Cari amici,
mondo granata
La miniera stregata
anche questo venerdì, e per tutto il mese di agosto, prosegue la sezione "estate", con le storie scritte da voi. Questa settimana ospito un racconto intrigante e msiterioso, di un caro amico granata. Noi ci rivediamo a settembre.
"La miniera stregata" di MASSIMO ELLENA
Nonno Fredo schiacciò la sigaretta nel posacenere e mi fissò dritto negli occhi. Eravamo io e lui seduti al tavolo di legno della cucina. Una vecchia cucina di pietra dentro una vecchia grangia di pietra scavata in uno sperone di roccia.Lì in montagna, da ragazzo, ci passavo i sabati e le domeniche e poi le vacanze estive, che credo diventassero vacanze anche per mio nonno.Sul tavolo, il bicchiere di vino, un rosso che a nonno Fredo piaceva da morire, era ancora mezzo pieno. Ma non ci avrebbe impiegato molto a vuotarlo e ad alzarlo verso di me in segno di augurio. E come al solito, il sabato e la domenica, nonno Fredo indossava la sua intoccabile maglietta granata. “Ha lo stesso colore del vino ed è il mio portafortuna per la partita” diceva dopo aver alzato il bicchiere alla mia salute. Certo, il Toro era la sua vita e me ne parlava continuamente, però mai una volta che ricordassi d’averlo visto attaccato alla radio a sentire le partite, la domenica o il mercoledì. È anche vero che le rare volte che gliel’avevo visto fare, nonna Celestina l’aveva coperto d’ingiurie e lui se n’era andato sbattendo la porta. Forse era per quel motivo.«E così quel degenerato del tuo amico ti ha chiesto di andare alla miniera fantasma…»«Sì…, no…, beh non è proprio un mio amico…» tentennai io dall’alto dei miei tredici anni. Era il 1980 e allora avevo una zazzera ricciuta che oggi non riuscirei neanche a ricordare. Posso solo ringraziare un bel po’ di fotografie che lo testimoniano al mondo.«No? È allora chi è che ti ha messo tutta questa paura?»«Beh non è proprio paura… è poi lui è Asso, nonno. A lui non puoi mai dire di no. Altrimenti lo verrebbe a sapere tutta la scuola che sono un cago…»«Va bene, va bene Fulvio» mi interruppe.«Insomma: a scuola sarei rovinato.»Mio nonno non mi staccava gli occhi di dosso. «La scuola. Già. Ma tanto non finisce fra pochi giorni? Di che ti preoccupi?»“Sono rovinato” scossi sconfortato la testa ricciuta. Sentivo che la mia fine non era lontana come credevo, del tipo: io con i capelli bianchi, un bastone per stare in piedi, un matrimonio, figli e nipotini come me in mezzo ai piedi, e tutte quelle cose lì insomma. Invece no. Forse neanche mio nonno poteva fare nulla per evitarlo.«Asso… Asso… ma che razza di soprannome! Comunque so chi è. Non è quella che si può definire una cima.»«Già, già…» avevo cominciato ad appallottolare nervosamente le carte dei cioccolatini che avevo appena mangiato. «E poi anche lui da qualche giorno è venuto qua con i suoi genitori. Ci passerà l’estate credo.»Mio nonno si mise a ridere: «E non sei contento?»Non risposi.Avevo in testa il fatto che Asso mi avesse chiesto quella mattina d’andare alla miniera abbandonata. Ne avevo sentito raccontare e la cosa non mi piaceva affatto: strane voci, spettri. “Quando?» gli chiesi e lui mi rispose subito deciso: “Domani, e non si discute. O con me o contro di me: e sai cosa vuol dire vero?”Annuii senza parlare.“Vero, CISTERNA?» insisté Asso affondando il coltello nella piaga. Sapeva quanto mi facesse arrabbiare essere soprannominato Cisterna. Dovete sapere che all’epoca ero un po’ grassottello… Va beh, un po’ più che grassottello: ero abbastanza largo e… Ok, siamo sinceri: ero grasso da far invidia a uno zampone di Capodanno ma essere chiamato cisterna da quel bulletto non potevo proprio sopportarlo. Soprattutto quando lo diceva di fronte ad Angela. Già perché Angela era… Angela era… Era Angela, la ragazza più bella della classe e io allora… ne ero… beh mi piaceva. “Vero, CISTERNA? Essere contro di me significa… merende, figurine, giochi, soldi… da te a me su mia richiesta” precisò Asso con un ghigno.Buttai le palline di carta nel posacenere e tentai di guardare negli occhi mio nonno. «Cos’è questa miniera stregata? Ci voglio andare ma mi devi aiutare… devo sapere cos’è e come fare a…» implorai.Nonno Fredo sospirò un paio di volte bonariamente e poi mi dedicò un ampio sorriso. Lui sapeva sempre come risolvere qualsiasi problema. «Vedi… come in tutte le storie c’è sempre qualcosa di vero… ma anche qualcosa che non lo è.»«Cosa vuoi dire?»«Quella è un’antica miniera di rame. Lì ci ha lavorato mio padre fino al giorno in cui per un incidente è crollata. Eravamo agli inizi del ‘900 e insieme a lui sono morti molti altri minatori…» Ci fu un attimo di silenzio e io non dissi una parola.« Comunque… come dire… si sentono delle strane voci provenire da lì dentro. A volte si vedono delle ombre comparire e scomparire davanti all’ingresso. Ma questo non succede sempre… capita a volte… solo a volte.»«Tu le hai viste?» gli chiesi con un filo di voce.Nonno Fredo annuì in silenzio. «Lo sai che erano tutti tifosi del Torino?»«Chi?»«Quei poveri minatori. Compreso mio padre, cioè tuo bisnonno»Scossi la testa. “Che sfortuna” pensai, ma non mi venne da dire nulla.Poi d’un tratto nonno Fredo si voltò, sbirciò oltre la porta per vedere se stesse arrivando nonna Celestina e lo vidi sparire in camera. Quando rientrò aveva tra le mani una maglietta granata simile alla sua ma più vecchia. E più larga…«Questa era del tuo bisnonno. Nel senso che gliel’hanno regalata alla fine di una partita. È una maglia storica dei primi anni del Torino.»Era molto bella e il colore, anche se non era accesissimo, anzi perfino un po’ cupo, al sole assumeva un aspetto completamente diverso e ti metteva voglia di vivere.«Devi sapere che questa maglietta era di un giocatore di nome Cesare Martin. Erano quattro fratelli, lui era Martin II, e pensa che tutti hanno giocato nel Toro. Comunque è importante per tanti motivi: quando tuo bisnonno l’ha presa era il giorno dell’inaugurazione del nuovo stadio Filadelfia: era il 17 ottobre del 1926. E poi i fratelli Martin erano di Pinerolo… proprio come noi. Avevano il nostro stesso cuore montanaro.»«Tienila e mettila domani per andare alla miniera. Fai attenzione, non la devi rovinare ma ti porterà fortuna. Stai sicuro: ti aiuterà.»Ero sbalordito. Francamente mi sarei aspettato un aiuto ben diverso da parte di mio nonno. Eppure quella maglia mi piaceva. E in un certo senso, senza sapere perché, mi dava sicurezza.
Quella domenica alle sette di mattina ero già sotto casa di Asso, quella che i suoi genitori avevano preso in affitto per l’estate. Avevo un panino in una tasca dei calzoni e una bottiglietta d’acqua nell’altra e mi sentivo già fin troppo carico. Chiamai e Asso si sporse dalla finestra.«Ma che puntualità Cisterna!» sbottò guardando in basso verso di me. «Ma io mi devo ancora preparare quindi stai pure lì» concluse ridendo, sbatté la finestra e non sentii più nessuno finché dopo un po’ mi si spalancò davanti la porta d’ingresso.«Entra pure che fa freddo lì fuori» disse una donna piccola e graziosa dai movimenti nervosi. Era la madre di Asso. «Scusa per mio figlio… ma… lui è fatto così, anche se non è cattivo, sai…»«Certo, certo» risposi poco convinto.Salii i gradini, entrai e mi guardai attorno. Le pareti della stanza erano ancora nude. Per terra c’erano scatoloni da vuotare e un po’ di pentole dappertutto. In compenso era già stato appeso un poster della juve ricoperto di firme. Sul ripiano di una credenza c’erano due piccole coppe lucide e scintillanti.«Ehhh, le hai subito notate eh? Che soddisfazione! Quelle le ha vinte mio figlio a calcio. Sai, gioca nella juve ed è già un piccolo campione!» si fregava le mani e gli occhi le si erano accesi come i neon di un negozio.«Certo, certo, signora» risposi ancora poco convinto.Stavo per sedermi quando il campanello trillò un paio di volte e dopo un po’ sulla soglia insieme alla madre di Asso vidi comparire Angela: il cuore mi si fermò per un attimo. Ma poi riprese.«Ciao» la salutai con un groppo in gola.Lei mi guardò e senza neanche rispondermi chiese alla madre di Asso se poteva raggiungere suo figlio. «Certo che puoi, no? Sono in camera mia, entra che sono quasi pronto!» strillo Asso da dietro la porta.Angela mi passò davanti senza accorgersi della mia presenza, cosa non facile allora vista la stazza, e sparì nella camera.Non ricordo altro se non che quando uscirono erano vestiti che parevano pronti ad affrontare vette Himalayane più che un giro di mezza giornata verso una vecchia grotta. Scarponcini, zaini… da quello di Asso poi sporgeva perfino una corda su cui erano fissati un paio di moschettoni. E una piccozza.Feci fatica a trattenermi dal ridere e Asso se ne accorse.«Ehi Cisterna… portalo tu lo zaino di Angela visto che pesa e tu non porti niente… a parte quell’orribile maglietta» e lei me lo posò sui piedi. «Ma lo sai che con una maglia di quel colore tu qui non dovevi nemmeno esserci, eh?»«Non sono stato io a voler entrare…» ribattei «e poi questa maglia è storica.»«Storica, certo…» mugugnò Asso senza ribattere. Le parole storia, storico come anche geografia, geografico, latino, aritmetica avevano lo straordinario potere di togliergli la parola. Alzava le spalle sprezzante, sbuffava, grugniva ma non controbatteva mai. Lui tagliava corto e cambiava discorso.«Forza, andiamo!» comandò di botto Asso.Mi caricai lo zaino in spalla, ci avvicinammo alla porta e quando fummo sul punto di uscire ci fermò. Doveva ancora andare in bagno.Da che ricordi, in tutta la vita credo di non aver più trovato nessuno in grado di fare ciò che faceva lui. Posò la zaino sul divano, entrò e nello stesso momento in cui sentimmo la chiave girare nella toppa ci fu lo scroscio dell’acqua e la porta che si riapriva di nuovo.Guardai Angela a bocca aperta. Lei guardò la madre di Asso che sparì in cucina. Ma non ci fu modo di dire niente. Prendemmo le nostre cose e uscimmo in strada. Asso davanti a tutti.«Asso, conosci la strada?» mi permisi di chiedere.Lui si girò e mi squadrò grugnendo: «Secondo te?»Lasciai perdere, tanto il sentiero me l’ero fatto spiegare bene da mio nonno Fredo che qualche volta l’aveva fatto anche lui.
Ci si doveva inoltrare nella vallata. C’era una lunga strada sterrata da percorrere, per la gran parte carrozzabile, da cui a un certo punto si distaccava il sentiero che bello ripido s’inerpicava sulla fiancata della montagna. Ci guardammo e poi ci inoltrammo a passo lento attraverso il fitto bosco di pini e abeti, Asso in testa, Angela e poi io a chiudere la fila un po’ indietro. Non che non fossi allenato ma di certo la mia stazza e lo zaino di Angela non mi aiutavano ad andare più forte. Sul sentiero trovammo un gruppo di sei o sette casupole di pietra e assi di legno da cui un vecchio montanaro secco e barbuto ci invitò a tornare indietro: «Se andate alla miniera, io in voi tornerei a valle! Si dice che oggi butta male!» gridò ma la voce gli usciva flebile. «Oggi finisce il campionato… ragazzi, andate ad ascoltarvi le partite!» continuò preoccupato. Asso grugnì. Angela e io lo salutammo con un cenno della mano. Oltrepassammo tre ampie radure piene solo di marmotte e un paio di ponticelli traballanti di assi marce. Asso davanti non si vedeva più e Angela a un certo punto mi allungò la mano perché l’aiutassi:«Ho paura Cist…, Fulvio, ho paura di cadere…»La raggiunsi arrancando e le presi quella mano che teneva sospesa in aria. Penso che ricorderò per tutta la vita quelle parole e quel vecchio ponte lì nel bosco.Era sudata ma la sua presa era forte. La strinsi e la tirai più vicino a me. Mi sentivo imbarazzato da morire. Il fiato mi si era congelato in fondo alla gola ma non potevo certo tirarmi indietro. Le cinsi la vita senza che lei m’impedisse di farlo e piano piano passammo il ponticello. Che poi non era granché: tre metri di lunghezza sopra un basso ruscelletto eppure, superato quel tratto che mi parve lungo chilometri, mi sentii all’improvviso diverso e molto, ma molto più grande dei miei tredici anni.Superato il ponte, Angela si volse e per la prima volta mi guardò nei occhi: «Grazie» disse e riprese a camminare.Non mi mossi e dopo alcuni passi lei si girò di nuovo. Questa volta aveva un bel sorriso: «Grazie anche per lo zaino, Fulvio. Sei gentile.»Le sorrisi e persi la parola per alcuni minuti.Non si sentiva alcun rumore lì se non quello dei nostri passi e non parlammo mai se non in un’unica occasione: Asso dopo avermi insultato un po’ per la mia lentezza e per la maglia che indossavo a un certo punto se ne uscì chiedendomi qual’era il motivo che mi spingeva a tenere per il Toro e non per la juve, più forte, più bella, più ricca e tutte quelle cose lì.Io allora non ero un gran tifoso come mio nonno, ma alcune cose le sapevo: «Si nasce tifosi del Toro…» dissi «e poi questa squadra è una leggenda. La juve invece non lo sarà mai.»«Leggenda?» mi chiese stupito.«Sì, leggenda, Asso, leggenda: non hai mai sentito parlare del Grande Torino e di Superga?»«Ah, certo che sì…» sbuffò scrollando le spalle. «Ma anche la juve ha la sua leggenda…» mi disse. E mi raccontò che nella Juve c’era stato un grave incidente in cui era morta l’intera squadra.«Quando?» gli domandai non sapendone nulla.«Oh, beh… sai… tanti anni fa. Molti anni fa…»«E cos’è successo?» fece Angela anticipando la mia domanda ed elargendomi un bel sorriso. Il secondo della giornata che per me equivaleva al trionfo del primo uomo sulla Luna.«Beh, sì… allora… l’intera squadra si stava spostando per una partita su una camionetta…»«Camionetta?» Chiedemmo dubbiosi Angela e io.«Sì, quella camionetta grande… il pullman, ecco sì, un pullman…»«… e dove stavano andando?»«Stavano andando… Senti Cisterna, non mi ricordo dove stavano andando!» si spazientì Asso. «Comunque, stavano andando e a un certo punto la camionetta…»«E dagli con sta’ camionetta» feci io.«… a un certo punto IL PULLMAN» precisò Asso scandendo bene le parole, «il pullman, con tutta la squadra, sbandò e cadde giù in un burrone di almeno due o tre chilometri… e …»Avevo le lacrime agli occhi per le risate. A quel tempo non credevo ancora ci potessero essere persone in grado di inventare l’inverosimile pur di averla vinta su tutto.Comunque lo lasciai parlare e proseguimmo lungo quel sentiero che si stava facendo sempre meno visibile.Alla fine sbucammo in un’ampia vallata priva di qualsiasi tipo di vegetazione. Al fondo tra la radura e la parete rocciosa della montagna scorgemmo l’ingresso scuro della miniera. La miniera stregata.Ci guardammo e posammo a terra gli zaini.«Io mi fermo qua» fece Angela guardando entrambi. «Voi andate. Io ho paura.»«No, devi venire anche tu» insisté Asso. «Che senso ha se no tutta ‘sta camminata?»«Per stare in compagnia…»Asso la prese per un braccio e lei si divincolò mettendosi a sedere su una roccia. «Ho detto che non vengo! Vi guardo di qua.» Prese un panino e cominciò a mangiare guardandomi di sottecchi.Eravamo arrivati lì che era primo pomeriggio. Nessuno di noi aveva toccato cibo e io in particolare non avevo alcuna fame. Volevo solo andare a vedere cosa c’era dentro quella vecchia grotta e togliermi il fastidio. Posai panino e bottiglia d’acqua accanto agli zaini e m’incamminai senza aspettare Asso.«Ehi, cosa credi…» mi urlò dietro dopo aver mollato Angela. In un attimo mi fu di fianco e poi davanti: «Cosa credi, di entrare là dentro prima di me? Scordatelo!» e tirò dritto.
L’ingresso non era grande. Anzi a dire il vero era piuttosto piccolo a causa del crollo che c’era stato. Si vedevano pali di sostegno e le assi, di quello che un tempo era stato una specie di soffitto, spezzati e divelti sotto il peso dei massi.Davanti alla bocca d’ingresso c’era un gran numero di sfasciumi di roccia rossastra; tra questi scorreva un rivoletto d’acqua anch’esso di color porpora.«Tutto ‘sto rosso porta male» esordì Asso, in piedi a gambe divaricate davanti a quella voragine nera che era l’ingresso.«Non è sempre detto…» ribattei io indicando il colore della mia maglia.«Al diavolo, Cisterna!»Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni una pila, l’accese e si avvicinò lentamente. «Tra tutti quelli che sono venuti qua, io sarò il primo a dire cosa c’è davvero qui.» Poi mi guardò con aria di sfida:«E tu Cisterna avrai l’onore di poter dire che eri con me» rise e mi chiese: «Allora, non sei contento?»«Secondo me sarai tu a considerarti fortunato di essere stato con me…» gli risposi. Non so da dove siano venute quelle parole ma mi vennero alla bocca e ne fui contento. Asso mi guardò sbalordito, poi mi voltò le spalle ed entrò.Li vidi sparire subito. Lui e la sua pila.Io mi avvicinai all’ingresso e mi sedetti a terra ad aspettare. Angela accovacciata in fondo alla radura su un piccolo dosso ci stava osservando.Non ricordo quanto tempo sia passato, credo una decina di minuti, prima di sentir arrivare dall’interno della caverna una specie di gemito... Non saprei come dire: era più l’eco di un urlo strozzato, ma l’urlo non era di Asso. Aveva un timbro molto, molto più basso.Poi fu di nuovo silenzio seguito da un rotolare di pietre insieme a passi affrettati. All’improvviso la testa di Asso sbucò fuori dall’oscurità. Lo vidi cadere a terra, rialzarsi e sgusciare fuori dal passaggio reggendosi a terra con le mani. Non potrei dire che fosse bianco in volto: aveva le orecchie viola dallo spavento e la faccia era sporca di fango rosso. I vestiti strappati.«Asso… Asso!» urlai «che è successo?»Non mi rispose. Nascose la faccia tra le mani e cominciò a singhiozzare.«Asso… che è successo?» gli domandai di nuovo.«Sparisci, Fulvio… vattene.»Non insistetti. Gli diedi una pacca sulla spalla, raccolsi la pila che gli era caduta e mi avvicinai all’ingresso. C’era silenzio. Sporsi l’orecchio e dopo un po’ mi parve di sentire dei rumori provenire dall’interno ma non avrei saputo dire che cos’erano. Quello che era certo è che lì non c’era nessuno.Guardai la maglietta granata che nonno Fredo mi aveva dato e cercai di ricordare le sue parole: “Ti aiuterà… Ti porterà fortuna…”“Certamente” pensai, “certamente…” e provai a farmi coraggio.L’ingresso era davvero basso però per fortuna era abbastanza largo anche per la mia mole. Così chinai la testa e con la mano libera mi aiutai ad avanzare tra gli spuntoni delle rocce che mi si conficcavano da tutte le parti. Dopo una decina di passi il soffitto divenne più alto e la caverna si allargò tanto che potevo camminare con le braccia larghe. Feci alcuni passi e mi fermai. Rimasi in silenzio. I rumori che avevo sentito prima di entrare si sentivano ancora più distintamente. Erano strani e c’era qualcosa di metallico in mezzo. Mi strinsi forte nella maglietta e proseguii seguendo la curva della miniera. Ogni tanto tra le rocce per terra mi capitava di inciampare in tratti di traversine di ferro. Puntando la pila vidi che si trattava di vecchi binari arrugginiti mentre dalla roccia umida un paio di gocce mi caddero sulla faccia e sugli occhi.Avevo un gran voglia di andarmene. Chi me l’avesse fatto fare di essere ancora lì non me lo spiegavo se non la possibilità di riuscire a umiliare Asso per una volta nella vita. Poi pensai alla miniera stregata, a quello che si diceva. Pensai a nonno Fredo e soprattutto ad Angela che era là fuori ad aspettare…Così tirai dritto inoltrandomi sempre più in profondità fino a che fui costretto a fermarmi. Illuminai bene con la pila e tastai con la mano. C’era qualcosa di strano. Guardai meglio: si trattava di una porta di legno quasi nuova. La porta era socchiusa e dietro s’intravedeva una luce fioca e da lì si sentivano delle voci. Parecchie voci.Mi avvicinai di più, feci per spingere piano la porta e a quel punto qualcosa mi prese e mi trascinò all’interno.
Mi è difficile dire di non aver provato spavento. Certo. Ma mi è ancora più difficile spiegare ciò che ho visto dopo quando ho riaperto gli occhi: ero al fondo della galleria ma qui nulla era diroccato. Quell’ultimo breve tratto era stato rimesso in ordine. Pali nuovi, luce e per terra tutto era stato ripulito. Era come vedere un’antica stanza ricavata nella roccia. E qui, un gruppo di distinti signori che seduti comodamente a un tavolo mi stavano osservando con aria compiaciuta. Non riuscivo a crederci.Sul tavolo c’era una vecchia radio di legno di inizio Novecento da cui gracchiava una voce. Accanto alla radio c’era mio nonno Fredo che se la rideva e mi guardava come fossi stato l’eroe di tutta la sua vita. Lo fissai sbalordito e quando sentii la sua voce calda e distesa tutto cominciò ad apparirmi sotto una luce diversa. Come a volte capita, ebbi all’improvviso la più chiara delle spiegazioni. Per me che ero un ragazzino…«Ciao Fulvio… allora l’abbiamo fatto scappare il tuo amico Asso, vero?»«Beh… direi di sì, nonno.»«Bene, bene. Allora ti piace qui?»«Sì… ma… cos’è qui?»«Vedi, agli inizi del ‘900 questa miniera, come hai notato, è crollata ed è stata chiusa. Più nessuno è venuto qui ma noi…» e indicò le quattro persone sedute al tavolo, «non volevamo dimenticare i nostri padri che ci hanno lavorato fino all’ultimo.»Annuii.«Un giorno, pochi anni fa, abbiamo deciso di venire qui per costruire qualcosa che li ricordasse per sempre.»«E l’avete fatto?» chiesi.Nonno Fredo sorrise: «Abbiamo fatto due cose.» Con la mano indicò il fondo della galleria. C’era una larga mensola di pietra scolpita a mano. Su un letto di stoffa granata erano posate alcune fotografie illuminate da luci colorate. Accanto c’erano tanti piccoli oggetti personali.«Quando abbiamo deciso di portare qui anche quella radio» quella sul tavolo, precisò nonno Fredo «che era di mio padre ed era quella che usava per ascoltare le partite del suo Torino, non avremmo mai immaginato che qui sotto potesse funzionare. Fuori non prende niente. Qua sotto senti tutto…»Mi fece sedere accanto a quella radio e sentii per davvero la voce del cronista sportivo. Era l’ultima partita del campionato ‘79-’80 e il Torino stava giocando a Bologna per finire meglio che poteva il campionato. Ascoltai insieme a loro qualche azione di gioco e non so se per fortuna o che, forse per la maglia che portavo addosso, quella che mi aveva dato nonno Fredo, mentre ero lì Graziani realizzò il suo secondo gol. Esultammo insieme, saltammo e ci abbracciammo come ragazzini (nel qual caso per me era proprio così…)«Noi vogliamo ricordare i nostri genitori anche in questo modo» fece a un tratto nonno Fredo con gli occhi che gli brillavano. Forse anche per qualche lacrima. «Credo siano contenti di ascoltare tutte le partite qui con noi» e con gli occhi indicava le fotografie. «Soffriamo e ridiamo insieme. A volte piangiamo ma questa è la vita.»Mi rivolse un sorriso amaro. «A volte sono convinto che siano proprio insieme a noi… A volte sono convinto che l’abbiamo voluto loro… tutto questo.»Quel pomeriggio il Toro vinse 2-1 e finì al quarto posto in classifica.Quel pomeriggio lo ricorderò per tutta la vita insieme al sorriso malinconico di nonno Fredo, a quello dei suoi amici. E quello di chiunque fosse stato lì in quel momento.«Mai nessuno è riuscito a scoprire questo posto?» gli chiesi mentre stavo per andare via.«Le nostre voci, quella della radio e le nostre ombre giocano strani scherzi qua dentro…»Pensai alla fuga terrorizzata di Asso e non ebbi più alcun dubbio sulla “leggenda della miniera stregata”.Quando uscii fuori, come mi aspettavo non c’era più nessuno. Neanche Angela.
Sono passati tanti anni da allora. Non sono più “Cisterna”, nel senso che sono diventato perfino troppo magro. E anche i capelli un po’ se ne sono andati. Ma io, dentro, sono rimasto lo stesso.Mio nonno Fredo non c’è più e dopo la morte di nonna Celestina la casa in montagna l’abbiamo venduta. Proprio l’altro giorno ci sono passato davanti e ho visto che l’hanno buttata giù e sopra ci hanno costruito un bel Pub alla moda con la musica hip-hop e l’aperitivo la sera. Credo trasmettano anche le partite di calcio via satellite.Della miniera stregata invece se ne parla ancora, proprio come tutte le vere leggende.Ho posato l’auto in piazza e ho fatto un giro per tutte le strade del paese accorgendomi di non riconoscere più niente. E allora mi sono domandato se sono io quello che è cambiato o se è tutto il resto che è cambiato mentre io sono rimasto fermo al palo. Mi sono guardato attorno e mi è venuta voglia di scappare. Però non l’ho fatto. Prima volevo ancora delle risposte a domande che da tempo mi giravano per la testa.In fondo è per quello che sono tornato qui.Ho camminato per un po’ in paese chiedendo se qualcuno si ricordava di un ragazzo soprannominato Asso: tutti hanno alzato le spalle.Poi ho provato a fare un altro nome e mi hanno indicato una trattoria lungo la strada, poco fuori il paese. L’ho trovata subito, mi sono seduto al tavolo e all’improvviso ho capito di essere a casa.«Cosa desidera mangiare?»«Che cosa mi consiglia?»La padrona del locale mi guardò incuriosita. Era una donna longilinea e attraente. Era la stessa che ricordavo, solo con qualche anno in più.«Tu sei…» fece.«Sì» risposi laconico. «Come mi hai riconosciuto?»Sorrise e mi indicò la maglietta che indossavo. Quella granata che mi aveva dato nonno Fredo quel giorno. L’avevo messa… non ricordavo neanche perché.«Come stai?» le chiesi. Ero imbarazzato ma molto meno di tanti anni prima.«Bene. E… tu?» si sedette accanto a me. Quando la cameriera mi posò accanto il cestino del pane un paio di briciole mi caddero sul braccio. Lei allungò la mano e me le tolse con delicatezza:«Scusa. A volte lei è un po’ grossolana.»Le sorrisi. Parlammo per un po’ finché chiese quello che mi aspettavo.«Senti Fulvio, ma… che cosa hai visto davvero quel giorno dentro la miniera? Nessuno lo ha mai capito…»La guardai. Era davvero bella.La verità a volte può essere doppia e ci sono verità che non possono essere dette. Alcune verità sminuiscono il senso di molte cose. E alcune di queste cose sono quelle che ci fanno vivere dando importanza a ciò facciamo ogni giorno.Una verità non l’avrei mai detta e sarebbe scomparsa con me. L’altra verità l’avevo di fronte.«Beh. Ho visto qualcosa di straordinario» dissi.«Oh, e che cosa?»«Tu.»
Massimo Ellena è nato a torino nel marzo 1968. Accanito tifoso del Toro, probabilmente da prima della nascita, ha al suo attivo due romanzi ("Oltre le colline del cielo" e "Fino alla 24ma luna" - editi da Elena Morea Editore) che hanno riscosso un notevole succeso di critica e pubblico.
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