mondo granata

Il piccolo pirata

Il piccolo pirata - immagine 1
di Mauro Saglietti
Redazione Toro News

Cari amici, ci avventuriamo da questa settimana, e per tutto il mese di agosto, nel mondo di "Istantanee estate", racconti e aneddoti granata narrati da amici tifosi.

Oggi cominciamo con "Il piccolo pirata", scritto dal caro amico Alberto Lovisolo. Ovviamente sarà mia cura far pervenire di volta in volta agli autori le mail che eventualmente giungeranno alla mia casella di posta.

Un caro abbraccio granata a tutti voi!

Mauro

 

 

 

IL PICCOLO PIRATA

di Alberto Lovisolo

 

Le prime parole di cui ho memoria furono pronunciate in triestino. Avevo poco meno di un anno, era l’estate del 1963 e mi trovavo a Nizza Monferrato.E’ un flash back audio-visivo nitido, dai contorni definiti: l’attimo preciso in cui decisi di alzarmi sulle due gambe e camminare, un frammento di vita della durata di qualche secondo.

 

Mia nonna, triestina (o giuliana, come i triestini amano orgogliosamente definirsi), mi tiene d’occhio dal terrazzino al primo piano che dà sul cortile di casa.Il nonno, in cortile con me, intento a leggere il giornale e la sigaretta accesa a un lato della bocca. Io per terra, a rimestare ghiaia e sabbia con la paletta e il secchiello.Poi succede che mi alzo e muovo i primi passi. Non dovevo avere un incedere particolarmente rassicurante, perché dall’alto sento la voce allarmata della nonna…- Vigio! Vigio! El putel! Varda el putel che camina! Se pol far mal!Il nonno, di rimando, con tono palesemente seccato per l’inattesa distrazione…- Per piasì…Laslu stè! As fa nen mal…Fine del film. Non parlavo ancora, ma capivo già due dialetti: il triestino e il nicese.

 

Il secondo ricordo dettagliato, in ordine di tempo, vede per protagonisti ben due triestini. Ancora Trieste, ancora il suono di quel dialetto veloce e graffiante.Era la primavera del 1967: sono sul pullman guidato da papà. Mi porta al lavoro con lui, stiamo andando a Vicenza.

 

Papà e mamma lasciano le colline del Monferrato e arrivano a Torino alla fine degli anni ’50. Sono anni difficili, la città deve fare i conti col boom industriale e demografico e fa fatica a metabolizzare il cambiamento. Anni in cui, tuttavia, si respira fiducia e si guarda al futuro con ottimismo. Papà trova lavoro come autista di pullman granturismo: ci sono i soldi per prendere in affitto un piccolo ma decoroso appartamento in Corso Casale, proprio a fianco del Motovelodromo e di fronte al Po.Sono anni in cui ci si sente signori con la lavatrice e la cucina americana, del televisore si può far a meno. Una volta al mese si va al cinematografo. La Fiat 500 è ancora un sogno, per gli spostamenti si usa la bici e il tramvai.

 

L’estate del 1962 è torrida. Edoardo Vianello impazza con “Pinne fucile ed occhiali”. Mia madre è alla fine della gravidanza ed è sempre sola. Per sfuggire alla canicola, quasi ogni giorno prende il tram per Sassi e sale a Superga con la dentiera.Mio padre è via per lunghi periodi: gira tutta l’Europa col pullman per accompagnare i gruppi di turisti. Turni massacranti. Mi racconta di avventurose Torino-Madrid-Torino fatte in 24 ore. Lasciava i turisti a destinazione, ritornava a Torino in solitudine e nel cuore della notte, prima di concedersi qualche ora di sonno, si occupava della pulizia e manutenzione del pullman. Al mattino, accompagnava un altro gruppo a Parigi o Amsterdam. Così per anni.Alla fine di luglio, quando sto per nascere, mio padre chiede un permesso di tre giorni per stare accanto a sua moglie. Erano altri tempi, chi lavorava aveva poche tutele, i padroni erano padroni in senso letterale e il permesso non viene concesso. E’ lui il migliore autista, il più affidabile ed esperto della compagnia: vogliono farlo partire per Lisbona.Questa volta papà non ce la fa ad ingoiare il rospo e fa qualcosa di cui andrò per sempre fiero: lui, l’uomo più taciturno e timido che abbia mai conosciuto, ne stacca quattro agli aguzzini e si licenzia. Insomma, un figlio è un figlio!Quel viaggio a Lisbona, questa volta, non si farà.I miei genitori tirano cinghia per quasi un anno. Papà riesce a trovare solo qualche lavoro saltuario, ma nell’estate del 1963, viene assunto, sempre come autista di pullman, da un’altra compagnia. Papà è chiaro e risoluto: niente viaggi all’estero o lunghe trasferte. C’è un figlio da crescere e una moglie a cui dare sostegno.Viene accontentato: porterà in giro per l’Italia i giocatori del Torino nelle trasferte di campionato.Era l’estate del 1963: mio padre è l’autista del Toro e io incomincio a camminare!

 

La sera del primo aprile 1967 papà, tornato a casa dal lavoro, mi prende sulle sue ginocchia.- Domani ti porto con me a lavorare!Mia madre non è per nulla contenta della trovata.- Giovanni, ma sei matto! Stai scherzando… tu devi guidare! Non vai a Vicenza domani? Come fai a guardare il bambino? E poi si stanca tutte quelle ore. Lo sai che inverno mi ha passato! Sempre malato e poi deve fare gli esercizi con l’occlusore che gli ha dato il dottor Dossi. Lo sai che se non li fa rischia di vedere sempre meno da quell’occhio!- Non preoccuparti, non sono mica solo! Domani viene con me! Sto bambino ha bisogno di mettere il naso fuori di casa. Mettiamo la benda all’occhio o come diavolo si chiama e facciamo gli esercizi sul pullman.Mi sorride e mi sussurra nell’orecchio…- Ti faccio conoscere un bel po’ di amici domani…

 

La mattina del due aprile ci alziamo prestissimo. Vicenza è lontana. Mio padre esce di casa con me in braccio, sono ancora mezzo addormentato. Da un occhio semiaperto mi sembra di vedere ancora lo sguardo di disapprovazione di mia madre che ci accompagna fino all’uscio.L’autorimessa non è distante, dieci minuti di bicicletta. Io siedo sul seggiolino dietro. Mi aggrappo a papà e appoggio la testa sulla sua schiena, come per prolungare il sonno interrotto, ma soprattutto per abbracciarlo. L’aria mi viene incontro frizzante e mi sveglia definitivamente.Arriviamo. Il pullman è pronto: enorme e luccicante di un azzurro color del cielo. Guardo con orgoglio mio padre: è lui che guida quel bestione! Saliamo, si parte. Ho un pullman a disposizione, tutto per me. Sono euforico! Salto da un sedile vuoto all’altro, incredulo.- E adesso dove andiamo?- Al Fila…- E cos’è?- E’ la casa del Toro! E’ lì che ci aspettano.

 

Dopo pochi minuti di città deserta, svoltiamo in Via Filadelfia. Il grande cancello del Fila è spalancato. Il pullman rallenta e si ferma un paio di volte: una cinquantina di persone vocianti ne impedisce per qualche istante il passaggio.- Vedi? Questi sono i tifosi del Toro – spiega mio padre, girando velocemente il volante a destra e subito dopo a sinistra per non farne fuori qualcuno.- Sempre così... potremmo anche partire di notte, ma stai certo che li trovi!Ci fermiamo nello spiazzo, dietro la tribuna.- Eccoli là! – esclama con eccitazione malcelata, puntando il dito verso un gruppetto di uomini.- Chi?- I calciatori del Toro!Anche loro sembrano averlo sentito, perché all’unisono si girano verso di noi, raccolgono dei borsoni da terra e con fare lento e dinoccolato ci vengono incontro.La porta anteriore del pullman si apre con uno sbuffo prolungato. Io siedo nella prima fila di poltroncine, alla destra del posto guida.- Alberto, spostati da lì… quelli sono i posti di Rocco e Ferrini. Mettiti qui, dietro di me. Oggi il posto di Bolchi dovrebbe essere libero. Prima ancora di vedere salire qualcuno, sento una voce che tuona levarsi dal brusio del gruppetto. L’inflessione dialettale non ha segreti per me. E’ la lingua di mia nonna…

 

- Demo muli! Forza! Xe ora!- Natale!!! Sveglia! Dove te gà la testa! Ciapa il borson!- Lido!!! Te son mona?!?... Te le fazo magnar quele sigarete!!Ad uno ad uno entrano tutti e salutano mio padre. Qualcuno scambia con lui due battute. Mi passano davanti e si vanno a sedere nei posti abituali: chi mi sorride, chi mi scompiglia i capelli, uno con la faccia da indio si presenta.- Ciao, mi chiamo Nestor e tu chi sei? - Mio papà è il capo del pullman – gli rispondo, tanto per mettere in chiaro il mio ruolo.Per ultimo entra un uomo dalla stazza robusta con cappotto e borsalino in testa. Uno vecchio agli occhi di un bambino. Stringe vigorosamente la mano a mio padre e, dopo qualche istante di conciliabolo, si gira verso di me e lo congeda con tono rassicurante: - Giovanni, non xe problema! Non dà nissun fastidio…Poi mi si avvicina e succede quello che temevo…- Ciò, bel muleto! Cos te gà all’ocio?Da quando mi avevano messo quel pezzo di gomma beige con ventosa alla lente degli occhiali, ero ossessionato da quella domanda. Prima o poi arrivava. Faccio come sempre: abbasso la testa e non rispondo. L’uomo afferra subito lo stato di disagio in cui mi ha cacciato e cerca di porre rimedio.- Ahh… go capio! Adesso go capio!Ti te son un pirata! Un piccolo pirata… Pronuncia quelle parole lentamente, con l’espressione di chi ha finalmente risolto un mistero complicato.- Te ga perso l’ocio in battaglia! – aggiunge annuendo col tono di chi si compiace della propria lungimiranza.- Ciò! Varda che qua semo tuti pirati! – mi sussurra abbassandosi verso di me e accompagnando la frase con un ampio gesto circolare del braccio per includere tutti i presenti.- Anche papà? – dico io.- Te vol scherzar?! To pare xe il pirata timonier! Senza di lui non trovemo la rotta e semo panadi!- Ma ora vien con mi che te presento il pirata più pirata della banda… il capitan!Giorgio! – rivolgendosi all’indirizzo di Ferrini - il picio sta con ti…Xe un pirata! Còntighe delle tue battaglie…

 

Quel giorno, Nereo Rocco mi suggerì una via di fuga, affrancandomi dall’imbarazzo.Ero un pirata! Ma certo! Che mi chiedessero pure cosa avevo all’occhio!Metto su la faccia più piratesca che si possa immaginare e mi siedo a fianco del Capitano dei Pirati.Il pullman parte.

 

Ferrini mi accoglie con un sorriso bonario.- Ti piace giocare a pallone?- Sì – gli rispondo.- Quanti anni hai?Con la mano gli mostro quattro dita. Papà, che dallo specchietto di servizio non si perde la scena, interviene.- Ne fa cinque a luglio…- E dimmi… chi è il tuo calciatore preferito?- Gigio Meroni – rispondo senza esitare.Ferrini scoppia in una risata. Senza volerlo, avevo accorpato in un’unica entità l’idolo di mio padre e il mio: Gigi Meroni e Topo Gigio! Si gira verso la parte posteriore del pullman e con tono divertito proclama al gruppo:- Ehi, muli! Ascoltè! Da oggi gavemo un nuovo compagno! Se ciama Gigio Meroni!In un attimo, tutta la comitiva incomincia a scandire – GI-GIO! GI-GIO! GI-GIO!Meroni, dal fondo del pullman, ride anche lui e con un gesto esplicito del braccio manda i suoi compagni a quel paese…Io non capisco perché ridono tutti, ma rido anch’io e mi sento importante per aver causato la gioiosa reazione del gruppo.Il viaggio prosegue. Il Capitano diventa taciturno e volge lo sguardo verso il finestrino. Io, complici le poche ore di riposo e l’emozione, spalanco ripetutamente le fauci nella più inequivocabile delle dichiarazioni di sonno. Fu così che Ferrini passò il suo braccio sinistro sopra la mia testa e mi accomodò sul suo petto.- Dormi Pirata… dormi – e così feci.

 

Questa è una storia di uomini semplici e di un bambino che trova nella fantasia la chiave per superare le prime difficoltà della vita. I fatti sono ispirati alla realtà, all’immaginazione, all’amore per il Toro, ma soprattutto all’amore per mio padre che, in quel giorno di lavoro, trovò il modo per battezzarmi granata per sempre.

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