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Le Loro storie, Antonino Asta: “Sto facendo il giro largo per allenare in Serie A. Io non mi arrendo”

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Esclusiva / L'indimenticato capitano del Toro con una parentesi proprio a Napoli si sfoga: "Il mio destino è tortuoso. Al Toro ho ricevuto più affetto di quanto ho dato, è bellissimo"
Marco Parella

Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.

Il cono d'ombra spaventa, perchè ti emargina dal tuo ambiente, dal tuo lavoro, dalla tua vita. È facilissimo entrarci, basta un po' di sfortuna nei risultati o essere al posto sbagliato al momento sbagliato, ma è difficilissimo uscirne. Però c'è chi non si arrende: si chiama Antonino Asta e, dal profondo del cuore, ripercorre la sua lunga rincorsa alla Serie A. Da allenatore come da giocatore, lotta vera.

Io giro molto in questo periodo, vado a commentare le partite per la tv o semplicemente a vederle, studiare i sistemi di qualche collega, scoprire qualche giocatore giovane, incontrare persone. Devo farmi vedere, insomma, per non diventare invisibile.

Nella mia vita nessuno mi ha regalato nulla, le cose me le sono sempre conquistate da solo. Ci sono allenatori che escono dalle giovanili, fanno un anno in C e poi diretti in A o in B. Per me non sarà così, pazienza. Io rimango ambizioso anche se so che, dopo tre esoneri consecutivi, posso essere appetibile per società di Serie C, che in effetti è la categoria più alta dove ho allenato. Magari una squadra di B vuole cambiare ed è interessata a me, non metto limiti, ma sinceramente non mi aspetto più il grande progetto. Non ci credo più. E poi nel calcio di oggi, nonostante tutto quello che dicono presidenti, direttori sportivi e allenatori, la parola progetto non ha alcun significato. Il progetto non esiste nel calcio, a meno di mantenere una certa continuità. Altrimenti conta solo il risultato.

Il mio destino è quello di non seguire un percorso lineare, ma di dover prendere la via più lunga. Quando allenavo nelle giovanili del Toro auguravo a tutti i miei ragazzi di arrivare a giocare in Serie A, ma li ammonivo che “la strada non è uguale per tutti. Fate il giro largo, dicevo loro, fate il giro largo e chi ci crede davvero arriverà a destinazione”. A me è successo così da calciatore e mi sta succedendo ancora da tecnico.

Ho dovuto scalare tutte le categorie per arrivare in Serie A e ci sono arrivato tardi. I miei si trasferirono da Alcamo a Milano per lavoro e i primi tempi non fu semplice. Dovevo dare una mano in casa per cui iniziai a lavorare al bar di mio zio. Mi ero iscritto all’istituto alberghiero, ma le lezioni erano incompatibili con gli orari di un bar per cui avrei dovuto fare le scuole serali. Però di sera mi allenavo, impossibile fare entrambe le cose. Era Serie D, semi professionismo e ebbi l’opportunità di andare al Saronno. Mio zio, che era a tutti gli effetti il mio datore di lavoro, mi spronò a cogliere l’occasione e lascia il bar. Quello fu un momento chiave per la mia vita: con il Saronno vincemmo il campionato e andammo in C2. Probabilmente se non ci fosse stata quella promozione sarei rimasto a fare il barista con la massima aspirazione a giocare in D per portare a casa due soldini. Avevo il sogno di aprire un bar in centro a Milano.

Ho giocato e vinto in tutte le categorie. Gli osservatori venivano a vedermi e dicevano “si, è bravino, ma va bene per questo campionato e basta”. Sul momento io mi incazzavo, ma centravo sempre le promozioni per cui la stagione successiva comunque mi ritrovavo nella serie superiore. È stato bello farcela solo con le mie mani, è stato bello sorprendere tanti che non pensavano ce l’avrei fatta, ma non me lo dicevano in faccia.

Dopo Saronno, Monza, poi il Toro e la consacrazione prima con Reja e poi con Mondonico. Ho sempre pensato che quello che ho dato io al Toro sia molto meno di quanto i tifosi mi abbiano amato e acclamato. Io non ho mai vinto nulla di importante, non sono andato in Champions. Sono stato fortunato a trovarmi in un posto in cui le mie qualità (uscire con la maglia sudata dopo aver dato tutto in campo) rispecchiavano quello che volevano i tifosi.

La strada da giocatore è stata piena di curve prima del premio e allo stesso modo ora sto facendo il giro largo per raggiungere la Serie A da allenatore. Ho iniziato con i ragazzini al Torino, poi la Primavera. Ho raggiunto buoni risultati e speravo di essere stato notato da qualche squadra di B, invece sono dovuto partire dal Monza nella vecchia C2. Ho fatto due campionati importanti, vincendone uno (poi sfumato per penalizzazioni riguardanti la vecchia società) e a quel punto pensavo davvero fosse il momento giusto. Invece vado al Bassano, sul campo vinciamo il campionato, ma a due giornate dal termine ci affibbiano i punti di penalizzazione che erano del Novara e poi perdiamo i playoff.

Lì è cambiato il vento della mia carriera da allenatore. Venivo da tre annate importanti, avevo contatti con la B, ma alla fine torno in C con il Lecce e la mia strada da lunga, ma in discesa, si mette a salire. Esonerato dopo sei giornate in una situazione ambientale caotica. Ricomincio dal Feralpi Salò, realtà piccola, ma estremamente ambiziosa. L’obiettivo erano i playoff, noi eravamo pienamente in zona e vengo esonerato. Fu una grande delusione e tutt’ora mi chiedo il motivo. Mesi dopo riuscii a sentire il presidente che mi disse che aveva avuto paura di rivivere i fantasmi della stagione precedente (quando io non c’ero…) e che avrebbe voluto la squadra una o due posizioni più in alto. Allucinante, visto che in quel gruppo si cambiava posizione a ogni partita. Fu un fulmine a ciel sereno.

Tutto è diventato più difficile perché, senza sapere le situazioni, alla fine dei conti, io a quel punto arrivavo da due esperienze non positive. Ho aspettato un po’ e poi ecco il Teramo. Puntavamo a salvarci, eravamo tranquillamente in tabella di marcia e a gennaio arriva l’esonero. Mi richiamano per l’ultima giornata: “abbiamo sbagliato mister - mi supplicava il direttore sportivo -, ci devi salvare tu, torna per fare gli ultimi tre punti”. Non sono andato, rimettendoci anche tanti soldi. Io ho una dignità.

Ora sono di nuovo in attesa. So che il mestiere dell’allenatore è fatto anche di questi momenti, ma intanto sono di nuovo fermo. Purtroppo nel calcio attuale non contano più nemmeno i risultati o gli obiettivi pattuiti a inizio stagione. Contano i rapporti, le sensazioni….

Aspetto una squadra e ci proverò ancora e ancora. E se alla fine il mio curriculum dirà che ho allenato soltanto in Serie C, sarà giusto così, ma non vorrà dire che non ci ho provato. Io non mi appago mai, io sono questo.

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