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Primo tempo: agosto 1985«Sto io in difesa!» disse Francesco agli altri.«Ok! Allora io e Nicola andiamo in attacco, Celestino e Remigio Guiot a coprire il centrocampo… tutto chiaro?»Gli altri ciondolarono la testa con sguardi inespressivi.«Ehi! Ragazzi! Tutto chiaro?» incalzò Carlo con energia. “Banda di sciamannati…” pensò subito dopo.«Certo… certo, abbiamo capito!» sbottarono tutti in coro «mica siamo scemi, no?»Certo, nessuno di loro lo era.E nemmeno lo sarebbe mai stato in quell’agosto del 1985, tra le montagne della Val Chisone. Quella partita avrebbe chiuso l’estate. E dopo l’estate molte altre cose.Posarono il pallone nel cerchio di centrocampo e subito alcune ragazze applaudirono dietro la recinzione del campo e poi si misero a urlare i loro nomi, uno alla volta, mandandoli in visibilio e in imbarazzo allo stesso tempo. Come al solito tra di loro il nome più acclamato era quello di Nicola… Il più corteggiato di loro tre: lui, Carlo e Francesco. Amici da anni.Il torneo di calcio tra le diverse frazioni della vallata era un appuntamento che si ripeteva da molti anni, un po’ come il falò nella colonia dell’oratorio a fine agosto oppure la fiera del paese. Durava tutto il mese di agosto ma quell’anno il tempo fu così inclemente che si decise di giocare solo una volta: una sola, unica partita alla chiusura del mese.E ovviamente come tutte le cose che si devono risolvere in un’unica soluzione non fu facile organizzarla; tutti avevano interesse a partecipare, a farsi vedere. Nessuno voleva restare fuori e non avere l’occasione almeno una volta nella vita di mettersi in evidenza sotto gli occhi di così tante ragazze che arrivavano da tutti i paesi della vallata.Alla fine si decise: partita e squadre. Rispetto a tutte le edizioni precedenti, entrambe dovevano avere connotazioni completamente diverse. Si stabilì che l’incontro sarebbe stato: Turisti contro Valligiani.Non certo un’idea originale… Comunque come a dire: chi arrivava da lontano e non aveva problemi economici o almeno non lo dava a vedere, contro gli abitanti del posto, cioè gli “umili” montanari, i figli di montanari e i parenti dei montanari. E inoltre, si decise che potevano essere inseriti nella squadra dei Valligiani anche tutti coloro che erano di religione valdese, perché essere valdese, anche se si era dei forestieri, significava comunque appartenere al cuore e alla pancia di quella valle.Francesco, Nicola e Carlo erano diventati amici proprio lì dopo anni trascorsi alternando sciate d’inverno e gite d’estate, feste, ragazze inseguite e desiderate e partite del Toro sofferte davanti una vecchia radio a transistor che si spegneva sempre sul più bello. Imparentati con tre famiglie della valle, la loro appartenenza alla squadra dei Valligiani non era da mettere in discussione. Così come non era da mettere in discussione il colore della maglia che avrebbero indossato: ovviamente granata, quella ufficiale di quell’anno con il torello su sfondo bianco. In ogni caso avevano solo quella e soldi per comprarne un’altra, neanche a parlarne.Erano le quattro del pomeriggio di una domenica splendente. Avevano appena posato il pallone nel cerchio di centrocampo ed erano tutti lì in piedi. Undici contro undici: schierati, dritti, immobili e in fila come gli omini plastificati di un calcio balilla.Aria e cielo erano tanto tersi che si potevano distinguere i singoli aghi dei pini.I ragazzi della squadra valligiana si guardarono l’un l’altro.Francesco “Cesco”, capelli lunghi, sguardo torvo e occhiaie da primato per le sue notti insonni, era il ribelle della compagnia. E tra loro era anche il primo ad avere già compiuto diciotto anni ed essersi quindi conquistato il diritto alla patente. Così venne democraticamente deciso che doveva essere lui a portarsi in giro tutti quanti sulla sua A112 blu notte. L’unico problema era sopportare di farsi assordare da un’autoradio da cui si sprigionavano le lancinanti schitarrate heavy metal di Jimmy Page, Kirk Hammet, Ritchie Blackmore e Angus Young.Nicola era la perfetta antitesi di Cesco: capelli corti su un viso d’angelo da cui si sprigionava il bagliore intenso degli occhi azzurri. Le ragazze lo adoravano e, beato lui, a differenza di Cesco e Carlo, era cercato perfino sotto casa.Carlo era il più tranquillo. Lui si era sempre considerato la via di mezzo tra gli altri due: dentro si sentiva come Francesco senza riuscire ad esternarlo e fuori aveva l’aria seria del bravo ragazzo studioso, come in effetti era, ma non come in realtà pensavano tutti gli altri. In fondo era maledettamente sopravvalutato…
«Carlo… Cesco… voi che siete ancora studenti ma… ‘sti Maltesi, chi sono?» chiese Nicola che, appena letta la composizione della squadra con la nota sulla partecipazione dei Valdesi, aveva arricciato il naso e scrutato gli altri con stupore.«Ah Nicò, guarda che pure te sei studente!» gli rispose Cesco fingendo un accento romanesco e sfregandogli la testa col pugno. Dalle cuffie del walkman si levarono le note di un assolo di Eddie Van Halen. L’altro scansò la mano stizzito e quando Carlo si mise a ridere fece l’offeso:«Ecco, neanche voi che fate tanto i saputi sapete niente di sti… di sti… Maltesi» brontolò mangiandosi le parole. «Saranno sicuramente calciatori stranieri!» esclamò con stupore infantile.«Calciatori stranieri?» ripeté strabuzzando gli occhi Francesco, «guarda che la partita che giochiamo noi non è mica una partita di campionato professionisti!»Carlo lo prese per un braccio e lo tirò vicino a sé con fare paterno:«Non sono Maltesi. E non c’entrano niente gli stranieri» gli spiegò in tono pacato e tranquillo. «Sono Valdesi e non Maltesi, Nicò» sottolineò agitandogli la mano sotto il naso. «I valdesi sono una chiesa. E come eretici, tanti secoli fa, furono costretti a scappare e si nascosero qui, tra queste valli, per evitare di essere sterminati. Pensa: il loro errore era quello di essere fedeli a se stessi e ai loro principi. Così, qui da allora c’è ancora tutta la loro comunità. Questa è la storia… dei Valdesi» chiuse Carlo sollevando orgoglioso gli occhi in quelli dell’amico. Se fosse stato tutto vero o meno quello che aveva detto non ne era certo. Ciò di cui era sicuro era di aver impressionato chi lo stava ascoltando.Nicola rimase un attimo a bocca aperta: «Un gruppo di gente con un suo ideale contro il mondo… quindi. Forte!» sbottò entusiasta. I suoi occhi si accesero d’azzurro e una ragazza, lì accanto, che aveva sentito il discorso si avvicinò e gli diede un bacio. Ovviamente solo a lui. A loro, Carlo e Cesco, regalò un rapido sorriso di circostanza e poi si allontanò.«Sì, Nicola. Un gruppo di persone contro tutto il mondo…» ripeté Carlo soprapensiero. «Mi ricorda… mi ricorda…» tergiversò poi senza chiudere la frase.«Secondo me ti ricorda il Torino…» saltò su Cesco conquistandosi il sorriso soddisfatto di Nicola che con gli occhi stava seguendo la ragazza di poco prima.Carlo annuì.«Ehi, anche quest’anno è stato confermato Beruatto?» domandò Cesco subito dopo cambiando discorso. La sua espressione era carica di apprensione.«Sì, Cesco» rispose Carlo «è stato confermato anche quest’anno, stai tranquillo. Il tuo eroe c’è ancora!» «Anzi, c’è anche Pileggi!» risero tutti insieme e poi piano piano uno dopo l’altro fecero silenzio.Un silenzio loro. Era lo stesso silenzio che si creava dopo l’esultare di un gol inaspettato. Il medesimo di quando erano seduti al tavolo dell’unica birreria del paese dopo aver parlato di tutto quello che potevano dirsi, dalla filosofia, alle ragazze, dal calcio, alla scuola, dalle storie assurde, agli scherzi e rimanevano poi concentrati nei loro pensieri, magari fumandosi una sigaretta e passandosela uno con l’altro. Era un silenzio denso e leggero quello che si creava tra loro, un momento magico in cui ogni cosa, ogni parola che si erano detti trovava la giusta collocazione tra le loro speranze e la loro amicizia.
«Allora, sto io in difesa!» disse Francesco. La partita stava per cominciare.«Ok! Ok! Va bene!» fecero tutti gli altri guardandosi prontamente attorno.La squadra avversaria era troppo forte. Gran parte di quelli che ci giocavano, li conoscevano già dagli anni passati e avevano sempre vinto. Non erano più vecchi di loro, erano circa coetanei, diciassette, diciotto anni ma arrivavano da realtà diverse e alcuni di loro giocavano già in squadre affermate, altri avevano semplicemente imparato correndo dietro a quelli bravi. E poi con i soldi si poteva sempre tutto.Per loro lì nella vallata invece non c’era molto. Per alcuni non c’era nemmeno la televisione o se c’era era ancora di quelle a valvole in bianco e nero che senza baffo non catturava mai nessun segnale.E poi nella loro squadra c’era gente strana, ma gente vera. C’era Cannello (ormai tutti lo chiamavano così, anche i suoi genitori, tant’è che perfino lui non si ricordava più quale fosse il suo vero nome): viveva in una casa che si era ricavato da una roulotte e campava stagnando vecchie pentole che i vecchi montanari gli portavano ogni giorno. L’avevano piazzato in porta: era alto un metro e sessanta ma quando saltava pareva un olimpionico dell’asta.C’era Carlin, il panettiere. In scala era più largo delle pagnotte che metteva a infornare. Si decise che poteva essere un attaccante poderoso ma quando gli dissero che doveva giocare come centravanti, lui se ne saltò su con un: «Del cricket non so niente… ma la palla la posso lanciare con le mani?» Al che si optò per Carlin in porta e Cannello in attacco.E poi c’erano De Louvière, il francese-occitano-franco-provenzale-piemontese-valdese… come lui stesso si definiva (aveva le idee piuttosto confuse ma era fermamente convinto di ciò che diceva); Nestore Front, il figlio del sindaco, che come tale doveva giocare anche se aveva cinquant’anni e non aveva mai corso un metro in tutta la sua vita. Ma come si diceva: era “una pasta d’uomo”.E poi c’erano… Celestino il formaggiaio, Remigio Guiot il maestro elementare…Francesco aveva appena finito di dire “Sto io in difesa!” che gli avversari batterono il calcio d’inizio.Due passaggi veloci in verticale, tiro e rete. Carlin il portiere da una parte, pallone dall’altra e in difesa non c’era nessuno. Francesco aveva pensato bene di spingersi subito in attacco “per disorientare l’altra squadra…” disse subito dopo.«E sì: li hai proprio disorientati Cesco!» saltarono su Nicola coi suoi occhi azzurri sfavillanti e Carlo, per una volta meno flemmatico del solito. «Bravo! Bravo davvero! Bella idea hai avuto!»«Oh, sentite…» sbottò risentito «qualcosa bisognerà pur fare per sorprenderli, no?»Gli altri lo guardarono sbigottiti e non dissero nulla.«Bisogna sorprenderli, se no ci fanno a pezzi!» rimarcò ancora mentre i lunghi capelli neri spazzolavano l’aria come la criniera di un purosangue. Si tirò su i calzettoni che gli erano scesi alla caviglia e si portò sorridente davanti a Carlin il portiere. Di fianco a lui c’era De Louvière che nel frattempo gli aveva spiegato che cosa era successo e che adesso stavano perdendo.Erano stati i fratelli Caorle a segnare il primo gol per gli avversari. Erano talmente biondi e con la pelle chiara che parevano usciti da una selezione della gioventù hitleriana.Uno dei due, posato il pallone a centrocampo per riprendere il gioco, nel rialzarsi fece loro il gesto dell’ombrello. Il gesto fu così netto e secco che lo schiocco riecheggiò contro la montagna e rimbalzò giù nella valle. Suo fratello si mise a ridere e in un attimo tutta la squadra avversaria dei Turisti scoppiò in una risata beffarda verso di loro.«E questo è il primo… banda di incapaci!» incalzarono in mezzo al frastuono delle sghignazzate.Cesco, Carlo e Nicola si scrutarono alle spalle per vedere lo stato d’animo dei loro compagni. Pareva l’armata Brancaleone, ma i volti erano sorridenti, freschi e così maledettamente ingenui che si sentirono rinfrancati. Ciascuno aveva una maglia dal colore diverso: gialla, arancione, a righine nere e verdi. Erano talmente variopinti da assomigliare agli abitanti di quegli sperduti villaggi africani della Somalia. E tra tutti le uniche magliette granata erano le loro. Ma questo all’interno della loro squadra non voleva dire granché. La squadra era una al di là di tutto.Appena ripreso il gioco i Turisti si riportarono di nuovo all’attacco. I fratelli Caorle, i “nazisti”, recuperavano palloni a raffica e giostravano la palla a centrocampo con tale maestria che ogni volta riuscivano a lanciare palloni precisissimi e pericolosi per le punte.Carlin in porta e gli altri davanti a lui, da Cesco e De Louvière, facevano quello che potevano. Coprivano la distanza tra i due pali lanciandosi con il corpo contro le violente pallate degli avversari. Una volta, due volte, dieci volte. Era come vedere un pugile sotto una cascata di cazzotti rimbalzare continuamente contro le corde ma rimanere sempre in piedi. Barcollanti ma in piedi. Cesco, Carlo e Nicola lo sapevano già in partenza che quella sarebbe stata una partita senza storia. Ma era proprio partecipare a una partita senza storia che li esaltava. Combattere una guerra quando hai l’esercito più forte non ha niente di onorevole. È vincere una battaglia quando sei più debole che ha un senso: è mettere alla prova chi sei davvero, è mostrare a tutti di quale materia sono fatti il tuo orgoglio e il tuo spirito di sacrificio. Vuol dire sapere a chi dedicare il tuo ultimo respiro.Nicola, bello sì ma feroce quando si trattava di giocare, andò in scivolata e recuperò un pallone, lo lanciò in avanti per Carlo che con un dribbling stretto dal piede destro al piede sinistro, fece cascare natiche a terra uno dei due fratelli Caorle. Non sentì partire neanche il suo insulto ma in compenso riuscì a scaraventare una pallata imprendibile verso la porta. Imprendibile per tutti meno che per il palo di destra.Per forza… vuoi metterci anche la scarogna? La partita era cominciata da mezz’ora. Avevano incassato un gol, ne avevano evitato circa una dozzina e nell’unica azione che avevano fatto erano riusciti a colpire un palo. Ma non importava. Il loro obiettivo ovviamente non era vincere. Forse nemmeno pareggiare. L’importante era riuscire a dimostrare che almeno una rete erano in grado di farla e che potevano uscire dalla partita a testa più che alta.Sempre a testa alta come quelli del Toro.E poi per Carlo c’era qualcosa di più quel pomeriggio. Qualcosa che non gli era mai capitato prima a differenza di Nicola. Una ragazza dai capelli biondi a caschetto e magliettina rosa stretta in vita lo stava incitando a gran voce. Non faceva i nomi degli altri; urlava solo il suo. E ogni qualvolta riusciva a prendere una palla o rilanciarla in avanti verso un compagno libero, si alzava in piedi urlando, saltando e battendo le mani verso di lui. Lo faceva con grazia e lui trovava splendido per una volta provare la sensazione di sentirsi considerato, sapere che da qualche parte, in virtù di qualche strana magia, era comparsa dal nulla una persona che lo aveva elevato al di sopra degli altri. Lui era Carlo e non più uno che avrebbe anche potuto non esserci che tanto era uguale.Ma tant’è.I Turisti subito all’inizio del secondo tempo, e senza eccessivo impegno, riuscirono a raddoppiare e poi a triplicare. Prima con un colpo di tacco in mezzo all’area e poi in mezza rovesciata da fuori. Non c’era davvero storia. Eppure…Carlin decise di farsi dare il cambio in porta da Remigio Guiot, il maestro elementare. Non ne poteva più di sentirsi in colpa per le reti che aveva subito. Così Carlin il panettiere, talmente sollevato da apparire ancora più rotondo di quanto non fosse già, si piazzò in mezzo alla difesa troneggiando simile a un piccolo lottatore di sumo. Dietro di lui, Remigio, cominciò subito ad impartire comandi come a scuola e Francesco appena poté si voltò e lo mandò amichevolmente al diavolo con un gesto della mano.De Louvière, spostatosi a centrocampo, si fiondava in scivolata su tutti quelli che gli passavano vicino; Celestino Guiot, il formaggiaio, fratello di Remigio il valente maestro, tentava di difendere palla con tutti i pochi mezzi che aveva ma quando ci riusciva non perdeva tempo a passare subito il gioco a Carlo e portarsi a difendere su qualche avversario. Nessuno si stava risparmiando: le tracce di fango e terra ed erba sulle divise ne erano l’emblema più evidente. Al contrario, quelle degli avversari erano così linde e pulite da profumare ancora di bucato. Ed erano proprio l’odore di sapone, il profumo di fresco ammorbidente a creare un contrasto stonato con l’odore pungente della resina dei pini e quello dei fiori, con quello della terra polverosa e l’odore acre del sudore misto all’olezzo del gasolio delle auto che transitavano lungo la strada, lì di fianco.C’era qualcosa d’inadeguato nei loro avversari, ma non importava, la partita ormai stava per terminare.Oltre alla sconfitta, i Valligiani, non erano riusciti neanche a fare l’unica cosa alla quale potevano sperare: una rete. Una sola, singola, unica, straordinaria rete. Il pubblico non aveva smesso un attimo di incitarli e nemmeno le tante ragazze presenti si erano lasciate intimorire dalla sconfitta e avevano continuato a urlare i loro nomi. E la ragazza bionda che incitava Carlo era la più convinta e la più carina di tutte.Finché a un tratto, quando a centrocampo la squadra dei Turisti sembrava controllare senza problemi, Carlo riuscì a impossessarsi del pallone. Zigzagando tra un avversario e l’altro, come avrebbe saputo fare il buon Dante Bertoneri, Carlo servì con un colpo di tacco Francesco. Due passi, fissò il pallone, prese la mira e fece partire un cross altissimo verso la porta. La palla piovve in mezzo all’area, precisa e veloce come una baionetta. La testa di Nicola era in attesa solo del momento giusto per scattare verso l’alto e scaraventare il pallone in rete. Attorno a lui si era creato il giusto spazio: i fratelli Caorle, intenti a correre con gli occhi puntati sulla palla, avevano ingenuamente perso i riferimenti del campo e non appena abbassato lo sguardo si ritrovarono entrambi schiantati con la faccia contro i pali della porta. Uno a destra e l’altro a sinistra. Uno spettacolo!Così per Nicola fu un attimo.Saltò più in alto che poté e colpì la palla di testa con una tale violenza da credere d’averla squartata. Sentì la palla staccarsi da lui e volare verso la porta avversaria come una sfera da bowling. Il portiere era a terra e nessuno in difesa che potesse respingere quel pallone.Era fatta. Ed era ancora coi piedi staccati da terra e le braccia levate al cielo che attorno a lui le grida dei compagni e quelle del pubblico si fusero in un unico boato di gioia.Ma nel momento in cui i piedi toccarono terra fu la delusione. Un colpo di vento, o chissà che cosa: una maledizione divina o semplicemente una punizione celeste per mali che nessuno aveva mai fatto, riuscì a dirottare la sfera contro il palo esterno. Vi sbatté in un tonfo sordo e la palla rimbalzò via come folgorata da una scarica elettrica.Accadde tutto in un attimo. Il fischio della fine, gli sberleffi ghignanti dei Turisti e il tramontare del sole dietro la linea frastagliata delle montagne. Subito un velo di fredda penombra scivolò lento su di loro e sul campo come un lenzuolo funebre lasciandoli soli con la propria rabbia. Quella rabbia che viene solo di fronte a un’ingiustizia senza spiegazione, né ragione.Carlo sollevò gli occhi verso i compagni ancora tutti lì, in piedi, da soli nel campo ormai semideserto. Avevano perso e non avevano segnato nemmeno una rete. In più erano pure stati derisi dagli altri all’uscita dal campo. Peggio di così…Eppure, adesso, nessuno dei loro volti, seppur stravolto dalla stanchezza, portava i segni dell’umiliazione o della vergogna. Erano stati sopraffatti e superati in qualsiasi zona del campo ma non vi erano tracce di inferiorità in loro. Carlo guardò Cesco e Nicola e vi trovò la stessa espressione orgogliosa.«Che ne dite se ci facciamo una doccia e andiamo a berci una birra?» saltò su Cesco all’improvviso buttandosi indietro i capelli con una manata. Con l’altra stava già armeggiando col walkman e un paio di cassette di Rainbow e Motorhead.Nicola e Carlo annuirono e sorridendo si strinsero l’un l’altro la mano come sempre facevano dopo ogni partita giocata insieme.«Ehi ragazzi!» urlò da fondo campo Carlin il portiere, che intanto si era tolto la maglietta mostrando un fisico tutt’altro che sottile «vengo anch’io in birreria… però mi mangio anche un panino… va bene?»«Certo Carlin… anche dieci panini se vuoi!» gli risposero tutti insieme scoppiando a ridere.Poi Cesco batté serio sulla spalla di Carlo e gli fece cenno di voltarsi. Subito dietro, la ragazza bionda dai capelli a caschetto e la maglietta rosa stretta in vita lo stava aspettando. Si era messa sulle spalle un maglioncino verde e teneva le braccia strette al petto per l’aria fresca che si era alzata in valle.Nicola si avvicinò all’amico e cingendolo per le spalle gli mormorò in un orecchio: «Vai Carlo… non farla aspettare. Questa è la tua partita.» Poi spingendolo mollemente verso di lei con una mano, gli mormorò sottovoce: «Questa sarà la tua grande estate.»Carlo sollevò gli occhi su di lei e improvvisamente si sentì un incapace. Avrebbe voluto dire e chiederle mille cose ma aveva il terrore che qualsiasi cosa potesse dire sarebbe stata una stupidaggine; che lei si sarebbe messa a ridere e poi se ne sarebbe andata senza più degnarlo, considerandolo un idiota.E in realtà lui stesso non aveva ancora capito se fosse davvero un idiota oppure no…Così si limitò a rivolgerle un sorriso un po’ nervoso che lei ricambiò subito:«Mi chiamo Katia…» disse piano. E il suo sorriso fresco e innocente riaprì le porte socchiuse di quell’agosto dell’85.
Secondo tempo: agosto 2008A volte è sufficiente un tavolo da ping-pong o un vecchio calcio-balilla per fare strani ricordi.È sufficiente il verde della superficie del tavolo, il legno in finta radica del bordo del calcetto, quei ventidue omini blu e rossi, infilzati come spiedini di maiale e ritti simili ai denti di una gigantesca forchetta pronta per essere infilata nella bocca di qualcuno.Blu e rossi… azzurri e rosa, oppure a macchie biancastre, a seconda delle intemperie che hanno vissuto. A seconda che siano rimasti fuori all’aperto o al chiuso di qualche garage impolverato. Sono tutti lì, qualcuno con filamenti di plastica che saltano via dalla zona delle ginocchia, qualcun altro scavato all’altezza dei piedi.Ma sono sempre tutti lì: blu e rossi. E se fossero bianchi e neri sarebbe la medesima cosa?Forse, ma chi lo può sapere. A guardarli viene da pensare che in fondo anche noi siamo così: un po’ rossi e un po’ neri. Un po’ blu e un po’ bianchi. Come dire: un po’ tristi e un po’ felici. Un po’ sereni e un po’ malinconici.Quegli stupidi omini di plastica, se hanno voglia, ti possono dire che è passato tanto tempo e che gli anni con te non sono stati molto clementi…
Carlo alzò la mano che teneva stretta sul bracciolo della sdraio e si parò dal sole. Vide la pelle raggrinzita e quattro vene blu scuro in rilievo che una volta non c’erano. Aveva quarant’anni. Eppure…Scosse la testa e si guardò attorno. Oltre la ringhiera arrugginita del dehor del bar, la spiaggia si infilava nel mare morbida come un coltello d’oro.Non era granché la Liguria ma sempre meglio che niente.Di fronte a lui, con le labbra incollate a un enorme bicchiere di mojito e la testa che ciondolava sul petto, c’era Nicola. Uno dei suoi due vecchi amici. Nicola non aveva dormito tutta la notte e i suoi intensi occhi azzurri erano celati dietro due pesanti palpebre chiuse. Suo figlio Paolo di vent’anni era tornato a casa alle due di notte e dopo cinque minuti si era inginocchiato sul tappeto del salotto e aveva cominciato a vomitare. Non era la prima volta e non sarebbe stata neanche l’ultima. E nemmeno un grande spettacolo da vedere.Nicola aveva divorziato da cinque anni. Sua moglie, anzi la sua ex moglie, dopo averlo messo alle corde in tribunale e vinto la causa per la custodia di Paolo, aveva fatto che mollarglielo proprio quando lui aveva perso il lavoro; dopo l’ennesima crisi di quella stramaledetta fabbrica torinese. Con il sussidio di disoccupazione aveva fatto salti mortali per riuscire a tirare avanti con suo figlio. Poi per fortuna aveva trovato un posto da barista e adesso finalmente, dopo tanto tempo, potevano godersi insieme qualche giorno di vacanza. A Spotorno, in Liguria, mica alle Bahamas, ma poco importava.C’era una cosa però che lo tormentava: prima almeno, quando gli mancava il lavoro aveva un figlio adolescente. Invece adesso che aveva trovato il lavoro, suo figlio l’aveva perso per strada. Perso nel senso che non lo vedeva più e quando di rado riusciva a incrociarlo in casa, era fondamentalmente per tre motivi:
1. Doveva mangiare;2. Aveva necessità di incollarsi all’ennesimo ultimo videogioco;3. Sentiva il bisogno sadico di far vedere a suo padre l’ultimo tatuaggio che si era fatto fare: sull’avambraccio oppure sul collo o sotto l’ascella… L’ultimo che si era fatto, almeno, aveva il vantaggio di rappresentare un torello seduto sulla testa di una vecchia zebra…«Ehi Nicola!» lo richiamò Carlo nel momento in cui l’amico stava per cadere giù dalla sedia. «Ehi Nicola… va tutto bene?»Nicola si riscosse tutto d’un colpo, si rimise a sedere, sorseggiò qualche goccia di mojito e poi alzò gli occhi su di lui. Aveva degli occhi talmente azzurri e profondi che non riusciva a capire come sua moglie potesse averlo lasciato. E poi che sorriso. Era proprietario del più bel sorriso della spiaggia. Lo stesso che vent’anni prima faceva impazzire tutte le ragazze lassù in montagna. E questo era un grosso vantaggio per loro: per lui, per Francesco e per gli altri della compagnia. «Ehi Nicola… va tutto bene?»«Benissimo, Carlo! Va tutto alla grande!» rispose luminoso come il sole alzando verso di lui il bicchiere di mojito. Vuoto. Ed era il quarto.Carlo si lasciò andare contro lo schienale della sedia del bar:“Benissimo…” pensò tra sé e sé scuotendo la testa “benissimo dice lui…”Alle sue spalle la pallina del calcio-balilla sbatté rumorosamente sul bordo del tavolo. Non ci fece caso. Ruotò la testa a sinistra e vide Francesco “Cesco”, l’altro suo amico, che lo stava fissando preoccupato:«Stanno perdendo» sbottò torcendo la bocca in una smorfia. Francesco non era cambiato molto con gli anni: portava ancora i capelli lunghi sulle spalle, aveva la pelle abbronzata e fra le dita una sigaretta perennemente accesa che faceva il paio con l’espressione scettica di chi ha capito tutto ma sa che è troppo tardi.Si conoscevano da una vita eppure malgrado tutto Carlo non era ancora riuscito a capire che tipo di lavoro facesse Francesco. Anzi lo sapeva benissimo: qualsiasi cosa gli avesse domandato, lui avrebbe risposto che… certo… cavolo! Quel mestiere l’aveva già fatto! Lui era stato elettricista, archeologo, muratore, pilota, narcotrafficante, talento incompreso delle giovanili del Torino, avvocato, pescatore… forse anche astronauta, ma per poco… solo giusto un giro… così tanto per capire.Francesco era nel medesimo tempo un concentrato di fantasia e di idiozie. Il miglior raccontatore di menzogne di Torino. Perché se alla fine non ci sono fantasia e una buona dose di pazzia che cos’altro può rimanere d’interessante nella vita? «Stanno perdendo, Carlo!» ripeté Cesco senza voltarsi, dietro una spessa cortina di fumo azzurrognolo.«Chi?» domandò tossendo Carlo.«Mio figlio, il tuo e il suo» rispose, indicando con una mano più abbronzata del petrolio il calcio-balilla al fondo del bar. Carlo alzò gli occhi azzurri, un po’ spenti, verso i loro figli.Alle sue spalle la pallina del calcio-balilla sbatté rumorosamente sui bordi di legno. Poi in mezzo al tumulto, un urlo fece vibrare contemporaneamente pavimento, tavolino e l’ombrellone, sotto cui si trovavano lui, Cesco e Nicola.«GOOOL! GOOOL!… E siamo quattro a zero! Ah… ah… ah…!»La risata non gli era nuova. Era una risata lenta e sincopata che ricordava lo scoppiettare del motore a due tempi di una vecchia moto. Non aveva mai sentito nessuno ridere in quel modo da idiota. Fissò le pupille dei suoi amici e poi all’unisono si voltarono tutti quanti.Era Lupo. Un ragazzo smilzo e piccolo, dalla faccia piatta sormontata da una capigliatura simile al letto di un fachiro e il cavallo dei pantaloni che gli solleticava le ginocchia. Sembrava uno straccione ma era tutto griffato dalla testa ai piedi: maglia, pantaloni, scarpe da ginnastica. E ovviamente anche le mutande, con l’elastico bene in vista.Insieme a lui c’era Fedro. Suo degno amico e compagno di partite a calcetto. Con la differenza che questo non era stupido ed era il tipo che sapeva da che parte scappare quando arrivava la valanga.Gli occhi di un azzurro ghiaccio e i capelli biondi pettinati con rigore geometrico scintillavano sopra la maglietta azzurra con le sue iniziali e i pantaloni bordeaux di lino. Pareva uno skipper appena sceso dalla barca a vela.«Calmo Lupo» sbottò con tranquilla strafottenza «più stai tranquillo, più loro perdono. È una legge di vita: i poveri perdenti devono mantenere i ricchi vincenti… No?» e fissò dritto negli occhi Lupo che un po’ a disagio tornò a concentrasi sul calcio-balilla.Paolo, il figlio di Nicola, gli mostrò il pugno. Ma un pugno debole e timoroso. Luciano e Nello, rispettivamente figli di Cesco e Carlo, si guardarono con l’aria di chi sa già di avere perso. E parevano non avere nemmeno la forza di provare a reagire.Luciano, magro e allampanato svettava sopra tutti gli altri di almeno due spanne. Era cresciuto all’insegna della libertà più totale. Non aveva mai avuto una madre fissa e non aveva idea di che cosa fosse una famiglia in senso stretto. L’unica famiglia che aveva, e che condivideva con suo padre Cesco, era quella degli amici: la famiglia delle serate, dei pomeriggi di libertà, della domenica o del sabato a vedere insieme la partita del Toro. Tutti insieme. E non importava se poi alla fine la squadra non ce la faceva a vincere o pareggiare. Come diceva Carlo quando non lo ascoltava sua moglie: «La nostra vera casa siamo noi, ragazzi…» e gli altri annuivano con ferma convinzione.Tra questi ad annuire c’era anche suo figlio Nello, che tra un trancio di pizza davanti alla televisione, merendine varie e vasetti di cioccolata era diventato l’equivalente di un lottatore di Sumo. In fondo gli ricordava un po’ il vecchio Carlin, il panettiere che c’era su in montagna. Ma con gli altri Nello stava bene e nessuno mai si sarebbe preso la briga di prenderlo in giro per la sua stazza. Carlo guardò gli altri con aria interrogativa: «Secondo voi ce la faranno a non perdere?»Cesco cominciò a scuotere la testa sconsolato:«Guarda che facce… Comunque mio figlio, il coraggioso, si è già messo da parte. Vuole far giocare Nello…»«…Che non è proprio un fulmine di guerra…» mugugnò Nicola posando con forza il quinto bicchiere vuoto di mojito sul tavolo. Nello, la testa incassata, aveva afferrato i due manici del calcio-balilla con scarsa convinzione e adesso stava presidiando con gli occhi il cartellone plastificato dei gelati.«Se sta in porta può ancora fare la sua bella figura… state tranquilli» disse suo padre con gli occhi bassi. Poi Carlo si lasciò andare contro lo schienale della sdraio. Non si sentiva a posto.Allungò gli occhi oltre il bar, dove finiva l’ombra e sotto il sole rovente iniziava la spiaggia. Lì c’era Katia, sua moglie, la pelle abbronzata, i capelli biondi a caschetto Era in compagnia di un’amica. Accovacciate a terra su due stuoie, stavano ridendo come pazze e non appena passava qualche tizio abbronzato e ben muscolato, magari con qualche tatuaggio, lo seguivano con gli occhi e poi si parlavano a voce alta, per farsi sentire. Soprattutto sua moglie.A un certo punto Carlo la vide voltarsi verso di loro. Fece per salutarla ma lei gli rivolse uno sguardo seccato come se le avesse dato fastidio essere osservata e gli diede di nuovo le spalle.Lui rimase lì, con la mano a mezz’aria e quel senso di magone che si portava dietro ormai da troppo tempo. Da quando si avvicinava per baciarla e lei voltava la testa dall’altra parte, da quando i no erano diventati più fitti della nebbia di novembre.Forse lui era cambiato; ma Katia no, Katia molto di più: Katia non era più la stessa persona di cui si era innamorato. Non era più quella ragazza stupendamente bionda che saltava a bordo campo di una stupida partita di calcio gridando il suo nome dietro un sorriso più largo del mare.Non era più la stessa persona quando a sorpresa veniva a prenderlo all’uscita dal lavoro e poi si lanciavano verso il mare della Liguria all’avventura per due giorni.Non era più la stessa donna per la quale una mattina dopo aver fatto l’amore lui le aveva lasciato scritto sul cuscino: “Sei il pensiero più bello che Dio possa aver fatto”. E dopo nove mesi nacque Nello.«Sei un cretino, Carlo!» era la frase più dolce che si sentiva rivolgere da un paio d’anni. Le altre frasi preferiva non ricordarle nemmeno.E il grosso problema è che non aveva capito che cosa fosse successo. A un certo punto le cose avevano iniziato ad andare così, senza una vera spiegazione, senza un reale perché. Semplicemente tutto era cambiato.Abbassò la testa e si mise a guardare la linea frastagliata del pavimento. Com’era potuto succedere…Per fortuna gli erano rimasti i suoi amici Nicola e Cesco, oltre a suo figlio Nello. Per fortuna che una volta la settimana c’era il Toro che giocava contro qualcuno da qualche parte. Che fosse in A o in B. E mentre una maglia granata saettava su quel campo verde simile a un tavolo da ping-pong, tornava di nuovo a sentirsi un po’ studente, un po’ giovane, ancora avido di un futuro che vedeva lontano e luminoso e nella mente tornavano a rimbombargli le canzoni di Alan Parsons e Bonny Tyler e Kim Carnes e… Al fondo del bar un uomo con una chitarra elettrica e un enorme amplificatore nero aveva cominciato a fare un po’ di musica di sottofondo. “Europa” di Santana, “Certe notti” di Ligabue, Lucio Battisti, Gloria Gaynor. La sua musica. La loro musica. Quella che ai tempi del liceo e della montagna ascoltavano alla radio o al juke-box e ballavano la sera da qualche parte.La musica di quando loro tre si guardavano negli occhi e sapevano che sarebbero potuti diventati i re del mondo. Re del mondo…Gli venne da piangere.
«Carlo! Carlo ci sei?» fece una voce vicino alla sua faccia. Era quella di Nicola con i suoi occhi azzurri e la faccia preoccupata.«Sì, sì ero solo soprappensiero» riuscì a borbottare piano abbassando la testa. Gli occhi erano umidi.«Tutto ok?» chiese dall’altra parte Cesco che nel frattempo si era alzato e stava spegnendo l’ennesima sigaretta nel posacenere. Carlo attese qualche secondo e poi guardò entrambi senza rispondere. Scosse solo la testa.Cesco e Nicola annuirono in silenzio dopo essersi scambiati una rapida occhiata. Tra loro non c’erano mai stati segreti. I segreti sono per gli ipocriti o per quelli che non hanno niente da fare e niente da dirsi.Ci si capiva al volo e si sapeva sempre tutto.Nicola strinse la spalla di Carlo e poi gli chiese:«Ehi, te la ricordi la partita che abbiamo giocato in montagna… quell’agosto dell’85?»«Non puoi non ricordarla…» sbottò d’un tratto Francesco. Stranamente gli si era dipinto un sorriso che non gli apparteneva ed era talmente aperto e solare che Carlo quasi non lo riconobbe.La partita di quell’agosto dell’85 se la ricordava molto bene. E per tanti motivi. Almeno uno su tutti.«Perché questa domanda?»Nicola e Cesco si guardarono e poi spostarono lo sguardo sui figli che stavano perdendo al calcio-balilla. I loro sospiri sconfortati erano coperti dalle risate oscene di Lupo e dalla boria dell’amico Fedro.«Palo!!» urlò proprio in quel momento Fedro dopo un tiro ad effetto. «Questa volta vi è andata bene…» sibilò con rabbia mentre Lupo stava agitando il pugno.Non ci fu bisogno di dire altro. Pochi secondi dopo, di fianco al calcio-balilla, Nicola impugnava le maniglie di portiere e difensori; Carlo centrocampo e attacco. Cesco, appena dietro, era pronto a subentrare.Gli occhi glaciali di Fedro si piantarono subito dentro quelli di Carlo.«Siete venuti a salvare quei poveracci dei vostri figli?» fece subito Fedro con voce calma ma carica di un sarcasmo più corrosivo dell’acido. «Tanto… sfigati sono loro, sfigati siete voi. Per noi cambia poco.» La rabbia che aveva addosso quel ragazzo era in netto contrasto con il suo modo di vestire sobrio ed elegante e il suo tono di voce pacato.Alle loro spalle un gruppo di tre ragazze si era fermata a guardare.Lupo si tirò su i pantaloni che gli erano scivolati oltre le natiche, si passò un paio di volte il dorso della mano sul naso sgocciolante e alla fine scoppiò nella sua sghignazzata da motore a due tempi.Carlo e Nicola si scambiarono ancora un’occhiata. Avevano un credito da qualche parte con qualcuno. Una partita di calcio di tanti anni prima e un destino che gli era stato avversario troppo crudele; di sicuro ingiusto. Eppure malgrado tutto erano sempre riusciti ad andare avanti. Forse perché loro erano diversi… oppure semplicemente perché erano figli di un altro tempo, figli di un’altra generazione. Figli di un pensiero e di un principio che non c’erano più.«Forza ragazzi!» li incitò Cesco dietro di loro. Si era acceso una sigaretta e dietro quella sottile tenda di fumo grigio, il suo volto era teso e concentrato. Era la loro espressione, quella dei momenti difficili, quella del: non importa quello che accadrà, ciò che conta è fare un passo in avanti per arrivare in cima. Per arrivare in cima alla collina delle speranze e poter guardare di sotto senza rimorsi.«Dai! Andiamo!» esclamarono all’unisono Carlo e Nicola «essere della vecchia guardia del Toro significherà pure qualcosa no?»«Infatti… forza! Facciamogli vedere!» mormorò a denti stretti Cesco, in piedi dietro di loro.Questa volta non bastava fare una rete. Questa volta bisognava almeno pareggiare. E dopo, ne erano convinti, ogni cosa sarebbe stata possibile. All’incitamento di Cesco si unì anche quello dei figli: Nello, che nel frattempo aveva cominciato a sgranocchiare un nuovo pacchetto di patatine; Paolo, il figlio di Nicola, che per una volta aveva smesso di rimirarsi i tatuaggi sulle braccia per essere dalla parte di chi si era assunto il compito di salvargli la faccia. E Luciano, che dall’alto della sua figura, svettava come un abete in mezzo a un sottobosco di rovi carbonizzati.Fedro invece stava osservando Carlo e Nicola con un ghigno sprezzante scolpito sul volto.«Allora…» esordì per primo sventolando sotto il naso di tutti una pallina bianca «cominciamo? Così la facciamo finita anche contro quei poveracci che siete voi?» e si mise a ridere, seguito subito da Lupo che non aspettava altro.Carlo alzò con sicurezza gli occhi verso di lui e annuì. Alle spalle di Fedro intanto, una delle ragazze arrivate prima lo stava osservando. Stava fissando proprio lui, Carlo. Aveva occhi più neri dei capelli corvini che le scendevano sulle spalle nude. Indossava un bikini verde acceso e la pelle abbronzata era cosparsa di fine sabbia bianca. Avrà avuto non più di una ventina d’anni e avrebbe potuto essere tranquillamente sua figlia. Eppure era lì a pochi passi da lui e lo guardava ammirata e maliziosa. Si sentì un poco in imbarazzo. Ma un imbarazzo piacevole e inebriante. Come non si sentiva da anni.Sorrise a se stesso e poi a lei, subito ricambiato. Quella ragazza aveva un sorriso sincero e aperto come la linea dell’orizzonte, laggiù, oltre quella spiaggia piatta e quegli ombrelloni schierati in fila come un esercito di soldati in fuga.Le sorrise ancora poi abbassò lo sguardo e non ci pensò più. Le cose belle vanno lasciate al loro posto affinchè rimangano belle per sempre.
Fedro rimise in gioco la pallina. Chissà perché gli omini con cui si ritrovarono a giocare loro tre avevano il colore rosso. Un rosso scuro, un rosso sangue. Un colore che tutti loro conoscevano bene.Un segno del destino?Questa volta non fu necessario nemmeno difendersi. Carlo con un imperioso colpo di polso fece schizzare la palla contro il portiere di Fedro che nemmeno si mosse. La palla rimbalzò contro il bordo di legno e fu subito recuperata da Nicola con un omino della difesa. Un rapido tocco all’indietro e poi la stoccata.Fu come vedere la scena a rallentatore: una sfera bianca che rotola lentamente come un batuffolo di cotone su una superficie levigata. La sfera supera un ostacolo, un altro e un altro ancora. Pare spinta dal vento, sembra muoversi per magia fino al limitare della piccola porticina: un foro nero e rettangolare fatto apposta per divorare qualsiasi cosa. La sfera pare rallentare e fermarsi proprio sul limite. Tutto sembra essere diventato immobile. Poi la palla entra. Non è più un batuffolo di cotone: il tonfo è secco e chiaro. La rete. La prima della rimonta. La prima di un agosto di un’altra vita.Fedro e Lupo: due statue di gesso.Attorno, un coro di urla e di battimani ma nessuno di loro sentiva nulla. Ciascuno di loro si era chiuso in un suo silenzio che era il silenzio di tutti.Era il loro silenzio, quello rispettoso dei momenti importanti.Cesco, Carlo e Nicola si abbracciarono forte. Dopo tanti anni e tante storie, erano ancora lì. Insieme. Uniti da un solco tracciato nel tempo fatto di sogni e di pietra.Lo sentivano: questa volta le cose sarebbero andate in modo ben diverso. Questa volta ogni cosa avrebbe trovato la sua giusta direzione. Perché le cose giuste accadono. Ne erano certi. Ne erano sicuri.
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