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mondo granata
Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.
Spigoloso, schierato, politicamente non sempre corretto. Eroe sotto il balcone di Giulietta, empio a Livorno, Salerno o nella stessa Genova del Grifone che è stata la sua ultima delusione. Andrea Mandorlini è uno degli ultimi ragazzi del Fila, ma la storia l'ha fatta a Verona (e, forse sorprendentemente, in Romania). Ora è "a piedi", come si suol dire. Ed è incazzato.
Ai miei figli ripeto sempre che per noi la strada è piena di curve, di rettilinei ce ne sono pochi. Per me è stato così già da giocatore: al Toro, dopo aver giocato trenta partite a 19 anni, aprirono le porte agli stranieri, arrivò Van de Korput e allora “Mandorlini vai in prestito”; all’Inter giocavo partite incredibili, poi 5 in pagella. Ma come? La mia vita è sempre stata piena di curve, devi essere bravo a non uscire di strada.
GENOA, ITALY - APRIL 02: Head coach of Genoa Andrea Mandorlini looks on during the Serie A match between Genoa CFC and Atalanta BC at Stadio Luigi Ferraris on April 2, 2017 in Genoa, Italy. (Photo by Paolo Rattini/Getty Images)
È stato un onore essere allenato dal Trap (all’Inter, ndr). Gente come lui o Mazzone mi ha dato tanto dal punto di vista caratteriale, come uomo. È anche grazie a loro se queste curve riesco ad affrontarle, perché oggi veramente mi viene il nervoso. Dopo tutto quello che ho fatto a Verona, dopo il record di risultati utili consecutivi nella storia dell’Atalanta, dopo aver vinto un campionato di C senza mai perdere una partita, io sono a casa. Senza squadra. Non ero mai stato fermo una stagione nella mia carriera da allenatore, poi negli ultimi due anni sono stato fermo praticamente un anno su due. Sono sinceramente sorpreso.
Il Genoa è stato uno sbaglio. Mi è mancata un po’ di pazienza. Dopo Verona avrei potuto aspettare un progetto diverso, ma morivo dalla voglia di tornare ad allenare. La stagione era già molto avanti, i tifosi contestavano il presidente, forse non ero pronto io, forse non era la piazza per me. Di sicuro non sono stato accolto bene. Portavo in dote tanti risultati buoni, ma appena sono arrivato a Genova hanno sbattuto in prima pagina una frase di anni prima: “È quello che quando veniva a giocare qui con il Verona diceva ‘per noi è un derby’”. È vero, quella frase la dissi, ma all’interno di un discorso più generale. I giornalisti sono andati a spulciare e hanno puntato solo su quella. Il Verona è gemellato con la Sampdoria, per cui dissi che era un derby per caricare l’ambiente. Quando un allenatore si trova a dover fare le veci della società, come mi è capitato in alcuni frangenti all’Hellas, è costretto a esporsi.
I giornali locali riportarono alla luce anche un episodio di vent’anni prima: nel ’97 facevo il vice di Novellino a Ravenna. Il mister fu espulso nella gara prima dello scontro decisivo tra Ravenna e Genoa. Ci fu un esodo di undicimila tifosi rossoblù, perché se avessero vinto sarebbero tornati in A. Pareggiammo e quel punto non bastò a loro per la promozione. Ebbene, quando arrivai al Genoa da allenatore, scrissero “Era in panchina il giorno del misfatto”. Come fai a partire bene?
Genoa e Verona sono sempre state ai ferri corti per questioni di tifoseria. Credo che la politica influenzi in un certo qual modo le società e le tifoserie, ma a me non ha mai condizionato. Ci penso poco, pochissimo. La maggior parte delle volte si parla per sentito dire e si dicono cose inesatte, su di me è successo spesso. Quando alleni il Verona ed esci da Verona hai tanti contro e pochi pro, perché la sua tifoseria ha molte rivalità in Italia e solo due gemellaggi, pochissimi. Ho vissuto sei anni là e ho fatto tutto per salvaguardare i miei colori, la mia squadra, mettendomi anche in situazioni un po’ antipatiche. Sicuramente qualcosa ho pagato, pago e pagherò. Poi però ci sono i numeri e credo che debbano contare anche quelli.
A Verona in tre anni ho ottenuto due promozoni e un playoff. Cento punti in Serie A in due stagioni, lanciando giovani come Iturbe e Jorginho e facendo vincere titoli di capocannoniere. Poi l’allontanamento improvviso. Tra me e il presidente Setti non c’è mai stata grande stima. Sapevo che aveva già contattato altri allenatori, ma io ero amato dalla gente e ho voluto caparbiamente restare a Verona ancora un anno. Sono andato contro tutto e forse ho sbagliato. Però ho perso, nell’arco di una domenica e il successivo turno infrasettimanale, prima Toni, poi Pazzini. Alla quinta giornata, con la squadra tranquilla a metà classifica, mi sono trovato senza i due attaccanti titolari. Nel momento in cui li ho recuperati e stavano tornando a ingranare, Setti mi ha cacciato. Ora invece la squadra è penultima e dopo trenta partite l’allenatore è ancora lì. Due pesi, due misure.
VERONA, ITALY - DECEMBER 08: Head coach of Hellas Verona Andrea Mandorlini (R) and head coach of UC sampdoria Sinisa Mihajlovic before the Serie A match between Hellas Verona FC and UC Sampdoria at Stadio Marc'Antonio Bentegodi on December 8, 2014 in Verona, Italy. (Photo by Dino Panato/Getty Images)
È il bello e il brutto del calcio. Chi ha fatto qualcosa nella sua carriera viene dimenticato in un attimo, chi invece ha ottenuto molto, molto meno non si dimentica mai. Queste sono le cose che mi fanno un po’ incavolare. Voi al Toro (che ringrazio perché è stata la mia famiglia, l'inizio di tutto, a Torino ho anche conosciuto mia moglie) avete avuto uno come Mihajlovic, un sergente di ferro. Non me ne voglia, lo uso solo come esempio, ma lui non ha mai vinto nulla e continua a essere trattato bene dai media. Da allenatore non ha raggiunto nessun traguardo, dove è stato lo hanno spesso mandato via eppure parla come se avesse vinto i Mondiali, con questa spavalderia, con questa arroganza. Io non credo di essere mai stato arrogante nelle mie dichiarazioni, però dicono che ho un carattere difficile. Non credo sia vero, se mi conosco un po’. Mihajlovic, invece, con questo atteggiamento è considerato “uno tosto”. Qual è il metro di giudizio? I Mourinho, i Capello, gente che ha vinto titoli, posso capire, ma se leggi il suo curriculum alla voce risultati trovi solo niente - esonerato - niente - niente - cacciato - niente”.
So che il mondo del calcio funziona così e non ne faccio una malattia. Quando ero al Sassuolo avevo praticamente la stessa squadra neo-promossa dalla C e a fine stagione ero convinto di aver fatto non bene, benissimo. Invece la società non era d’accordo, così, non appena si presentò l’opportunità di andare in Romania, la presi al volo, per pura rabbia. Al Cluj in un anno ho vinto tutto: campionato, coppa e super coppa. Unico allenatore straniero a riuscirci nella storia della Romania. La stagione successiva ero impaziente di fare l’esordio in Champions League, invece il presidente impazzì e da un giorno all’altro cambiò tecnico.
Tutte curve la mia vita. Me ne andai a fine settembre, a inizio novembre ero già a Verona per cui, in fondo, non tutto il male viene per nuocere.
Quello che su cui rifletto ora è che delle mie vittorie in Romania sanno in pochi. Mentre ero là, qui in Italia si parlava del nuovo corso di Zeman con il Foggia in Serie C che nemmeno riuscì a conquistarsi la promozione in B. E qualche anno dopo, quando il suo Pescara vinse il campionato, io allenavo il Verona e arrivammo quarti. In rosa, però, lui aveva i Verratti, gli Insigne, gli Immobile.... Si sentiva solo parlare di Zeman, “Zemanlandia è tornata”. Bah…
Il mondo è cambiato e forse dovrei cambiare anch’io. Sono un po’ all’antica, oggi conta l’immagine e io faccio un po’ fatica. Non ho Facebook, non ho Twitter, non so cosa sia Instagram. In questi mesi cerco di tenermi aggiornato, nei weekend giro molto per andare a vedere partite e provare a immaginare cosa farei se mi dovessero chiamare in quella o quell’altra squadra. Cerco di farmi trovare preparato, ma soprattutto tento di non uscire dal giro, ché è un attimo. Viaggio per incontrare addetti ai lavori, amici, procuratori. Ricordare a tutti che esisto, insomma. Un metodo un po’ alla vecchia maniera, ma sono fatto così.
Qualche trattativa c’è stata, ero in contatto con due o tre società in difficoltà. Poi hanno ricominciato a fare punti e le cose si sono arenate. In quei giorni caldi basta un risultato al posto di un altro e cambia tutto. Almeno ho portato fortuna a loro, rido per sdrammatizzare.
Mi dico di avere pazienza, ma non ce la faccio. Sono uno che deve stare in campo e mi manca, mi manca, mi manca.
Mi manca.
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