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Le Loro storie, Attilio Lombardo: “Basta essere vice, adesso voglio una carriera tutta mia”

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Esclusiva / L'ex allenatore in seconda di Mihajlovic al Toro fa il punto su di sé e ricorda la sua esperienza: "Baselli rompiscatole, Belotti dovrebbe assomigliare più a Bonucci"
Marco Parella

Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.

Nella fatale notte tra il 3 e il 4 gennaio 2018, con le viscere dei tifosi del Toro ancora attorcigliate per il 2-0 subito e l'ennesimo episodio arbitrale sfavorevole, in sala stampa allo Juventus Stadium c'è lui. Non un Mihajlovic che "se parlasse adesso prenderebbe dieci giornate di squalifica", ma il suo vice, Attilio Lombardo, che risponde con decisione alle domande dei giornalisti e non tralascia critiche all'utilizzo del Var. Nessuno aveva percepito l'odore dell'esonero imminente per Mihajlovic, che verrà cacciato meno di due ore dopo in piena notte, ma quella conferenza potrebbe assumere un significato più importante per l'ex allenatore in seconda del Torino: potrebbe essere l'ultima da vice. L'ex sampdoriano vuole spiccare il volo. Da solo.

 

Tanti nuovi allenatori stanno salendo alla ribalta, hanno avuto la fortuna di trovare subito la strada giusta. Bravi loro, mi auguro di arrivarci anche io, ma spero che quel giorno non sia così lontano. Ho 52 anni, non vorrei diventare primo allenatore a 60.

Avevo 36 anni e mezzo quando mi infortunai  e mi operarono di ernia al disco. La Samp stava cambiando proprietà, struttura e allenatore. Mi dissero che avrei potuto rimanere a disposizione di Novellino oppure fare una scelta diversa e iniziare il percorso da allenatore. Ragionai: forse mi restava ancora un anno di carriera. Decisi di svoltare.

Quattro anni di settore giovanile in blucerchiato (tre anni con gli Allievi, uno con la Primavera), poi la prima esperienza da allenatore nella B svizzera con il Chiasso, Castelnuovo, Legnano e Spezia in C. Dopodiché Mancini mi chiamò al Manchester City come collaboratore tecnico. Tre anni in Inghilterra, poi seguii Roberto al Galatasaray e, senza pause, mi trasferii ancora in Germania al seguito di Di Matteo (allo Schalke 04, ndr). Con lui avrei anche potuto continuare, ma dopo tanti anni all’estero avevo voglia di tornare in Italia e quando Sinisa mi chiamò, colsi la palla al balzo.

Mihajlovic mi telefonò ad aprile. L’allenatore in seconda che aveva portato con sé al Milan e alla Sampdoria lo aveva lasciato, io ero fermo e fui contento di andare al Toro. Non ho mai pensato che la mia esperienza alla Juve fosse un problema perché in bianconero passai due anni bellissimi, ma da giocatore. Forse la gente avrebbe potuto avere qualcosa contro di me per aver giocato con la Samp che, sappiamo, non ha un grande feeling con il Torino, ma io non ho mai dato problemi da calciatore, non ho mai litigato con nessuno, non facevo le bizze. E forse per questo che sono stato accettato bene e senza nessun tipo di problema al Toro.

Credo di aver fatto abbastanza gavetta, ora. Ho studiato la metodologia degli allenatori con cui ho collaborato, ma soprattutto la gestione dei rapporti. Nel calcio moderno non puoi essere solo bravo e preparato tatticamente, devi saperti destreggiare tra stampa, giocatori e direttore sportivo. Se quello dell’allenatore capo è un ruolo delicatissimo, anche quello di vice è determinante per il successo di una squadra. Alcuni, per carattere, lo interpretano in maniera “chiusa”, pensando solo a eseguire ciò che viene loro chiesto dall’allenatore. Altri, come me, curano di più i rapporti con i giocatori, cercano da un lato di mantenere alta la concentrazione di chi va in campo, dall’altro di stemperare i problemi che possono nascere nell’arco di una stagione con chi gioca meno e si sente tagliato fuori.

È un ruolo che io ho sempre vissuto con molta serenità, con Mancini e Di Matteo come con Sinisa. Sono tre personalità molto diverse. Di Matteo all’apparenza sembra misurato durante la partita, ha uno stile meno “focoso” di Miha, ma nello spogliatoio è un vulcano. Io ho sempre vissuto il mio ruolo con quel trasporto quasi ancora da giocatore, però mantenendo una certa calma e rispetto dei ruoli e delle persone. Sono cresciuto umanamente e professionalmente sotto la guida di gente come Boskov e Lippi, persone molto pacate di cui mi porto dietro il modo di comportarmi. Problemi non ne ho avuti con nessuno, sono tre persone di cui conoscevo già vita, morte e miracoli: due li ho avuti come compagni per tanti anni, con Di Matteo solo in Nazionale, ma c’è sempre stata stima. Se fai questo mestiere sai che a volte ci si incazza, altre si arriva proprio allo scontro tra allenatore e vice, ma se c’è il rispetto, è sempre meglio dire le cose in faccia. Lo si fa per il bene non proprio, ma della squadra, quindi è anche interesse del primo allenatore. Non mi pento di aver lavorato con nessuno dei tre.

È vero, come si dice, che un grande calciatore non per forza sarà un grande allenatore e forse è altrettanto vero che un buon vice non è automaticamente un grande allenatore, ma l’importante almeno è che lo diventi. Non deve per forza essere un fenomeno, un Conte, un Mourinho, un Guardiola. Faccio questo lavoro per il piacere di allenare, perché mi gratifica e mi regala delle emozioni. Bisogna sudare e studiare 25 ore su 24, lo so bene. L’ho fatto nelle giovanili della Samp come in Svizzera, in Serie C come al City. Adesso ho voglia di iniziare una nuova carriera in panchina per conto mio. Se non sei pronto a 52 anni meglio tirare giù la saracinesca. Tanti hanno iniziato senza esperienza, io penso di averne fatta abbastanza. E se non diventerò un grande, vorrà dire che rimarrò nelle leghe minori, ma sempre lavorando con questo stesso spirito.

Difficile spiegare quale modulo o tattica sono la base del mio credo perché al momento non ho una squadra a cui applicarli e sono sempre i giocatori che hai a disposizione a farti ragionare su cosa è meglio. Di sicuro le mie idee si avvicinano a quelle degli allenatori che ho seguito in questi anni, ma vorrei aggiungere qualcosa di mio. Non perché le loro fossero sbagliate, ma perché in certi momenti vorresti che qualche aspetto venisse declinato in maniera diversa e se sei allenatore in seconda devi rispettare la gerarchia.

Ormai nessuno si inventa più nulla. Lo ha fatto Sacchi vent’anni fa, lo stanno facendo Sarri o Giampaolo che giocano con una linea molto alta, stretta e che guarda il pallone e non l’uomo. Sono idee innovative, ma non tutti le approvano per cui è difficile essere rivoluzionari al giorno d’oggi.

Io ho avuto la fortuna di avere una carriera da giocatore talmente ricca di soddisfazioni che l’unica cosa che mi faceva davvero incavolare erano le sconfitte. Tutto il resto era un contorno di cui non m’è mai fregato troppo. Non era nulla in confronto alla bellezza, alla gioia e alla voglia di giocare. Nel mondo del calcio che vedo oggi da allenatore, invece, non trovo più quella passione. Mi sembra che i calciatori ci tengano un po’ di meno. Al ritorno da una trasferta in cui magari hai perso, in fondo al pullman i ragazzi fanno comunque casino. Ai nostri tempi non volava una mosca. È la cosa che mi fa più incazzare da allenatore.

Vi faccio un esempio per capire la differenza: l’anno in cui giocammo la Coppa dei Campioni con la Samp andammo a giocare in trasferta contro l’Anderlecht. Fummo rimontati 3-2 e perdemmo. Alle 3 o alle 4 di notte quando tornammo a Genova e il pullman ci lasciò al ritiro, ci incamminammo verso casa. Andavamo a piedi perché molti di noi vivevano nello stesso palazzo ed era vicino. Quella particolare passeggiata me la ricorderò sempre perché eravamo tutti amareggiati e discutevamo di come e quando rifarci della sconfitta. Sapevamo di essere forti come squadra e volevamo recuperare al più presto. Volevamo giocare subito e se all’indomani ci fosse stato il ritorno lo avremmo sicuramente vinto.

Non voglio dire che i calciatori di oggi siano tutti menefreghisti. Sicuramente la vivono meglio loro di noi. Al Toro, per esempio, ho avuto un gruppo fantastico e se nella mia carriera potessi avere ancora un gruppo così, metterei la firma oggi. Oltre a essere dei buoni giocatori, sono tutti dei bravissimi ragazzi. Ci può stare che in una stagione lunga dieci mesi anche il bravo ragazzo possa sbroccare e mandarti a quel paese, ma io non posso dimenticare nessuno di quella rosa, sia di chi c’era la prima stagione, sia chi è arrivato nella seconda. E non parlo soltanto dei più visibili come Belotti o Iago Falque, ma penso soprattutto a belle persone come Rincon, Moretti, Molinaro; all’umiltà di giocatori come Berenguer che non hanno mai mollato e oggi hanno molto più spazio di allora; a un Sirigu che è arrivato e si è ridisegnato un ruolo importante nel gruppo; a De Silvestri e allo stesso Baselli, con cui, insieme a Miha, abbiamo fatto un lavoro anche abbastanza sporco per motivarlo.

Lui ha una grandissima personalità, ma ha ancora ampi margini di miglioramento. Deve crescere sotto l’aspetto dell’imporsi di più in campo, deve dettare legge durante la partita, non nascondersi, perché a livello di qualità come lui ce ne sono pochi al Toro. Baselli è senz’altro il più rompic**ni in allenamento, bastava che in partitella sbagliasse qualcosa e se ne andava incavolato. Non ti perdonava nulla, è un po’ permaloso, ma poi entravi in spogliatoio e ti abbracciava. È un gran persona, voglio bene a Daniele.

Belotti dovrebbe prendere un po’ da lui. Andrea è un capitano che in campo lo si fa sentire poco. Non è una critica, è che è troppo un bravo ragazzo. Anche io ero un buono, non sono mai stato espulso e lo capisco, ma per fare il calciatore devi essere più figlio di buona donna. Belotti dovrebbe prendere il carattere un po’ da Baselli e un po’ dal suo amico Bonucci.

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