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La porta che non c’era

La porta che non c’era - immagine 1
di Mauro Saglietti
Redazione Toro News

Non tutte le estati finiscono con il sapore amaro delle cose che svaniscono.Almeno non per me.E sono sicuro che se non fossi stato così curioso e malato di Toro, questa vicenda non sarebbe mai stata scritta.E’ una storia che ha inizio col colore dell’uva che comincia a diventare scura, quando verso la fine di agosto ti accorgi che la tua mente è piena di dolce e matura malinconia, prosegue col sapore pieno dell’innamoramento e dell’amicizia, ed ha un retrogusto amaro dei calici barricati.E nessuno può dire quando la parole “fine“ verrà scritta.Ve ne parlerò più avanti, vedrete.

 

Ho sedici anni, e li avevo anche il 3 settembre 1978, quando il Toro giocò in Coppa Italia contro il Palermo.Non è un controsenso, sono vivo e vegeto. Ma ho ancora sedici anni.Oggi ho un amico che si chiama Marco, la sorte mi ha risparmiato qualcosa di troppo elaborato. Ci vediamo quasi tutti i giorni e lo stupisco perché so cose che lui non conosce.Dice che sono un mago che prevede il futuro, ma la realtà è molto differente.

 

Dicevo, avevo sedici anni in quel 1978, quando stavo leggendo il giornale sulle panchine di fianco alla stazione, in una mattina di fine agosto, e vidi lei nelle panchine poco distanti, che mi sorrideva imbarazzata.Banale? No.Questa però non è, come potreste credere, la storia di un innamoramento estivo. Storie come quella si consumavano come cerini in quegli anni, tra i miei coetanei.Questa è la storia di un dramma.

 

Quanti anni sono passati dal 1978? Ho perso il conto. Quando hai sedici anni il tempo non ha significato, e quando li hai per tutta la vita, meno ancora.Avevo trascorso la lunga, la lunghissima estate come al solito in montagna, nella casa della mia villeggiatura.Avevo un amico, Franco. Un grande amico. Ci conoscevamo da sempre. Uno di quelli che si trovano una volta sola nella vita, se si è fortunati.

 

Sin da giugno avevamo trascorso le giornate lentissime e pigre al fiume, tentando di far rimbalzare i sassi piatti sulla superficie dell’acqua, ci eravamo arrampicati con le bici da cross, pesanti come la ghisa, fino al colle che si affacciava sulla valle vicina, avevamo speso pomeriggi interi giocando a pallone, divertendoci con il gioco che chiamavamo “Chiusa”. Un punto il gol al volo di piede, due quello di testa, tre di ginocchio, quattro di tacco etc.Il Toro era un distante precampionato ovattato.D’estate si staccava veramente da tutto quello che era stato calcio. Tre mesi senza nulla, amichevoli poco importanti a parte. A fine agosto si attendeva con ansia la Coppa Italia, fatta di gironi a cinque squadre.Ma, come vi ho detto, quella fu un’estate speciale, non solo per il pallone che rotolava. Sedici anni cominciano ad essere nulla se non fai volare i sogni e la fantasia dietro i capelli di una ragazza sfuggente.Fu quello che capitò.Eravamo come fratelli, ma commettemmo l’errore di innamorarci entrambi della stessa ragazza.

 

Non sto a narrarvi il perché e il per come, a quell’età le storie erano fatte di lunghi appostamenti e di goffi pedinamenti che avevano come risultato il silenzio.Quella ragazzina aveva qualcosa che la distingueva dalle amiche ciarliere e fanfarone.Non ho più dimenticato il suo sguardo, a metà tra la bambina e la donna, che all‘epoca mi sembrò malinconico.Forse era il senno di poi. Forse una triste premonizione.

 

Non c’era competizione tra me e Franco. Sapevamo entrambi, coi nostri modi inesperti, quanto lontani fossimo dal mondo femminile.Ci scherzavamo su, e vivevamo di sguardi.Quando, verso la fine dell’estate, riuscimmo a conoscerla, fu uno scontro fortuito, dietro le Poste, terminato con uno strano sorriso reciproco.Trascorremmo le giornate che ci separavano dalla fine delle vacanze sulle panchine nei giardini della stazione, ignorando l’amica che portava perennemente con sé, persa anche lei in chissà quali fantasie non ricambiate, e saltammo a pie pari molte partite dei nostri tornei.

 

Io o lui? Lui o me? Agosto fuggiva e sarebbero rimaste ancora due settimane per tentare di avvicinarsi a quel bacio che, nel nostro immaginario sarebbe stato dato alla stazione, un attimo prima di salire sul treno che ci avrebbe riportato a Torino.Si viveva di amore puro, senza neppure conoscerlo, le antenne puntate verso il futuro.Spesso restavamo seduti a parlare sulle panchine per interi pomeriggi. Altre volte tacevamo, guardando la gente passare e i treni che scomparivano nella galleria.Nell’aria si respirava il piacere di esserci ed una fragile armonia che sapeva di ballata a più voci. Era fantastico essere presenti alla propria vita, comunque sarebbe andata a finire.Franco…, il mio amico Franco… è morto alla fine di questa storia maledetta, che era nata come un‘avventura. Se ne è andato.Ma questa è solo una parte del dramma.

 

Una sera Franco si attardò a casa mia, abitava nella casa accanto, che si affacciava sullo stesso cortile, e di lì sul bosco. Nonni e parenti vari erano contenti nel caso noi decidessimo di restare a casa, anziché avventurarci nella notte.Le vecchie storie nei paesi avevano vita lunga e la vicenda di un ragazzino scomparso decenni prima era ancora viva e vegeta. Si diceva che quel ragazzo fosse stato portato via dal “babau”...Il babau che sussurrava dai muri, che aspettava il tuo sonno per venirti a prendere. Il babau, ora un uomo, ora un vecchio, ora una donna dai capelli bianchi. A turno ognuno poteva diventare il male. Storie che terrorizzavano i bambini ma che in noi lasciavano soltanto un rivolo di lontana inquietudine.Così, mentre i miei nonni si coricavano presto, noi avevamo l’abitudine di restare sul balcone a filosofeggiare guardando il profilo dei monti immersi nel buio, indicando nella notte la direzione della casa della ragazza malinconica.La fine dell’estate in montagna era una sensazione particolare, ti avvolgeva senza che tu te ne accorgessi. Era un pensiero triste che arrivava quando ancora si era nel pieno della stagione. Era un’ombra strana che ti sorprendeva per la sua quiete.Era il calore morbido del sole verso le sei, o quel senso di acquietarsi lento, che, a mano a mano che i giorni passavano, trasmetteva malinconia, non solo per l’estate che scorreva, ma anche per quello che avevi fatto e che non avresti potuto fare in eterno.- Quanto sarebbe bello poter fermare il tempo! - dissi al mio amico, che annuì in silenzio.Una vita da vivere sempre nel medesimo luogo, senza invecchiare mai, senza l’ansia del tempo che ti portava via le cose belle.Andammo a vanti così a lungo, seduti sul balcone che ci regalava un paesaggio scuro e sonnolento, poi decidemmo di tornare in casa, passando da quella che era la mia camera.Mi immobilizzai, raggelato.- Franco… - dissi degluttendo.- Che cosa… - sparò lui, incespicando dietro di me - Che succede?- Guarda là… - parlavo con fatica- Che cosa?- Là…In mezzo alla parete, poco distante dal mio letto, era comparsa una porta.

 

- Ma che roba è quella…? - Franco era alle mie spalle, ma avrei giurato che il mio amico si fosse fatto bianco come un lenzuolo, come probabilmente ero diventato io.Era una porta.In tutto e per tutto simile alle altre porte di legno della vecchia casa.Soltanto che… non c’era mai stata.Oltre quel muro c’era sempre stato un corridoio.Mi avvicinai incredulo.Uno scherzo. Doveva essere uno scherzo. Mi stropicciai gli occhi e chiamai ad alta voce i nonni, che dormivano nella stanza accanto, ma nessuno rispose.Tremavo, ma, non so come, riuscii a mettere la mano sul gelido metallo della maniglia.Tutte le porte si aprivano verso l’interno della casa. Quella si aprì verso l’esterno.

 

Soltanto allora mi resi conto di quanto ero stato incauto. Cosa avrei potuto trovare oltre quell’uscio, avvolto nella foschia delle cose indefinite? Un mostro? Un malintenzionato…? Un animale selvatico…?Non vidi nulla di tutto questo.Di fronte a noi si parò un muro dipinto nello stesso colore di quello della casa e sulla sinistra una scala che scendeva verso il basso, fino ad un pianerottolo sul quale pendeva tremolante una lampadina accesa.Alla destra del pianerottolo, le scale scendevano ancora.Sul pianerottolo inferiore era appeso un quadro dai colori vivaci, che rappresentava un paesaggio montano. Nulla di quell’ambiente irreale scale comunicava sensazioni sinistre.- Questa è bella - risi tra me, istericamente. Mi chiesi stralunato se i nonni avessero mai potuto celarmi l’esistenza di una porta segreta… Ma no, era impossibile! Affittavamo quella casa estiva da quando ero nato e quella parete era sempre stata spoglia… Mi sentii vittima di un sogno. Dove conducevano quelle scale? Cosa avremmo dovuto fare? Scendere o sbarrare l’uscio fantasma?Mi voltai verso Franco, lessi spavento e incredulità dietro le sue lenti.Poi un colpo secco, un tonfo.Mi voltai di scatto verso la porta.Non c’era più. Era rimasto soltanto il muro verdolino.Scomparsa senza neanche una crepa nell’intonaco.

 

I ricordi si sovrappongono, scappai a chiamare i nonni, probabilmente. Tutto si fa confuso.Il ricordo seguente è quello della mamma di Franco, che chiamava il figlio ad alta voce.Erano le due di notte. C’eravamo addormentati sulle nostre sedie sul balcone. Era stato solo un brutto sogno e quella porta non era mai esistita.Occorsero un paio di giorni, prima che raccontassi al mio amico quello strano incubo, ma la sua espressione, mi fece capire che sarebbe stato meglio tacere.- Anche io ho visto quella porta l’altra sera e credevo fosse un incubo…Eravamo stati coinvolti dallo stesso sogno nei medesimi istanti.Una terribile coincidenza.Vivemmo tre giorni nel terrore, nei quali lanciai occhiate stralunate alla parete verde, poi la ragazza dagli occhi malinconici ebbe la meglio su di noi e della porta non rimase che un buffo ed inspiegabile ricordo.

 

Furono giorni di parole e occhi negli occhi.Vincendo una timidezza massiccia davvero quanto un muro, varcammo la soglia del coraggio.Fui io a prendere la mano della ragazza malinconica per primo. E Franco, il goffo Franco, amico perdente di mille battaglie, sul quale non avrei mai scommesso una lira, fece altrettanto, dall’altra parte della panchina. L’amava! Oh quanto doveva amarla! Ma l’amavo anche io, maledizione! E non avrei saputo rinunciare a quelle parole non dette, che insegnavano più di cento libri. In tre, mano nella mano senza dire una parola, per ore. Fu la storia di quell’estate. Una storia a tre, nell’attesa di un suo cenno.

 

Quando i giorni di agosto stavano imboccando la scala a chiocciola in direzione di settembre, i nonni tornarono a Torino per alcuni giorni, causa esami medici.- Sei sicuro di riuscire a stare da solo senza aver paura?Alzai le spalle da uomo navigato. Non potevo lasciare il campo al mio amico rivale e non ricordavo più lo strano episodio capitato poche sere prima, anzi, quella notte mi addormentai sperando che certi momenti belli non si volatilizzassero e diventassero eterni.

 

Un sussurro in piena notte.Pregai fosse un altro sogno.Qualcuno sussurrava il mio nome.Diventai di ghiaccio, rannicchiato sotto le coperte, per qualche istante.Sentivo l’aria gelida scorrere sopra le mie lenzuola… ancora qualche istante e degli artigli mi avrebbero afferrato.Avevo lasciato, cuor di leone, la luce accesa.Con l’energia del disperato, scaraventai via le coperte.Qualsiasi cosa fosse stata, l’avrei affrontata.La porta nel muro.Era di nuovo lì, ed era aperta.Qualcuno mi chiamava da quelle scale.

 

Non so come, ma trovai la forza di raggiungere l’uscio.Il mio nome. Era una voce rassicurante, da oltre il pianerottolo.- Vieni giù… - diceva sussurrando strascicata.Abbrancai la porta e la scaraventai contro il battente, chiudendola. Spinsi, spinsi con tutte le mie forze, Sapevo che era soltanto la mia immaginazione a creare quelle allucinazioni.Ancora poco e sarebbe scomparsa.E invece quella volta non se ne andò via.Alle 4, era ancora lì, alle 4:30 era ancora lì…Alle 5 lentamente l’uscio si riaprì da solo, lo guardai terrorizzato.Era ancora buio, scappai dalla casa con le urla strozzate e mute, e mi gettai nell’umidità, mai così confortevole.

 

Quando Franco mi trovò, erano le nove di mattina passate da un pezzo.Mi ero addormentato su di una panchina del portico del cortile e la schiena mi doleva per la posizione innaturale.Gli spiegai tutto, e gli chiesi di salire con me in camera, ma già sapevo, come fu che non avremmo trovato nulla, una volta varcata la soglia. E così fu.Chi poteva dire se il sonno o la confusione mentale dettata dai miei sentimenti convulsi di quei giorni, non sovvertissero l’ordine delle cose, facendo apparire reale l’immaginario e viceversa?Trascorremmo un inquieto pomeriggio con la nostra bella, in attesa del giorno della scelta, che tardava ad arrivare, quindi per la notte decisi di chiedere ospitalità al mio amico.

 

Trovai la forza di ritornare in casa soltanto il pomeriggio seguente e mi feci accompagnare da Franco.La porta c’era di nuovo. Era aperta.Ci guardammo disperati. Non era più un sogno, se mai lo era stato.Udimmo le nostre voci. Qualcuno ci stava chiamando.Fummo tentati di darcela a gambe ancora una volta, ma l’attrazione illogica che quel mistero esercitava su di noi, e la voglia logica di dare una spiegazione razionale e liberarci dai fantasmi, ebbero la meglio.Impiegammo due ore a deciderci ad entrare.Era il pomeriggio del 27 agosto 1978.

 

Fui io a fare strada, tremando e armato di un pesante mattarello, che i nonni custodivano in cucina.Lasciammo la porta aperta e scendemmo quelle scale di legno dall’aroma del passato.Sentii i pensieri confondersi e diedi la colpa all’aria forse stantia degli scalini.Giungemmo al pianerottolo e sbirciai oltre l’angolo con il mattarello pronto.Un’altra rampa di scale scendeva verso un lungo corridoio, illuminato da lampadine, del quale non era possibile scorgere la fine.Ai muri erano appesi quadri che raffiguravano montagne, baite, laghi azzurri nelle cui superfici si riflettevano i profili di alte cime innevate.Il mio amico ed io percorremmo quel lungo corridoio guardandoci spesso alle spalle senza parlare.Le nostre scarpe scricchiolavano all’unisono sul pavimento di linoleum, lucente come se fosse stato appena spazzato.Poi finalmente il soffitto mutò.Il corridoio diventò un intreccio di biancospini, un tunnel di piante nel quale si intravedeva una luce lontana.Ci mettemmo a correre senza più guardarci alle spalle, chiedendoci dove sarebbe sbucato quel lungo passaggio segreto.A poco a poco, rumori familiari giunsero dall‘imboccatura, quasi mi parve di udire il fischio di un treno.Non c’era nessun mostro al termine dell’arco di foglie. Sbucammo attoniti nei giardini della stazione, proprio dietro a una siepe che separava i binari dalle aiuole. Nessuno di noi due aveva mai immaginato che lì dietro si potesse nascondere un passaggio.Non facemmo in tempo a stupircene.- Ce ne avete messo ad arrivare, è da una vita che vi chiamo…Trasalimmo e ci voltammo spaventati e sospettosi. Era appoggiato all’esterno del tunnel di foglie. Un ragazzo come noi, con i capelli stirati e la montatura un po’ spessa e fuori moda e una stampella con la quale si sosteneva dalla parte sinistra.- Chi... chi sei? – mormorai. Tutto era strano, i pensieri assurdi e confusi. Perché mai un tunnel segreto ci aveva portato per chilometri fino ai giardini della stazione? Chi l’aveva costruito e.. come faceva quella porta ad esistere se…?- Ciao, sono Cesare. Era da tempo che volevo conoscervi… - tese la mano libera dalla stampella, ma noi la ignorammo. Franco annusò l’aria frizzante. C’era qualcosa che non andava, me lo comunicò con gli occhi. Era un posto giusto ma… sbagliato.Impauriti tentammo di allontanarci percorrendo qualche metro in direzione delle aiuole. - C’è un solo modo per tornare – disse Cesare, rimasto appoggiato al tunnel – ed è di qua…Improvvisamente avrei voluto non essere mai passato attraverso quella porta. Il ragazzo aveva ragione. Costava fatica allontanarsi da quel luogo, come se un elastico ci stesse riportando verso il tunnel.Senza bisogno di parlare, tornammo indietro e imboccammo frettolosamente il passaggio tra le foglie.Cesare ci fermò con una mano: stasera si giocherà Torino-Cesena. 3-1 per il Toro. Segneranno. Pulici e Graziani due volte. Potete andare ora… - guardò altrove e si accese una sigaretta.Aveva pronunciato quelle parole con glaciale sicurezza, che ci atterrì.Scappammo come pazzi dentro al tunnel di biancospini, poi nel corridoio del linoleum ed infine attraverso le scale, senza mai prendere fiato.Fu solo quando chiudemmo la porta alle nostre spalle, che trovammo il coraggio di guardarci negli occhi.

 

Quel pomeriggio fu un problema riuscire a parlare con la ragazza. Le stringemmo semplicemente la mano e forse lei percepì la nostra confusione.- Ho fatto un sogno su di te – mi disse dolcemente, ma io neanche la ascoltai. La mia mente volava alle immagini della mattina e allo strano ragazzo con la stampella.A sera, una volta tornati a casa, io e Franco trovammo il coraggio di parlarne.- E’ successo veramente? Abbiamo sognato?La porta era sempre lì. Quella notte spostai l’armadio contro di essa, per tentare di dormire, mentre l’estate sfioriva col gusto aspro di una grappolo colto troppo presto.

 

 Fui svegliato la mattina seguente dai colpi sulla porta di ingresso.- Guarda! – disse Franco trafelato, irrompendo con la prima pagina di un giornale sportivo in mano.Il Toro aveva davvero battuto il Cesena per 3-1 ed avevano segnato proprio Pulici e due volte Graziani.Maledicemmo quello che avevamo visto e ci giurammo vicendevolmente che avremmo cancellato gli eventi di quei giorni dalla nostra memoria.Ma riuscimmo a stare distante dall’ennesima stranezza solo per un paio di giorni.Eravamo di fronte a un buco della logica che andava affrontato.Rimuovemmo il pesante mobile. La porta era rimasta al suo posto e non era più scomparsa.Sgattaiolammo oltre verso l’universo ovattato che celava, giù per le scale, lungo l’interminabile corridoio ed infine sotto il tunnel di biancospini.Era il 30 agosto 1978.

 

- Siete tornati per sapere cosa farà il Toro? – ci chiese sarcastico.Cesare stava fumando seduto su di una panchina e guardava assente la ferrovia, la stampella appoggiata al suo fianco.- Mi avete fatto aspettare a lungo… comunque vi anticipo che stasera vincerà a Brescia 1-0…- Chi sei? Cosa vuoi da noi? Che posto è questo? Perché ci hai chiamato?Una signora ci passò di fianco, quasi ci urtò col passeggino che stava spingendo.- Hey! Disse il mio amico.- Non possono vedervi – rispose Cesare. Solo io posso farlo – disse quasi con noncuranza, spegnendo la cicca col piede. - Bene! Immagino abbiate bisogno di risposte, andiamo, venite con me.Lo seguimmo come ipnotizzati da quell’aria esuberante. La vita tutto intorno continuava normale, ma nessuno sembrava essersi accorto di noi.Ci condusse poco distante, di fronte al vecchio cinema, chiuso da anni.- Non muovetevi e date un’occhiata senza spaventarvi ci disse autoritario.Quello che vedemmo, dopo qualche minuto, ci paralizzò.

 

Vedemmo noi stessi, Franco ed io, che camminavamo in direzione del cinema.Eravamo noi, le nostre copie perfette, vestiti in modo leggermente diverso. Compresi solo allora che valicando la porta avevamo messo in gioco qualcosa più grande della logica.Da una via laterale sbucò la ragazza malinconica.Vide i nostri “doppi” e prese entrambi per mano.Poi il terzetto si allontanò in direzione dei giardini della stazione.Come statue di sale incredule, il mio amico ed io ci voltammo verso Cesare.Sogghignava. – Ancora non avete capito, vero?

 

L’edicola era distante qualche metro. I giornali ripiegati erano in bella mostra coi loro titoli. Il Toro aveva battuto il Brescia, si diceva. Eravamo stralunati, usciti o entrati nel mondo della fantasia.- Guardate la data, non il titolo… - disse Cesare.Sbiancammo ancora una volta la data era quella dell’31 agosto, l‘indomani.Cesare rideva, quella storia sembrava divertirlo: - Eh eh, siamo nel giorno dopo ragazzi. Benvenuti…

 

- Vi ho chiamato perché vi ho sentito parlare del tempo, della voglia di fermarlo… e poi… sono così solo…- Sei tu che parli attraverso i muri? – chiesi spaventandomi della strana tranquillità della mia voce in quel folle universoCesare annuì.Eravamo seduti in una delle panchine all’ombra. Un treno ripartiva fischiettando con il suo carico di persone verso la galleria.Eravamo stravolti. Non era un sogno e non lo era mai stato. Guardavamo la siepe con la voglia di scappare via da quel mondo sbagliato. Soltanto la speranza di una spiegazione ci teneva ancorati in un tempo che non era il nostro.Cesare… più lo guardavo, più mi ricordava un ragazzo che avevo già visto, ma non ricordavo luogo e situazione.- Cosa ti fa pensare che noi domani saremo là, di fronte al cinema… ? Potremmo essere altrove… potremmo dimenticarci… - insinuò Franco.Cesare si accese un’altra sigaretta appoggiando la stampella alla panchina – Oh, voi ci sarete eccome. Non avete visto la scena prima? Eravate là. Vuol dire che voi domani sarete là. Questo è il giorno dopo. Qui potete vedere tutto quello che capiterà… - Chi sei tu? Come sei finito qua? – gli chiesi sperando di dare un senso. Lasciò cadere la sigaretta a terra, appena accesa, ed il suo sguardo si perse nel vuoto – Io… non lo so. Non lo so più… So solo che c’è un solo modo per tornare indietro… è una frase che mi è stata detta tanto tempo fa…- Se questo non è il tuo mondo, perché non torni nel nostro attraverso il tunnel? Perché vivi qui?Scosse la testa. C’è un solo modo per tornare, ma non è quello… - la sua espressione si fece severa – Andate ora! Tornate quando volete, ma… ora andate!Pregai, mentre ci infilavamo nel tunnel di biancospini, che tutto quello avesse fine.

 

Ci svegliammo a casa di Franco. I viaggi attraverso la porta si portavano sempre, come corollario, la spossatezza fisica. Corremmo verso il paese, eravamo in ritardo all’appuntamento con la ragazza, che ci aspettava pazientemente sulla stessa panchina che nel giorno dopo avevamo impegnato con Cesare.Tutto era confuso. Lei mi parlava di un sogno, ma avevo i pensieri della logica erano in bambola. Cercai conforto nella sua mano e Franco fece altrettanto.

 

Era tutto vero, il Toro aveva vinse 1-0 a Brescia, gol di Pulici e i giornali erano esattamente come li avevamo visti il nell’universo in anticipo di Cesare.- Che facciamo? – chiesi al mio amico nel cortile di casa. – Perché proprio a noi?I suoi genitori avevano cominciato fare domande sul fatto che si comportasse in modo strano, mentre io non avrei dovuto rendere conto a nessuno ancora per qualche giorno.- Molliamo tutto – rispose – Questa storia è folle. Per qualche motivo si deve essere aperto quel varco e noi… Andiamocene! Torniamo a Torino…!- Ce ne andiamo anche da lei?Batté un pugno sul tavolo del porticato.L’amava, l’amava troppo. Anche questa fu la causa del dramma.Cesare era imprigionato nel suo mondo, noi eravamo incatenati in questo, tenuti al laccio dall’amore per una ragazza triste.

 

Cesare mi ricordasse qualcosa che avevo visto.Feci mente locale. Le cantine della casa contenevano vecchi album di foto delle nostre vacanze estive. Per quella mattina mi separai dal mio amico e spulciai i vecchi archivi, spostando pile di giornali che dovevano essere vecchi quanto Noé, ma non trovai traccia dell’immagine di Cesare.

 

Durante i giorni seguenti diventammo amici.Non potemmo resistere e tornammo da Cesare, per il gusto di vedere quale fosse il nostro domani, perché tutto diventò un gioco. Un gioco da pazzi. Un sottile piacere sapere in anticipo che cosa avesse fatto il Toro.Il 3 di settembre ci intrufolammo nuovamente oltre la porta. Mi attardai a guardare i titoli dei giornali, mentre Franco e Cesare confabulavano in maniera serrata e sobbalzai leggendo che il toro era stato sconfitto in casa 1-3 dal Palermo.Mi voltai per dare l’inaspettata notizia a Franco ma lui stava continuando a parlottare con Cesare.Cesare, Cesare, dove ti avevo visto? Dov’era l’immagine impressa nella mia memoria?Mentre pensavo, scorsi la ragazza malinconica, nel giorno dopo.Strano l’indomani a quell’ora avremmo dovuto essere tutti insieme, come mai era sola?Non ci feci caso. Mi soffermai sui suoi dolci lineamenti che avevano contrassegnato l’estate più bella della mia vita.L’ultima estate.

 

Il mattino seguente, 4 settembre, decisi di tornare a frugare in cantina. Lasciai perdere gli album di fotografie e, mentre spostavo un vecchio baule, la mia attenzione fu attirata da un gruppo di copie del giornale locale risalente agli anni ‘50. Ricordavo che spesso da bambino sedevo sulle ginocchia del nonno, che mi aiutava a leggere usando vecchi papiri, forse proprio quelli che avevo tra le mani.Un pensiero insano mi tornò alla mente. Cominciavo a ricordare, ma… ma tutto quello era assurdo! Sfogliai polvere e giornali facendoli roteare in aria, fin quando…Fin quando non trovai la pagina che cercavo. Ecco dove ti avevo visto, Cesare.La tua foto occupava un quarto di quella pagina.Mi misi le mani nei capelli, gridando un “Noooooo” che si perse nella cantina.

 

2 aprile 1951L’articolo parlava delle ricerche del ragazzino scomparso, quello di cui i nonni mi parlavano sempre.Tutti i tentativi avevano dato risultato negativo e del ragazzino, che per camminare si accompagnava a una stampella, non era rimasta traccia. La madre, disperata, aveva testimoniato di averlo lasciato da solo in camera sua, e che al suo ritorno, dopo 10 minuti, aveva trovato la stanza vuota.La donna affermava che Cesare fosse un ragazzo di indole buona, di animo sensibile, che spesso si abbandonava alla scrittura di poesie.Il ragazzo si era volatilizzato, si pensava ad un rapimento, ma le condizioni economiche della famiglia non erano certo floride. E poi rimaneva il mistero su dove fossero passati questi fantomatici banditi.

 

Lessi con la rabbia e l’incredulità di chi è stato abbandonato dalla ragione. L’articolo continuava elencando altri casi di sparizioni sospette di cui la vallata aveva memoria, un professore, volatilizzatosi negli anni ‘40, una anziana signora negli anni ’30 e molte altre persone. Una lista troppo grande perché fossero coincidenze.Ma prima di scoppiare nella mia pazzia, feci in tempo a notare un altro giornale. Risaliva a due giorni dopo quello che avevo appena letto. Il titolo parlava di una miracolosa riapparizione. Dopo quasi nove anni il professore che era scomparso all’inizio degli anni ‘40, aveva fatto la sua ricomparsa in paese e non voleva, o non sapeva rivelare dove fosse stato durante quei lunghi anni.Tremai. In quei giorni del 1951 era scomparso un ragazzino ed era ricomparso un uomo.Quasi un dare-avere.Ricordai di aver pensato che il babau, poteva essere un uomo, ora un vecchio, ora una donna dai capelli bianchi. A turno ognuno poteva diventare il male. Risi, risi istericamente e pieno di terrore.

 

L’articolo riguardante le persone scomparse, faceva riferimento ad una vecchia leggenda della zona.I più superstiziosi - diceva - attribuiranno anche questa scomparsa alla sempre viva storia sulla vecchia maledizione delle valli, ma le forze dell’ordine sono poco inclini a prendere in considerazione ipotesi metafisiche…Una leggenda… Da piccino possedevo un libro di leggende e storie curiose sulle valli… Impiegai un’ora a ritrovarlo, molto meno a individuare la leggenda.“Nel medioevo, una donna accusata di essere una strega, prima di essere condotta sul rogo, scagliò la sua maledizione sulla valle. I suoi figli più sensibili sarebbero stati inghiottiti dalla soglia del male e, così come lei non avrebbe potuto vedere l’indomani, chi ne cadeva sotto il maleficio, avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni imprigionato proprio nel domani, vivendo e sapendo, ma senza più presente.Fino a quando il malcapitato non fosse riuscito a fare entrare un altro ragazzo al suo posto.Rilessi, rilessi ancora, Non poteva essere vero.Fino a quando il malcapitato non fosse riuscito a fare entrare un altro ragazzo al suo posto.Fino a quando il malcapitato non fosse riuscito a fare entrare un altro ragazzo al suo posto.Corsi da Franco mangiandomi gli scalini...

 

Il mio amico non c’era, mi disse la madre, era salito da me.Fui colto da un terribile sospetto. Lasciavo sempre la porta di casa aperta, la trovai spalancata. Mi gettai in camera mia.L’uscio del male era aperto. Franco doveva essere entrato da solo.Mi gettai al suo inseguimento.Dovevo salvarlo da Cesare.

 

Sbucai oltre la siepe dopo aver corso per tutto l’interminabile corridoio.Urlai, chiamai il suo nome. Ma Franco non c’era.Perlustrai i giardini e finalmente lo vidi.Stava parlando con la ragazza triste. Lì per lì non feci caso alla stranezza.- Franco, dobbiamo andarcene… questa è una trappola... È…Non mi sentì. Anzi, cominciò a parlare con la ragazza, che stava piangendo.- No, non abbiamo ancora notizie… nessuno sa dove sia finito… ma tornerà, vedrai… - le prese la mano.- Franco…! - Lo chiamai ancora, e alla fine, compresi l’agghiacciante verità.Franco era nell’indomani. Non era mai entrato nella porta quel giorno. E io nell’indomani non c’ero…! Stavano parlando di… di… me!Mi voltai rabbiosamente verso la siepe lontana.Intravidi il volto di Cesare.Sogghignava malvagio. Poi scomparve nel tunnel.Mi gettai al suo inseguimento

 

Correvo, correvo e correvo. Ma le piante del tunnel non erano più i biancospini che avevo imparato a conoscere in quella settimana. Erano piante che si sporgevano verso di me e che sembravano crescere istantaneamente.La luce delle lampadine era fioca ed alcune non funzionavano più. Il linoleum era cosparso di foglie secche e polvere e un diffuso odore di foglie marcio mi riempiva narici e polmoni.Correvo ancora più forte, sentivo i suoi passi claudicanti non lontani e forse sarei riuscito ad acciuffarlo.Corsi ancora ma incespicai in qualcosa e ruzzolai, in un punto scuro del tunnel. Era un qualcosa di metallico. La stampella di Cesare, scagliata via e messa come ostacolo. Fu allora che il mio sguardo fu catturato dai quadri alle pareti.Le immagini delle montagne erano state sostituite da disegni raffiguranti persone dai lineamenti sofferti e contorti, i prigionieri della maledizione. Piangevano tutte. Vidi il quadro raffigurante Cesare. E poi vidi il mio, poco più avanti.Uno sguardo senza più lacrime, che mi guardava triste.

 

Ripresi a correre e mi gettai su per le scale, il rumore dei suoi passi zoppicanti ormai vicino.Arrivai al pianerottolo, la cui lampadina aveva smesso di funzionare ma fu in quel momento che udii un colpo secco che rimbombò giù per quel luogo infausto.La porta. Cesare era arrivato in casa ed aveva chiuso la porta.Feci l’ultima rampa di scale, nella semioscurità e arrivai alla fine degli scalini.Spinsi una mano per aprire la porta.Toccai il muro.Dovevo essere troppo a destra. Mi spostai senza vedere.Ancora muro. muro e muro ovunque.E fu soltanto allora che compresi e capii per intero quello che era successo.Compresi di essere stato la vittima predestinata del babau.Ed il mio urlo disperato si perse come una maledizione in quegli inferi maledetti.La porta non c’era più.Ero diventato prigioniero del giorno dopo.

 

Mi risvegliai su di una panchina dei giardini della stazione, con la schiena che pulsava per l’umidità. Fu una stanca brezza a svegliarmi.Mi sollevai dal giaciglio, la luce del sole mi indicava che doveva essere pomeriggio inoltrato.Per un attimo, soltanto per un attimo sperai che fosse stato solo un dannato e terribile incubo.La gente mi passava accanto senza degnarmi di uno sguardo. Mi alzai in piedi e li vidi.Erano seduti vicini su una panchina poco distante, lui con lo sguardo fisso negli occhi di lei, vicino, troppo vicino. Lei più triste del solito.Corsi da loro, ma il mio sorriso si raggelò quando mi accorsi che non mi vedevano né sentivano.- Non si sa ancora nulla - disse Franco alla ragazza - Io non riesco a capire dove possa essere finito… forse però…. Forse non dovrei dirtelo…- Che cosa? - disse lei speranzosa.- Franco! - intervenni sperando che potessero udirmi - Dille quello che è successo! Raccontale di Cesare!!! Perché non parli…?- Ho paura che - Franco proseguì il discorso con lei - che possa aver trovato qualche ragazza… sapevo che gli piaceva una nel paese vicino e allora …La ragazza si portò le mani al viso per nasconderlo.Le lacrime mi scendevano dagli occhi. - Sei un bastardo… - sussurrai - Sei stato tu a - tradirmi.. Ora capisco… sei un BASTARDO, UN MALEDETTO BASTARDOOO…- ricordai il discorso serrato tra lui e Cesare. Cesare che vedeva tutto e già sapeva che mi sarei messo a frugare tra i giornali. Cesare aveva bisogno di un complice, che al momento opportuno mi facesse credere di essere entrato nella porta, una volta che avessi vinto la diffidenza dei primi incontri.Un complice. Aveva scelto lui, che si sarebbe liberato del suo rivale. Cercai di prendere per il bavero, di avventarmi su di lui, ma non c’era peggior sorte per chi cercava di fare nel domani quello che non sarebbe mai riuscito a fare oggi.La ragazza, si tolse le mani dal viso, piangeva sommessamente.Franco cercò di metterle un braccio intorno alle spalle, ma lei si scostò.- Lui non se ne è andato… - disse cercando fiato tra i deboli singhiozzi - lui è imprigionato da qualche parte… -- Ma che dici? Non…- Ho fatto un sogno qualche notte fa. Avevo cercato di dirglielo, ma lui non mi ha ascoltata… Lo vedevo dietro a un muro… murato vivo da qualche parte. E ora sento che sta piangendo.. Io so che sta piangendo…Avevi ragione, ragazza malinconica. Avevi ragione Portai una mano al suo viso, anche se sapevo che non l’avrei toccato, e mi chinai per baciarle le labbra. Alla fine le diedi quel bacio che avevo aspettato così a lungo.Ma lei non lo seppe mai.- Sono tutte fantasie...  Sei stanca, vieni ti riaccompagno a casa - disse Franco.Trovai la forza di maledirlo, mentre li vidi andare via lentamente.Improvvisamente udii una voce dietro di me.- Mi spiace... - Disse.Conoscevo quella voce, ma era molto più vecchia di quanto ricordassi.Era un uomo sulla cinquantina. Per quanto i capelli si fossero ingrigiti, non potei non riconoscerne gli occhi e l’andatura zoppicante.Lui poteva vedermi. O forse sapeva che ero lì.- Mi dispiace… - disse ancora. Come vedi riprendere il proprio tempo, vuol dire perdere tutto quello che non sei riuscito a vivere… - Non riuscii a parlare e lui si fece serio - Ricorda… c’è un solo modo per tornare… ma avrai tempo per scoprirlo… - Si voltò e si avviò zoppicante.Fatti due passi però si fermò.- In fondo ora sei tu il babau…Sghignazzò andandosene. Non potrò mai dimenticare quella risata.

 

Restai intrappolato, non fui più in grado di tornare indietro.Vissi la storia della mia vita mancata senza invecchiare di un solo giorno. Io sono l’uomo del domani, quello che potete sognare qualche volta, ma che non incontrerete mai.Sono quello che vi sembra di intravedere nelle ombra che sussurra attraverso i muri.Cesare aveva detto che c’era un modo solo per tornare, e forse in quei momenti di disperazione, non avevo compreso. Poi, qualche anno fa ho cominciato a capire. Ho ricordato le voci dietro ai muri, i sussurri.Dovete sapere che la vecchia casa montana è stata ristrutturata e da un mese ci abita una nuova famiglia.Il ragazzo ha diciassette anni, è un tipo sportivo e tenta di folleggiare con una ragazza del luogo. Ma non è un truzzo e ora vanno di moda quelli lì. Non ha alcuna speranza ma ne è innamorato e ha la sensibilità per far volare i propri pensieri oltre la logica. Io cerco di fare del mio meglio, quando ci incontriamo. Lo consiglio, cerco di affascinarlo con i miei pensieri, benché io abbia solo sedici anni. Per lui sono come una specie di mago, prevedo il futuro e l’ho portato in un universo fantastico.Vi prego, non fate quella faccia. Vi avevo detto che questa storia ha un retrogusto amarognolo, vero?Certo, non è stato facile convincerlo a superare quella porta, ma alla fine ce l’ho fatta.In fondo c’è una sola strada per tornare.

 

So che penserete che, una volta fuori di qui mi metta cercare Franco.Per tutto questo tempo immobile, non ho fatto altro che pesare al modo in cui mi tradì.In effetti vi ho mentito. Vi ho detto che è morto alla fine della storia, ma in realtà… è ancora vivo.Oggi l’ho solo visto morire, ma se io vivo nel domani, significa che questo deve ancora succedere.Credo che per tutta la vita lui abbia convissuto col rimorso e abbia temuto che potesse arrivare il momento nel quale sarei tornato. Quando ha cominciato a sentire la mia voce dietro i muri ha capito.E’ fuggito, è scappato, ma l’ho sempre ritrovato, preda di una follia sempre più disperata.Oggi, nella sala dell’ospedale dove è ricoverato, mi ha visto.Ha impiegato un attimo a riconoscermi, poi il suo volto invecchiato si è vestito di terrore. Si è scagliato contro la finestra e, sfondandola, si è gettato nel cortile, un volo di 20 metri.Povero Franco.Mi ha visto. E se mi ha visto, questo significa una sola cosa. Che io domani sarò là.A vederlo morire.Se io domani sarò là, significa che oggi stesso passerò la maledizione a quel ragazzo.Lascerò i miei sedici anni ed entrerò nel mio corpo di cinquantenne, con gli anni migliori, mai vissuti, ormai alle spalle.

 

Se non fossi stato tanto legato alle mie passioni, se non avessi avuto voglia di amare più che di ricevere, forse non sarei rimasto imprigionato dietro quella porta e non avrei cominciato a rimpiangere un passato ancora prima di viverlo.Le illusioni durano il tempo di un’estate, le amicizie alle volte crollano.Si diventa cinici per sopravvivere e tra poco sarà il mio turno di esserlo, quando ingannerò il ragazzo e lo chiuderò dietro a quella porta.

 

So che vi state chiedendo se andrò a cercare quella ragazza, ricordo di un tempo futuro che non è mai arrivato.Ma sarebbe solo un modo per cedere ancora a quei sentimenti ormai lontani, che mi hanno reso prigioniero.In fondo era vero, a turno ognuno poteva diventare il male.E io sono il babau. Mauro Saglietti

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