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mondo granata
di Andrea Ciprandi
In queste giornate di meditazione sullo stato in cui versa il calcio italiano, dopo l’eliminazione degli azzurri dai Mondiali, mi è tornata in mente una mia vecchia idea. Un sogno, direi, dato che è assai improbabile che le cose cambino, con l’ombra delle normative europee, della sentenza Bosman, dei diritti dei lavoratori e soprattutto dei profitti che copre tutto ma proprio tutto quel che ha a che fare col pallone.
Io credo nell’identità sportiva. Per me è esattamente l’opposto del razzismo, nel senso che mentre auspico che le Selezioni dell’Italia siano fatte e rappresentate da italiani contemporaneamente desidero vedere un’Inghilterra inglese (c.t. compreso), una Germania tedesca e così via. Mentre i cittadini stranieri che vogliono venire qui a lavorare in un ufficio o quelli italiani che vogliono aprire una pizzeria in Islanda per me possono farlo senza troppe limitazioni. Auspico quindi l’identità sportiva delle diverse Nazionali perché si misurino in base a quel che hanno prodotto, a ciò in cui credono, perché trionfi la scuola più efficace o si individui quella più meritevole anche se ha perso. Adattando questo ragionamento al calcio nazionale, io da anni vorrei che la Coppa Italia sparisse, che i campionati fossero più brevi, tornando ad avere non più di sedici squadre, e che parte della stagione fosse riorganizzata in tornei regionali. Qualcosa per cui Torino e Juventus giocassero anche con Alessandria e Vercelli, Milan, Inter e Atalanta con Varese, Lecco e Pro Patria, Roma e Lazio con Viterbo e Latina, il Napoli con la Puteolana e il Bari con la Fidelis Andria e il Manfredonia. Questo, senza rinunciare ai Campionati maggiori, ridarebbe senso alla parola ‘sport’ e soprattutto sarebbe un importante riconoscimento alle Società cosiddette minori, permettendo oltretutto a tanti giovani di brillare, farsi le ossa ed esaltarsi sui maggiori palcoscenici. Non ultimo, toglierebbe molta tensione.
Ebbene, tutto ciò è possibile e succede già da tantissimi anni altrove. A parte l’Inghilterra, ove fino all’introduzione della ricca, remunerativa e quindi ambita Premier League (contemporanea a quella della Champions in Europa) la F.A.Cup cui arrivano a partecipare centinaia di squadre valeva più del campionato, in Brasile si giocano da sempre Campionati Statali accanto a quello Nazionale (ultima formula, risalente agli anni Settanta, di tornei che si disputavano già prima). E, manco a dirlo, vincere un Campionato Statale è tutt’ora importante almeno quanto aggiudicarsi il Brasileirao, corrispondente alla nostra Serie A. La cosa più bella, oltretutto, è che una squadra che milita in A nello Statale può disputare la B del Nazionale, o anche la C, scendere di categoria ma anche venire promossa, con la conseguenza che i suoi tifosi, i suoi giocatori e i suoi dirigenti possono trovare svariati motivi di interesse e vivere ogni anno stagioni differenti (in senso anche metaforico). E che durante i tornei locali le squadre maggiori possono lanciare le loro giovani promesse, da far maturare in occasione di sfide a rappresentanti di un calcio diverso ma parimenti reale. Tipo Flamengo-Friburguense al Maracanà (vedi foto) o, al contrario, una grande che gioca sul campo di una squadra minore, coi tifosi di quest’ultima che impazziscono a veder giocare certi campioni e soprattutto all’idea magari di batterli!
Il più longevo Campionato Statale è quello di San Paolo, risalente al 1902, cui seguirono quelli di Bahia e Rio de Janeiro rispettivamente nel 1905 e 1906. Ultimo quello di Roraima, divenuto professionistico solo nel 1995. Nel corso dei primi quattro mesi del 2010 si sono laureati campioni fra gli altri il Santos delle giovani stelle Neymar, André e Wesley (oltre a Robinho) a San Paolo, a Rio ha vinto il Botafogo interrompendo una lunga serie del Flamengo che però il Nazionale l’ha riconquistato solo sette mesi fa dopo quasi trent’anni, nel Minas Gerais l’Atletico Mineiro, nel Rio Grande do Sul il Gremio, nel Pernambuco il Nautico e a Bahia il Vitoria, squadra quest’ultima in grado di riempire regolarmente il suo stadio da più di 45.000 posti anche quando giocava nella Serie B nazionale. Giova ricordare come il Vasco da Gama sia risalito in Serie A solo quest’anno e il Corinthians quello precedente, entrambe dopo una sola stagione fra i cadetti, ma che i bianconeri per cui oggi giocano sia Ronaldo che Roberto Carlos durante quell’anno di purgatorio fossero riusciti a insignirsi del titolo statale, motivo di grande rivalsa sui cugini di Santos e Palmeiras che in quel periodo potevano vantarsi della militanza nella massima serie e del San Paolo che l’aveva vinta ma che al Corinthians in qualche modo avevano dovuto ugulmente cedere.
Per come la penso io, esiste ancora spazio per lo sport. Anche attraverso formule indubbiamente regolamentate come i Campionati Statali brasiliani, che nell’andamento non differiscono da quello Nazionale ma riescono a preservare un’idea e una cultura che altrove manca. Non credo nemmeno che in Brasile abbiano il sentore che, continuando a giocare questi tornei locali, stiano letteralmente mantenendo in vita il calcio. Fatto sta che così è, dato che i giovani già maturi di quel Paese li vogliono tutti, preferendoli ai pari età di casa propria. Lo so, in Italia ci sono fior di eccezioni al diffuso disinteresse nei confronti del calcio giovanile (frustrato nel suo tentativo di dare), però in generale la situazione è davvero tragica. E lasciando da parte per un attimo il discorso dei ragazzi, resta il fatto che diluire il calcio facendo vivere la base anche a chi da anni sta in alto sarebbe se non altro appasionante. E in Brasile, beati loro, questa passione la vivono da sempre.
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