quando non riuscii a realizzare una sola striscia di colore che non fosse cupo. Il quarto giorno invece, udii di nuovo un fruscio dietro le mie spalle.Senza dire nulla, lasciai cadere la tavolozza e il pennello nell’erba, voltandomi.Feci due o tre passi verso di lei. Poi la baciai. Le mie mani, ancora sporche di colore, si intrecciarono con le sue.- Sciocca. - le dissi, riferendosi al fatto che non fosse più tornata.- Scemo. - disse lei.

 

Fu così che cominciò, nell’autunno del 1973 e non c’è bisogno di aggiungere altro, se non che ci scoprimmo quasi inesorabilmente insieme.- Sei troppo piccola - le dicevo, e lei ripeteva sempre – Scemo! E poi tanto non hai l’altra ragazza a Torino? - diceva per sfidarmi.Studiava a Riva, il paese sulla costa, sette chilometri più in giù, e ogni giorno andava e tornava con l’autobus. Sulla via del ritorno passava a prendere la sorellina a scuola, in modo tale che ci si potesse incontrare.Sapevamo bene a cosa saremmo andati incontro, io 24 anni, lei 17, con i pettegolezzi del paese.Ma io non ero “Bocca di Rosa” e Pietruzzo non sarebbe certo stato il gendarme che mi avrebbe accompagnato alla stazione.Decidemmo di infischiarcene, anche perché nessuno dei due si rese bene conto di quanto fosse importante quello che stava nascendo se non, forse, un attimo prima della fine.

 

Trascorse l’inverno del 1973 e la primavera si affacciò ruggente.Laura adorava la musica. La madre, pianista, aveva un pianoforte in casa che la figlia speso strimpellava.Abitava in un palazzo relativamente nuovo, e dal suo ampio balcone era bello rimanere a guardare il mare, quando sua madre si allontanava di casa per le lezioni di piano ed il padre, che lavorava distante, era ben lungi dal tornare.Spesso dipingevo dal balcone con lei seduta sul pavimento, dietro di me, il mare sullo sfondo della tela. La pittura per quei due ragazzi che eravamo, era una sorta di preliminare.Presto o tardi avrei sentito le sue mani sui miei fianchi, e avrei immaginato il resto sulla tela, poco prima che accadesse.

 

Molte volte, quando nel week-end partivo per tornare a Torino, la vedevo sofferente, anche se non disse o chiese mai nulla per paura di perdermi. Forse era la paura del mio viaggio in macchina, forse la piccola bugia che le avevo raccontato e che ancora ci divideva. Allo stesso modo cercava di nascondere la tensione che indossava al mio ritorno, quando la trovavo, all’alba del lunedì mattina, con una tazza di the fumante nella mia camera, della quale le avevo dato le chiavi.

 

Un pomeriggio, dopo aver dipinto, le chiesi che progetti avesse per la sua vita futura, se le sarebbe piaciuto viaggiare con me.- Quanta fretta? Io sono ancora piccola…- Allora dovresti essere ancora piccola per fare altre cose… ma non lo sei.- la abbracciai.- Scemo! - Tentò di respingermi - Cosa dice poi la tua ragazza di Torino?Sorrideva, ma gli occhi erano tormentati dal dispiacere. Quello era il momento.- Non esiste… - bofonchiai piano - Non è mai esistita… La vidi chiudere gli occhi. Se c’erano lacrime, riuscì a trattenerle.- Scemo - disse - poi si sfilò via la maglietta.

 

- Ma come fai ad ascoltare tutta questa musica? - le chiesi in un pomeriggio di primavera, quando la conclusione drammatica della nostra storia stava galoppando verso di noi, innamorati inconsapevoli e maledetti. Laura amava trascinare con sé il suo mangiadischi arancione e la valigetta porta dischi. Ogni pomeriggio le canzoni dei 45 giri, che lei acquistava a Riva, facevano da colonna sonora alla loro giornata.- Indovina cos’è questa? - mi chiese Laura un giorno. Le piaceva giocare, in fondo.Alcune note di una tonalità triste partirono.- A blue shadow, troppo facile! - risposi. Era la colonna sonora dello sceneggiato “Ho incontrato un’ombra”, che rimase in classifica per mesi.- E questa? - tolse il 45 giri e lo sostituì con un altro. La puntina emise un rumore poco amico.- Questa… questo è Demis! Certo! Guarda che non me la cavo male, eh?La stanza si riempì delle note familiari che così tante volte avevo sentito.

Good-bye my love, good-byeGood-bye and au revoir,As long as you remember me, I’ll never be too far…

- E questa ancora? Il mangia dischi si lasciò andare a una musica tristissima.- Vuoi un aiuto? Te l’ho suonata spesso al pianoLa riconobbi dopo qualche istante.L’ultima neve di primavera, una musica che avrebbe saputo strappare lacrime anche alle pietre. Eravamo andati a vedere quel film durante le vacanze di Natale al cinema del paese costiero ed eravamo usciti lacrimanti e abbracciati, dopo aver visto quella pellicola straziante.- Se dovessi mai perdermi - pensa a questa canzone quando mi cercherai.- Non dire stronzate - replicai asciutto e sarcastico.Così i giorni di quella primavera scivolarono sulle note di quelle canzoni, Anima mia, Un’altra poesia, I don’t Know how to love him di Jesus Christ Superstar, Anna da dimenticare, Infiniti noi, Mind games…Spesso ancora Laura portava con sé il “Geloso”, un registratore a bobine dove incidevamo le nostre voci e tenevamo un piccolo diario delle nostre avventure.Giorni da incorniciare in un quadro.

 

La primavera ruggì e avrebbe lasciato spazio a un’estate che non sarebbe mai arrivata.A mano a mano che i giorni scorrevano, la vedevo intristirsi in fondo agli occhi. Lo capivo dai suoi sospiri, dalla musica che ascoltava con il suo mangiadischi.Io parlavo per colori, lei per suoni, forse era stato il bisogno inesorabile di essere uniti a qualche energia a farci incontrare.- Tra poco la tua supplenza finirà - mi disse una sera, nella Dyane Cicoria. - Tornerai a Torino… - non ce la faceva più. Mi fece sinceramente compassione per la sua purezza.Fu l’unica volta che la vidi piangere.- Voglio stare con te - le dissi asciugando le sue lacrime - Voglio soltanto stare con te.Mi abbracciò forte - Andiamocene via, allora. Andiamocene subito!- Subito? E perché mai? E’ solo l’inizio di maggio e…- Andiamocene. Questo posto ha qualcosa di... di strano - disse guardando le ombre del paese - Sarà per via della leggenda… l’amore non vive a Borgarino.Alzai gli occhi al cielo - Ancora con questa leggenda? Sei proprio una sciocca - dissi.- E tu uno scemo! - ci coccolammo un po’ ma quella sera le ombre lunghe create dalla luna parlavano di fantasmi.Ed erano un triste presagio.

 

Il sabato pomeriggio, 4 maggio, precedente alla mia partenza, stavo scendendo per i carruggi del paese, per passare a prendere Laura.Fu allora che un’ombra nera mi si scivolò davanti silenziosa.Sobbalzai spaventato e impaurito. Solo allora mi resi conto che si trattava di un personaggio reale.L’avevo sempre immaginata come una vecchia grinzosa, invece era una donna di mezz’età, secca come un chiodo, gli occhi chiarissimi che guardavano un punto lontano, i capelli grigi che uscivano dal velo nero.- Stai alla larga. Questo posto è maledetto…! – sembrò parlare in stato di trance.Ebbi solo il tempo di bofonchiare un – Che cosa? – che lei si avvicinò ancora di più e mi afferrò il bavero della giacca.- Vattene, ti ho detto! Dimenticala, prima che sia troppo tardi…! Dimenticala!Sparì così come era arrivata, defilandosi e quasi scivolando sul selciato.Mi guardai attorno, non c’era più.Ero terrorizzato.

 

- Io non conosco nessuna “Strega”, non so di chi tu stia parlando – disse Laura poco dopo a casa sua.- Una donna vestita di nero, ma bianca come la fame. E’ alta e curva, mi ha detto che questo posto è maledetto… - quasi ci risi su, ma lei si rabbuiò.- Sembra quasi tu stia parlando della vecchia maestra… - disse preoccupata.- E’ diventata matta? – chiesi scherzoso.- No – rispose seria – E’ scomparsa… molti anni fa…

 

Trascorremmo quel sabato pomeriggio nello spiazzo, a dipingere e a coccolarci.- Da un po’ di tempo dipingi soltanto soggetti cupi – disse indicando la donna solitaria affacciata su di un balcone, che stavo riempiendo di colori spenti – Cosa ti sta capitando?Avevo ancora nella mente l’incontro con la strega e scordai la sua domanda.- Non è possibile che io abbia parlato con una persona scomparsa… quale fu la sua storia?- Nessuna storia, scomparve cinque anni fa, una mattina. Nessuno ne ha più saputo niente… - tergiversava, sentivo che mi nascondeva qualcosa. Mi girai verso di lei:Avrei potuto parlare e chiedere, se fossi stato più attento a tutte le parole che mi aveva rivolto nel corso di quei mesi. Avrei potuto lasciarla raccontare qualcosa su quella leggenda che la tormentava. Invece non dissi nulla e il discorso cadde come una piuma. Avremmo potuto fare qualcosa entrambi per sostenerla, ma la lasciammo cadere a terra.

 

Fu così che andò. Trascorremmo parte della notte insieme, quindi la domenica mattina mi accompagnò alla Dyane, per vedermi partire.- Ma che diamine ha di speciale quella squadra, che ti fa mollare tutto e correre lontano per un pallone che rotola, lasciando qui una ragazza tutta sola….Ammiccò provocante e fui tentato di scendere dalla vettura.Tante volte le avevo spiegato che non era solo un pallone che rotolava. Le avevo parlato del cuore di una città… tante volte.- Vieni con me, sciocca! – le chiesi.Lei entrò in macchina, mi diede un bacio appassionato, quindi sussurrò – La prossima volta, te lo prometto… scemo!Ricordo la sua figura ed il suo abitino, svanire nello specchietto retrovisore, mentre la macchina sobbalzava andandosene.Non ci sarebbe stata nessuna prossima volta. Quella fu l’ultima volta che la vidi.

 

Trascorsi la domenica allo stadio, per la cronaca il Toro vinse contro la Lazio per 2-1 con due magie di Pulici. Fu la partita del terribile temporale che ci ridusse come stracci.Alle 5 del lunedì mattina mi rimisi in movimento, l’autostrada a carreggiata unica era avvolta da una sinistra foschia che andava e veniva, ma che lasciò ben presto spazio al sole e all’aria del mare.Arrivai a Borgarino alle 7.44. Posteggiai la Dyane cicoria nei pressi di una piazzola poco distante dal paese, come facevo sempre.Notai una macchina poco distante accesa, senza nessuno a bordo, quindi tirai dritto verso casa mia.Non incontrai nessuno lungo il tragitto e i miei passi rimbombarono stranamente fino alla porta di casa.Potevo sentire il profumo del caffè che Laura mi aveva preparato, da una certa distanza.Spalancai la porta, dicendo – Cucù! - già pregustando la sua vista e le sue intenzioni.Sulla tavola c’era la tazza di caffè fumante, ma lei non c’era.Ero in ritardo – riflettei con un pizzico di rammarico – Laura doveva essere già corsa al pullman che l’avrebbe portata a scuola.Poco male, pensai, l’avrei aspettata nel pomeriggio. La casa sapeva di lei, come se fosse stata lì soltanto fino a un secondo prima. Sorseggiai il caffè, mi cambiai, quindi mi avviai verso l’Edificio scolastico.Tutto era stranamente silenzioso e non riuscii a sentire il consueto vociare di Claretta, Agnese e degli altri bambini che si approssimavano alla scuola.Cinque minuti dopo le 8, mi affacciai preoccupato sulle scale, non vedendo traccia di anima viva.Sulle prime pensai ad uno scherzo, o che per sbaglio fosse domenica.Era tutto troppo strano. L’edificio scolastico era completamente vuoto, nella sala professori la giacca della Preside era appoggiata a una sedia, insieme ad un mazzo di chiavi e ad un plico di carte.Ma lei non c’era.Uscii in strada, udii soltanto il rumore del vento.Tornai nella scuola, composi il numero di Pietruzzo. Nessuna risposta.Composi il numero della casa di Laura, almeno i genitori avrebbero saputo dirmi…Nessuna risposta.Corsi per strada e mi avventurai per i carruggi.Suonai i campanelli senza che nessuno si affacciasse, chiamai ad alta voce, mentre il respiro aumentava.Una bicicletta era caduta al centro di una strada, come se qualcuno l’avesse abbandonata in tutta fretta, alcune lenzuola galleggiavano di fianco a un sapone, nel lavatoio di una delle vie, una macchina era ferma in mezzo alla strada col motore acceso.Da lontano mi giunsero alle orecchie le note di una canzone.Mi illuminai di speranza e corsi verso quel luogo, mentre i miei passi rimbombavano di solitudine.Era un vecchio palazzo, di fianco al Municipio. Le finestre erano socchiuse, sentivo delle voci.Entrai nell’androne e salii fino al secondo piano. Suonai il campanello bussai. Ma l’uscio dell’appartamento era chiuso e nessuno aprì. Poggiai l’orecchio alla porta. Le voci, la musica che avevo ascoltato, provenivano da una radio all’interno, lo compresi dalla pubblicità.Tornai in strada suonando tutti i campanelli di quel paese fantasma, avendo come unica risposta, quella dell’eco dei miei passi.

 

Arrivai a casa di Laura. Entrai e salii fino al quarto piano. La porta era socchiusa. Una cartella da lavoro giaceva sul pianerottolo. Dall’interno giungeva puzza di bruciato. Un pentolino si stava fondendo sul gas, senza più acqua. Chiusi i fornelli e aprii la finestra. Nessuno anche lì, benché la vita sembrasse essersi allontanata da non più di dieci minuti.Mentre stringevo i pugni per fare leva sulle mie scarse risorse, un suono acuto mi fece trasalire. Il telefono! Forse Laura stava cercando di telefonare dalla scuola del paese sul mare… Forse lei non era rimasta coinvolta in questa assurdità camuffata da incubo.Mi catapultai a rispondere affannato, ma dall’altra parte non udii la sua voce. Era la voce di un uomo, dell’Ufficio Postale del paese sul mare. Voleva segnalare l’arrivo di un vaglia…Riattaccai senza ascoltare. Mi venne in mente un tentativo disperato che potesse regalarmi uno spiraglio di speranza. Frugai tra le guide telefoniche e composi il numero della scuola del paese sul mare.Chiesi se Laura si fosse presentata a scuola, quel giorno. Mentre attendevo, la fronte imperlata di sudore appoggiata contro il muro del salotto, sentivo in lontananza l’eco di telefoni che squillavano e rimbombavano in spazi vuoti, riempiti soltanto dai muggiti provenienti dalle stalle.Pregai, pregai e pregai ancora tra me.La voce dalla scuola rispose dopo un’eternità. E per me fu una condanna.Laura quel giorno non era mai arrivata a scuola.Scappai via da quel luogo e mi avventurai correndo incredulo per le vie del paese abbandonato.Il mio richiamo verso Laura si perse nei vicoli e negli anfratti.Mi presi la testa tra le mani e mi appoggiai a un muro.Il paese era vuoto.Non c’era più nessuno.

 

Raccontarvi ora quello che capitò e quelle che furono le mie emozioni, sarebbe arduo, perché caddi preda di un forte shock. Faccio fatica a ricordare i primi momenti di quella mattinata.Forse vagai, forse restai lì. La mia memoria confusa ha come l’impressione di aver visto transitare la figura vestita di nero, mentre io ero seduto contro il muro, scioccato. Ma non aveva un’espressione crudele. Era uno sguardo triste, semmai.Ma potrei benissimo sbagliarmi, ero preda della confusione. Se fu una cosa reale, fu l’ultima volta che vidi la figura in nero, che scivolò, così come era solita spostarsi, lontano da questa storia.

 

I primi a raggiungere Borgarino furono coloro i quali avevano qualche consegna da fare o la posta da recapitare. Nessun nucleo familiare fu curiosamente diviso da quanto accadde quel giorno. Nessuno si trovava al di fuori dei confini.Dopo qualche ora giunsero le forze dell’ordine dal Paese sul mare, poi dal Capoluogo, quindi giunsero i giornalisti.Ognuno di loro con un’espressione di scherzosa incredulità. Tutti credevano che quelle 182 persone sarebbero saltate fuori da un momento all’altro.Il paese crepitava di telefoni che squillavano, di televisori accesi e di fiamme.Almeno tre incendi distinti erano scoppiati a causa dei fornelli lasciati accesi o da focherelli delle sterpaglie rimasti abbandonati.Verso sera, con l’aria del mare che ravvivava le fiamme, la collina era tutto un via-vai di sirene di polizia e pompieri.Mi facevano delle domande, e non ricordo cosa riuscii a rispondere.Non riuscivo neanche a pensare, è questa la verità.Verso sera arrivò un qualcosa di diverso dalle normali Forza dell’Ordine. Doveva trattarsi dell’Esercito, o di forze speciali.Fecero sgomberare il paese da giornalisti, curiosi o amici degli abitanti e lo circondarono con dei nastri di segnalazione. Impiantarono cellule fotoelettriche, un set improbabile e grottesco su una città fantasma.Poi mi individuarono. Mi fecero salire su un furgone e mi portarono via a forza, nonostante le mie disperate proteste.Mi tennero in un luogo imprecisato, a qualche decina di chilometri da Borgarino.Passarono dieci lunghi giorni, prima che potessi tornare a prendere i miei effetti, dieci giorni in una cella, dalla quale venivo saltuariamente prelevato per subire interrogatori assurdi.Mi chiesero che cosa avessi visto, mi domandarono una ricostruzione dettagliata. Ogni giorno pregavo di veder spuntare Laura oltre le sbarre della mia cella. Ma tutte le volte le mie speranze vennero deluse, a tal punto che mi chiesi veramente se per caso non mi fossi inventato tutto.

 

182 persone scomparvero senza lasciare traccia da Borgarino, senza lasciare traccia, la mattina del 6 maggio-1974, alle 7:42 in punto.L’ora fu ricostruita a partire da una conversazione telefonica di uno degli abitanti con una persona di un paese poco distante.Quest’ultimo raccontò che improvvisamente la voce del suo interlocutore fu come tagliata a metà di una frase.7:42. Quando lo venni a sapere ricordai di essere arrivato a casa alle 7:44 e di avere trovato il caffè caldo.Laura… Laura era stata lì, fino a due minuti prima. Era lì che mi aspettava, come faceva sempre. Se solo avessi impiegato due minuti in meno… un’accelerata in più, una frenata in meno.O se non fossi mai partito per andare a vedere la partita del Toro, forse…Forse non so davvero cosa sarebbe successo.Mi sono spesso chiesto, da persona ragionevole, come possa avvenire che 182 persone vengano inghiottite nel nulla, in una mattina di primavera, senza lasciare traccia.Ma questo è quello che accadde e ne avrete sentito parlare anche voi.E io ho lasciato la mia razionalità su quelle piccole alture, tanto tempo fa.

 

Ovviamente i media dell’epoca non parlarono di altro per oltre un mese e si cominciò a definire Borgarino come “il paese maledetto”. Subentrò una isteria collettiva, in anni nei quali si viveva una autentica attrazione per i misteri e per gli UFO.Mitomani e visionari ebbero il loro grande momento di gloria. C’era chi giurava di avere intravisto alcuni degli abitanti in un villaggio sperduto della Costa D’avorio, o chi riconobbe, nelle foto pubblicate dai giornali, un lontano amico, morto 50 anni prima.Poi, improvvisamente, la notizia venne ridimensionata.Giornali e telegiornali cominciarono a riportare inesattezze, come il fatto che parte della popolazione in realtà si trovasse fuori dal paese al momento dell’inspiegabile fenomeno. Oppure sostennero che in realtà il numero degli abitanti fosse molto minore di quanto dichiarato in un primo momento e che le prime stime si riferissero a un vecchio censimento.Tutte balle ovviamente. Nessuno riuscì mai a capire cosa fosse successo quel maledetto giorno, meno che mai i militari.E quando esistono verità che sconvolgono l’ordine delle cose, e che non possono essere comprese, allora, meglio celarle.

 

Quando tornai a Borgarino, lo feci scortato. Il paese era stato circondato da cavalli di frisia e sbarramenti. Mi accompagnarono alla mia vecchia abitazione, dove potei recuperare le mie vecchie cose, e la Dyane Cicoria, alla quale nel frattempo si era scaricata la batteria.Si allontanarono da me, soltanto quando furono sicuri che avessi imboccato l‘autostrada per Torino.

 

Vagai forse per ore, istupidito com’ero.Poi voltai la macchina, col nome di Laura che mi rimbalzava nelle orecchie.Tornai indietro, mi avvicinai al paese attraverso un’altra strada.Vagai a piedi nei boschi, sapevo come introdurmi a Borgarino.Quando mi infilai nello stretto varco tra due case, non protetto dai cavalli di frisia, era ormai notte e mi trovai di fronte ad un paese fantasma.Camminai contro i muri per evitare che l’ombra della luna mi rivelasse a qualche osservatore.Salii verso l’appartamento di Laura. Lo trovai come l’avevo lasciato, l’Esercito non era ancora arrivato fino a lì.Ogni tanto nel paese risuonava il suono di qualche telefono, la corrente non era ancora stata staccata. Senza mai accendere la luce, arrivai fino in camera sua, cercando un’ombra, un sussurro, anche solo un fruscio che mi desse una spiegazione.Ma non ci fu niente. Mi stesi sul suo letto, quello che doveva avere rimboccato quel lunedì mattina fatale. Il suo profumo delicato avviluppava ancora le lenzuola.Piansi con tutta la forza che potevo, piansi ripensando a quante le volte l’avevo abbracciata su quel letto, quando eravamo soli in casa.Nessuno ebbe pietà del mio dolore.Dove sei sparita, amore mio? Dove te ne sei andata? - chiesi col viso affondato nel cuscino.

 

Restai a Borgarino per mesi, durante l’autunno e l’inverno seguente, stabilendomi in quello che era stato il loro appartamento.Divenni un randagio, un fantasma in un paese di fantasmi. Mi cibavo con quello che le scorte del supermercato del paese offrivano, ero riuscito a studiare un metodo per entrare dall’ingresso posteriore.Ogni tanto arrivava l’esercito e uomini in tuta posizionavano strani macchinari, credo fossero dei sensori, che evitavo accuratamente di incrociare.Alla fine, vinto dal freddo e dal buio, dissi addio a Laura e me ne andai.Recuperai la Dyane Cicoria e la nascosi in un piccolo garage. Su quella macchina viaggiavano troppi ricordi. Mesi dopo, quando, ripulito nel fisico, ma non nell’animo, mi trovai a percorrere quel tratto di mare, su di una barca che mi portava distante, intravidi il paesino da lontano. Mi feci imprestare un binocolo da uno dei marinai e lo puntai in quella direzione.Scorsi i palazzi che conoscevo, lassù, anche il suo, quello dalle piastrelle azzurre.Molti passeggeri non capirono vedendomi piangere mentre davo l’addio a quello che avevo amato di più al mondo.Non ti ho mai dimenticata.Potessero passare anche mille maledetti anni, non potrò mai dimenticarti.

 

La vita scorre e anche se vorresti fermarla, alle volte sei condannato a viverla per assaporarne il dolore.Ho trascorso la vita all’estero, arrivo da un matrimonio e un relativo divorzio. Oggi ho 59 anni, sono un pittore conosciuto, ma non abbastanza famoso da poter vivere di rendita. Sono tornato in Italia cinque anni fa, col ricordo del paese che era, trovandone una completamente differente, ma questa è un’altra storia.So che vi starete chiedendo se abbia ancora pensato a Borgarino, a quello che successe quella mattina del 1974.Ognuno ha i suoi fantasmi e io ne ho molti. Credo di non aver mai smesso di pensarci e quello che capitò mi ha inevitabilmente rovinato la vita. Ho vissuto i miei giorni con un’ansia addosso che non aveva spiegazione, quasi le cose che avevo e che amavo dovessero scomparire da un momento all’altro.Ho continuato a tenermi informato su quel piccolo paese. Negli anni che seguirono l’evento, la vicenda venne quasi completamente messa nel dimenticatoio, forse per i motivi che vi ho spiegato prima, ma negli ultimi anni è riemersa un’autentica attrazione, complice internet, per il paese e per le 182 persone che quel giorno scomparvero nel nulla.Immaginerete già il seguito. Ho trascorso tre lunghi anni, standone distante. Poi non ce l’ho più fatta.La prima volta che sono tornato è stata due anni fa.Da allora, faccio spesso ritorno nel paese maledetto.

 

Trentacinque anni di desolazione, hanno ridotto il luogo in un insieme di ruderi. Molte case sono crollate, altre sono pericolanti. Ovunque ci sono occhi vuoti al posto dei vetri, infiltrazioni, umidità, ratti, serpi… e la vegetazione. La vegetazione ha invaso tutto, le strade, i carruggi, le piazzette.Sembra incredibile, ma nessuno ha mai tentato il recupero del luogo, forse per via di quanto successe, forse per l’alone di mistero che il luogo si porta dietro.Ci sono dei graffiti, ovvio, ma questo posto si rivela inospitale per i vagabondi, che dopo una sola notte di solito preferiscono sloggiare verso qualcosa di meno sinistro. Così come tiene alla larga i plotoni di teenager, che si devono accontentare di qualche scatto delle case più in vista, da pubblicare su Internet con racconti dell’orrore.Dicevo, in due anni ho fatto ritorno diverse volte.Non so cosa stessi cercando, ma arrivai con un paio di amici. Lavorammo il giorno e la notte, per aprire un varco nelle strade principali, senza che nessuno ci disturbasse.La prima cosa che feci, fu tentare di raggiungere il garage dove avevo abbandonato la Dyane Cicoria, immaginandomi che fosse sparita chissà dove.Ma lei mi è rimasta sempre fedele, fino al fondo di questa storia. Quando la vidi, un ammasso di ferraglia arrugginita ma ancora in uno stato non disperato, quasi mi misi a piangere. Dovreste vederla oggi. E’ qui, sotto questo balcone, lucida e fiammante. Ho intrapreso un discreto lavoro di restauro con lei.

 

Durante le mie visite, ho rivisto la mia vecchia casa, ormai impraticabile per le infiltrazioni dal tetto. La tazza è ancora sul lavello, dove la posai quella mattina. Il cuore mi è sobbalzato un po’ vedendola. Devo stare attento.Alla terza visita, lo scorso anno, sono riuscito ad arrivare dove volevo. A casa sua. Tutto è diverso, qualche vagabondo ha sicuramente fugacemente pernottato ai piani inferiori.Ma il quarto piano, benché la visuale verso il mare sia ormai in buona parte ostruita dagli alberi, è rimasto come allora, a parte i muri incrostati e le pianelle che si sono staccate. E l’aria del mare che ha corroso quasi tutto.Il materasso di Laura ha ancora la forma dei mesi nei quali ne feci il mio giaciglio disperato.Quanto tempo è passato in questa storia.Ho trasferito parte del mio materiale da pittura in questo appartamento. Non posso ristrutturalo, ma almeno posso fare in modo che impieghi un po’ di tempo a cadere a pezzi.Mi piace ancora dipingere su quel balcone, anche se ho smesso di sognare i fruscii dietro la schiena.

 

L’ultimo viaggio risale a pochi giorni fa, ed è la ragione per cui scrivo tutto questo, come una sorta di memoria. Sono tornato a visitare la vecchia scuola.L’ingresso è crollato, ma, nonostante l’umidità l’interno non sembrava in pericolo di crolli imminenti.Ho raggiunto la sala professori al primo piano, invasa da polvere e ragnatele.La giacca della preside è ancora là, i fogli sono stati scaraventati un po’ ovunque, probabilmente dall’esercito, che mise Borgarino sottosopra alla ricerca del nulla.Curiosamente mi sono diretto verso l’armadio dove venivano conservati i disegni dei bambini.E’ bastato aprire le ante dell’armadio con vetri polverosi, perché dall’interno ne cascassero svariate cartelline.Avrei voluto rivedere i disegni fatti da quelle manine che cercavo di educare all’arte, invece quel caos non ha fatto che confondere le annate.Un disegno però ha attirato la mia attenzione.Due persone che protendono le loro mani, senza mai raggiungersi. Era il disegno che aveva fatto Agnese la mattina nella quale incontrai sua sorella.E invece no. Ho guardato il retro del foglio e mi è venuto un brivido.Il nome era quello di un’altra bambina, la data era quella del 1956.Come era possibile che… E’ stato un attimo, poi sono subito scattato verso i fogli. Li ho poggiati sul tavolo polveroso e ho cominciato a setacciarli. Uno, un altro, un altro disegno ancora, 1962, 1967, 1970, sempre lo stesso disegno fatto da mani diverse.Era un disegno che era stato fatto non solo dalla sorella di Laura, ma che si ripeteva di generazione in generazione in qualche modo inspiegabile.Le voci del passato si sono messe a rimbombare in quel luogo pieno di mostri.- Non è un disegno felice… le mani non si incontreranno mai… - erano state le parole di AgneseCosa aveva detto Laura? Qual’era la leggenda alla quale tutti accennavano e che io stoltamente non avevo voluto ascoltare?- Borgarino è il paese dove l’amore muore… Dovevo saperne di più.

 

Sono sceso con la Dyane Cicoria fino al paese e mi sono infilato in un internet point. I potenti mezzi tecnologici oggi sostituiscono le biblioteche e le attese. Mi ci è voluto un po’, perché la rete è sovraccarica di informazioni riguardanti la primavera del 1974.Poi ho letto un articolo interessante. Parlava del castello di Borgarino, in rovina dagli inizi del secolo. Lì, narrava la leggenda, un fatto di sangue aveva coinvolto la figlia del proprietario terriero che aveva posseduto le terre, secoli prima, e il suo giovane amante. La storia parlava di una relazione segreta tra lei ed un giovane della zona, avversata dal Nobile, che aveva sorpreso i due amanti dopo una spiata arrivata dal prete del paese. Il furibondo combattimento che ne era seguito si era svolto fin sui bastioni del castello, dove il Nobile, era riuscito a spingere il giovane oltre i merli della torre più alta. Il giovane era però riuscito ad aggrapparsi ad un cornicione ed in suo aiuto era accorsa la sua giovane amante. Il giovane era riuscito a rimanere aggrappato per qualche secondo e la donna, pur protendendo la sua mano, non era riuscita ad afferrare quella di lui, che era precipitato.La donna allora aveva pronuniato parole di maledizione per quella comunità. Le unioni più felici sarebbero state destinate a perdersi nel momento del maggiore innamoramento. Fino a quando le mani della salvezza non si fossero ricongiunte. Poi si gettò nel vuoto.

 

Ho letto queste parole con il cuore che batteva all’impazzata. Ecco quello che mi aveva voluto dire Laura. Una leggenda talmente forte da… da condizionare persino i disegni dei bambini?Le unioni più felici.Io e lei. Io e Laura.

 

Sono tornato al paese, ancora stravolto, e mi sono trovato di fronte ad ospiti inattesi. Li avevo già visti altre volte. Esiste finalmente un comitato per il recupero culturale del borgo, fatto da giovani che si propongono di ripulire le strade di Borgarino e di raccontarne la storia.Quando sono arrivato, due di loro, in mezzo alla strada, si stavano vorticosamente baciando.Non mi hanno sentito arrivare, ed è stato come se fossi scivolato verso di loro.- Statevene alla larga. Questo posto è maledetto!Loro hanno sobbalzato e si sono spaventati. Io sono scivolato via così come sono arrivato.Prima di mettermi a riflettere.- Statevene alla larga. Questo posto è maledetto!Avevo usato le stesse parole della Strega.La strega che solo io avevo visto.E se quella donna non fosse stata una strega, ma una persona caritatevole, che aveva voluto mettermi in guardia?Mi sono ricordato il suo sguardo triste, quando l’avevo vista per l’ultima volta.Le mie ricerche non erano finite.

 

Laura aveva detto che la descrizione assomigliava a quella della vecchia maestra, scomparsa nove anni prima, quindi nel 1965... Non mi è stato difficile ritrovarla.Riposa nel cimitero di Riva, dove è morta, si dice di crepacuore, nel 1975. La sua storia è curiosa ed i giornali locali, sebbene a fatica, ne avevano fatto cenno.Era stata una donna molto colta, che sul finire degli anni ‘60 aveva contratto matrimonio con un ufficiale di Marina. Una mattina del 1965, poco prima delle 8, si presentò trafelata alla polizia locale, dicendo che… che suo Marito era scomparso. Che tutto il paese era scomparso. Nessuno l’aveva presa sul serio, tanto più che le persone di Borgarino erano tutte vive e vegete.Da qual momento nessuno la vide più o mai si seppe qualcosa della sua fine.

 

Mi sono seduto sul balcone di fronte al mare, una volta tornato a Borgarino.Ho estratto la tela e i colori ed ho cominciato a dipingere due figure che tentano di raggiungersi.Lentamente, mentre riflettevo.Nessuno aveva più visto la vecchia maestra.Soltanto io.Il paese era sparito per lei. Lei aveva voluto mettermi in guardia… lei sapeva… Lei non vedeva più le persone del paese e loro non vedevano più lei.Mi sono preso la testa tra le mani. Quanti livelli di lettura esistevano o erano esistiti in quella storia? Quella gente era veramente… scomparsa? Per un attimo ho pensato che il vivere a Borgarino mi avrebbe portato alla fine. Ma avevo una tela da portare a termine, e l’avrei fatto nonostante tutto.Così ho pernottato lì, in quello stesso letto.E’ stata una notte di incubi, fantasmi e scricchiolii. Mi sono svegliato impaurito ed ho atteso l’alba, circondato da mostri.Un raggio di sole mi ha riportato alla vita al mattino.Non lo avevo mai desiderato così tanto.

 

Mi sono messo a dipingere, ma la punta di un pennello si è seccata. Così ho aperto un armadio a muro, dove avevo riposto la mia attrezzatura.E lì è capitato qualcosa.Era in un angolo e sono convinto che non ci fosse, quando l’avevo riposta.Il registratore a bobine “Geloso“, di Laura.Più in là, in pila, tutti i suoi 45 giri.

 

Ho avuto il cuore a mille per dieci minuti interi.Forever and ever, Anima Mia, I don’t Know how to love him, Goodbye my love, goodbye…Il mondo si spalancava. Forse eravamo alla resa dei conti.Un nastro magnetico, dopo 35 anni. Che cosa sarebbe capitato se avessi premuto il tasto play? Lo avrei distrutto… E se mi fossi rivolto a uno specialista? Troppo tempo, io e Borgarino eravamo ostinatamente l’uno contro l’altro in quel momento.Sono sceso in macchina, trafelato a recuperare delle batterie che tengo in caso di necessità. Grazie a Dio sotto questo punto di vista la tecnologia è rimasta la stessa in questi anni.Sono tornato su e ho acceso il tasto play. Preparato al peggio.Il nastro è partito.

 

Ho pianto, pianto, pianto come un bambino.La mia voce e quella di Laura, insieme. Non mi ero sognato tutto, avevo veramente vissuto quella storia d’amore. Io e lei allo spiazzo, io e lei in macchina, io lei che ascoltiamo musica.Ho pianto come credevo non fosse possibile piangere. Laura, la mia Laura, oggi avrebbe 52 anni…Quasi alla fine del nastro però, ho udito un qualcosa al quale non ero stato presente.- Avete visto il Maestro? E’ arrivato? Non riesco a trovarlo… c‘è la sua macchina ma lui non c‘è… - Calmati (voce di uomo, il padre)… salterà fuori… stamattina ha dato buca alla scuola e ad Agnese…- Voglio sapere dov‘è!!! Non lo trovo da nessuna parte…- Calmati Laura, magari… (voce di donna, la madre)- E tu smettila di giocare con quel registratore… (voce di Laura, arrabbiata, verso la sorella si suppone).La registrazione si interrompe.

 

Sono rimasto così, seduto su qual pavimento per ore. Non avevo più lacrime da piangere. Dunque ero io ad essere scomparso. Mentre io piangevo del dolore della mancanza, da qualche parte Laura piangeva per me. Eravamo scomparsi gli uni per gli altri. La Strega lo sapeva, l’aveva capito. Era la maledizione di quel luogo, per quanto ancora adesso faccia fatica a comprenderlo.Dopo un tempo imprecisato, mi sono affacciato sul balcone. La tela attendeva paziente. Ho disegnato e dipinto.Ma quando alla fine ho guardato l’opera, mi sono accorto che le due mani non si erano incontrate.

 

Laura ricorda, chissà come e perché la vecchia canzone. E’ la musica più triste che conosca, ancora adesso che ha girato il mondo per concerti.Suona L’ultima neve di primavera, forse perché ha avuto un flash, forse una premonizione. - Dovremmo venire qua più spesso - dice Agnese, entrando nella stanza, quando la canzone è finita. E quel piano è da accordare…. Poi vede lo sguardo della sorella e tace.- Mamma, mamma, ti ho registrata mentre suonavi! - dice Melissa, la figlia di Laura. Ha otto anni ed è stata un regalo del cielo, data l’età avanzata del parto.Laura vede il vecchio Geloso ed un abbozzo di sorriso si spegne così come è venuto.Ci sono tutte le sue conversazioni su di esse. Ci sono le loro voci.- Fammi sentire, piccola mia…

 

Ho riposto la tela, contro l’umidità della sera, nello stesso armadio dal quale è venuto fuori il Geloso. La sera avanzava ed ancora una volta ho risentito le conversazioni, tra le ombre lunghe dell’alloggio. Ma alla fine del nastro, dove quella mattina c’era solo silenzio, improvvise e perentorie ho sentito delle note di pianoforte...- Se dovessi mai perdermi, pensa a questa canzone quando mi cercherai - mi aveva detto tanti anni prima.E’ L’ultima neve di primavera. Sono scosso da brividi... Quella mattina non c’era… Non c’era….!Poi una voce di donna- Dovremmo venire qua più spesso - Non riconosco la voce, ma mi è familiare- Mamma, mamma, ti ho registrata mentre suonavi… - una voce di bimba.- Fammi sentire, piccola mia…Ho riconosciuto l’ultima voce. E’ la sua. E’ Laura.Sono immerso nel buio e tutti i fantasmi del mondo potrebbero saltarmi addosso da un momento all’altro. Non ho più lacrime davvero. Premo il tasto della registrazione. Sospiro e dico tremante - Mi manchi tanto…

 

Laura non ascolta il nastro. Non vuole risentire quelle voci.Il mattino seguente però ha un ripensamento. Agnese è uscita con la piccola Melissa. Lei è sola in casa. Apre l’armadio e trova un qualcosa che non c’era. E’ una tela, un disegno conosciuto.Il cuore le trema. Riconosce quello stile. Apre la porta e mette la tela sul balcone per vederla meglio. E’ scossa da fremiti, una mano le sfugge sulla tela. Le dita si imbrattano di colore. Il cuore scoppia… è una tela appena dipinta. Come colta da premonizione, corre verso il Geloso, in cerca di qualcosa… Risente quello che ha ascoltato mille volte. Poi la registrazione fatta da Melissa la sera prima, con lei al pianoforte.Poi sobbalza, quasi stramazza. Per poco il registratore non le sfugge dalle mani.La voce dell’uomo che non ha mai dimenticato, le dice - Mi manchi tanto… -Lei scoppia a piangere.

 

Ho risentito il nastro mille volte, a costo di romperlo.Alla fine, quando cominciavo a credere a una coincidenza, ho sentito la sua voce, scossa da singhiozzi. - Ti ho sempre amato tanto. Perché mi hai lasciato…? Perché?Mio Dio aiutami. E’ stato solo un attimo fa, ma aiutami.Registro la mia voce dopo la sua - Io… io non ti ho mai lasciata…Non riesco a dire altro.Attendo qualche secondo, riporto il nastro indietro e sento la sua voce dopo la mia…- Ho i tuoi colori sulle dita…Mi volto di scatto. Il quadro sul balcone. Ha una striatura, come se una mano fosse passata su di un angolo. Ormai non ho più il controllo di me stesso. Riporto il nastro indietro, schiaccio il tasto REC, ma in quel momento il nastro finisce e la bobina si srotola.Laura, Laura, dove sei? Proprio qui in questo momento? Quali universi di dolore ci hanno separati?Ho il tuo colore sulle dita - le sue parole di poco prima. Forse ho sempre avuto tutto davanti.Ricordo il nostro primo bacio e le nostre mani che si avvinghiavano piene dei colori della mia tavolozza.Ricordo la musica che ci univa.Mi alzo e vado sul balcone, mi avvicino al quadro.Faccio l’unica cosa che è sempre stata da fare.Apro la mia mano e la appoggio in prossimità della mano della figura maschile del quadro.L’impronta resta indelebile.Passano attimi eterni, che sembrano non finire mai.Poi vedo comparire un’impronta in corrispondenza della mano sinistra della figura femminile.Le mani delle due figure si sono finalmente incontrate.Cado in ginocchio.

 

Tengo gli occhi chiusi.So che in quel momento i miei colori si sono riempiti di suoni.E sono sicuro che dalle sue note siano nati splendidi colori.Sento un fruscio dietro le spalle. Potrebbe benissimo essere il vento.- Sciocca… - mi sfugge dalle labbra.Vorrei che il tempo si fermasse in questo momento.Vorrei non sapere mai cosà accadrà dopo.Se sentirò una voce di donna dire - Scemo! O se sarà solo vento a cantare.Ancora un fruscio.Sta per capitare, lo sento. Mauro Saglietti