Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.
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Le Loro storie, Cesare Natali: “Gli allenatori vanno controllati, altrimenti rovinano i calciatori”
Da quando ha smesso di anticipare di testa gli avversari o stenderli con un tackle, Cesare Natali non ha mai abbandonato il prato verde. Se prima ci correva sopra, maledicendolo qualche volta per i troppo frequenti infortuni, ora ci gravita intorno. Alle dipendenze della famiglia Pozzo ha viaggiato molto per studiare come funzionano i migliori club al mondo, ora è responsabile del reclutamento degli allenatori del settore giovanile dell'Udinese. Compito di grande responsabilità che affronta con le sue idee, chiare sempre, rivoluzionarie il giusto. Di sicuro non banali.
Quando la Nazionale non si è qualificata ai Mondiali si sono sprecate tante parole, sono stati lanciati programmi di riforme, proclami di grande cambiamento. Poi? Zero, non si è fatto nulla e il movimento calcistico italiano continua a essere in grave difficoltà a livello organizzativo, di gestione e di programmazione. La realtà è che se non programmi poi piangi quando ti capitano i disastri sportivi. Il problema è che qui da noi l’unica cosa che sappiamo fare è cercare un capro espiatorio. E non esiste che il Ventura della situazione sia additato come l’unico colpevole, esiste invece un sistema deficitario in tanti aspetti, prima di ogni cosa a livello di mentalità e di formazione degli allenatori.
In Germania dopo i Mondiali del 2006 hanno programmato una reale rivoluzione tecnica a tutti i livelli: i centri di formazione sono diventati una priorità e hanno investito per monitorare costantemente tutti quelli che giocano a calcio. Non solo i professionisti o i vivai dei club più importanti, intendo proprio tutti, anche i dilettanti. Perché hanno capito che anche nei campionati minori ci sono risorse, ma vanno per prima cosa individuate, poi valorizzate. L’input per un progetto del genere, però, deve partire da una Federazione forte, strutturata, con degli obiettivi e la forza di implementarli a tutti i livelli. Bisogna studiare i dati e fare un piano che non può e non deve essere a breve termine; ci deve essere qualcuno che dica: “tra cinque (o anche dieci) anni dobbiamo avere un modo di lavorare comune a tutti, un modo di proporre calcio e di insegnarlo. La scuola allenatori deve essere indirizzata a formare, seguire, valutare e controllare coloro che sono davvero la prima pietra della crescita di un giocatore e, di conseguenza, di tutto il movimento".
Serve una sorta di controllo per gli allenatori, perché oggi chiunque può fare un corso a Coverciano, prende il patentino e arrivederci. Non c’è un “dopo”. Se gli allenatori non hanno un organo superiore che da un lato dia sostegno e strumenti per migliorare e dall’altro sia attento alle problematiche e a correggere i loro errori, come possono migliorare?
Ma la valutazione non può essere solo un’occhiata alle classifiche: “questo ha vinto, è bravo, questo è arrivato ultimo, fa schifo”. Se il metro di giudizio si basa solo sui risultati, gli allenatori continueranno, in Serie A, ma soprattutto nei settori giovanili, a bypassare tutta una serie di insegnamenti in funzione della loro ambizione personale.
Quando faccio questo discorso qualcuno inorridisce, ma io continuo a pensare che il calcio sia uno sport dei singoli, dove è il singolo giocatore che va a comporre una prestazione di livello per la squadra. Tante buone prestazioni singole fanno ottenere i risultati. Gli allenatori parlano sempre di gruppo, di collettivo, io credo sia l’opposto. A maggior ragione nei settori giovanili, dove, escludendo la Primavera dove i risultati iniziano a contare, i ragazzini dovrebbero solo pensare a divertirsi e i loro allenatori a farli maturare come persone prima ancora che come calciatori.
A 15, 16, 17 anni tanti ragazzi, magari promettenti, abbandonano il calcio e sapete perché? Perché sono già prosciugati dalle richieste degli allenatori. Perdono la passione, perdono tutto. Bisognerebbe investire sui singoli, non sulla squadra. Negli ultimi anni ho viaggiato molto per lavoro e all’estero lo sviluppo del calciatore è infinitamente più importante che vincere una partita o un torneo. In Inghilterra o in Spagna si prova a dare ai ragazzi i mezzi e le conoscenze che gli permetteranno forse un giorno di diventare un professionista. Si cerca di fare in modo che abbiano una cultura calcistica, che siano preparati a questo mondo. Si forma l’uomo, il singolo uomo più che il collettivo.
Nei settori giovanili si dovrebbe lasciare spazio al divertimento, trovare un modo di giocare che sia bello da vedere, ma anche bello da praticare. Non serve fossilizzarsi sul vincere sempre, ma invece rimboccarsi le maniche per far crescere ragazzi con un bagaglio tecnico, tattico, mentale, di cultura del lavoro. Per la pressione del campionato e delle pagelle c’è tempo.
In Italia questo è un problema culturale, un modo di pensare difficile da estirpare, ma forse vale la pena tentare e agire su chi davvero ha in mano le redini del futuro, i tecnici. Servono risorse, certo, e persone competenti che possano seguire i tantissimi allenatori che escono da Coverciano. Impossibile? Proviamo a monitorare solo le società professionistiche, per iniziare: sono venti in Serie A e altrettante in B. Un numero accettabile a cui poter chiedere: Quali allenatori avete nel settore giovanile? Come li fate lavorare? Che filosofia volete mantenere? Quali sono le vostre linee guida? Quali sono i vostri obiettivi?
Partiamo da qui. Nel corso di una stagione li devi seguire tutti, ma non guardando ogni tanto come va la squadra dallo smartphone. Si va agli allenamenti in settimana, alle partite la domenica, si parla con lo staff. Poi si valuta e, nel caso, si opera per correggere la rotta. In Italia non esiste nulla del genere, ma è fattibile e credo necessario.
Comunque non vorrei far passare l’impressione che sia tutto da buttare. Se a livello politico e di visione non riusciamo ad andare più in là del nostro naso, in realtà a livello tecnico l’Italia non è così in difficoltà come si vuole far credere. Le Nazionali giovanili negli ultimi anni hanno ottenuto grandi risultati e la Nazionale maggiore i valori tecnici li ha, idem i calciatori forti. La dimostrazione è stata la partita contro la Polonia: è bastato un allenatore che trasmettesse una mentalità propositiva e abbiamo assistito a una rinascita. Mi fanno ridere le chiacchiere da bar su Mancini del tipo “eh, ma se non avesse vinto…”. Se non avesse vinto non sarebbe cambiato proprio nulla, perché la cosa importante è stata vedere un’Italia giocare a calcio con un gusto, un piacere, una voglia di dominare il campo, come non si vedeva da anni. È stata una semplice questione di coraggio, un coraggio e una mentalità diversi da quello che si è visto negli ultimi anni.
La Nazionale è solo la punta di una piramide fatta da milioni di persone che giocano e amano il calcio e aver trasformato il modo di scendere in campo è la cosa più positiva vista finora nell’era Mancini. I giocatori li abbiamo, ora bisogna solo convincerli che la strada giusta è questa, quella di voler essere protagonisti, non solo speculativi. Devono sentirsi alla pari con le altre Nazionali, non inferiori. Abbiamo una rosa molto giovane e ci andrà ancora qualche anno perché tutti maturino, ma le basi per potercela giocare presto con tutti ci sono. Se tutti si mettono nelle condizioni di rispondere al meglio alle richieste dell’allenatore, il risultato non potrà che essere buono, ma non solo in senso prettamente sportivo.
Ci sono squadre e giocatori che non hanno mai vinto nulla, eppure ti rimangono dentro. Guardate il Napoli di Sarri: non ha vinto nulla, ma ha sempre dato un senso al suo gioco e il senso era quello di proporsi, divertire e far divertire. Lo ha ripetuto anche Jurgen Klopp qualche settimana fa prima di Liverpool-Manchester City. A proposito del match precedente giocato proprio contro il Chelsea di Maurizio Sarri, Klopp ha ricordato che “noi giochiamo a calcio. Non salviamo vite, non piantiamo alberi, non operiamo. L’unica cosa che sappiamo fare è giocare a pallone e visto che il calcio è fatto per divertire la gente, se non giochiamo per divertire, cosa giochiamo a fare?”. Sarà un pazzo, ma io ci trovo un’assoluta verità.
Anche questo è un modo di pensare sbagliato tipicamente italiano: le squadre medio-piccole che contro le grandi fanno le barricate. Ho vissuto due anni a Barcellona e chiunque vada a giocare al Camp Nou, anche le neo promosse, provano a giocarsi la partita. Succede che il Barça non riesca a uscire dalla propria metà campo per 45 minuti, ne ho viste di partite così, non sto sognando. Poi magari finisce 6-1, però lascia un gusto diverso, sia agli spettatori che ai giocatori in campo. Mi immagino i calciatori di una piccola squadra che vanno a giocare a Barcellona, davanti a 95mila persone e sì, hai perso, ma ti rimane un certo romanticismo dentro sapendo che ci hai provato. La bellezza di non aver avuto paura. Tanto, anche se difendi 90 minuti, contro il Barcellona perdi lo stesso 6-0.
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