Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.
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Le Loro storie, David Di Michele: “Cairo non mi lasciò andare alla Roma perchè…”
Quella maledetta serata che servì da alibi a tanti, una fascia consegnata contro il volere della tifoseria. Il rapporto tra David Di Michele e il Toro è stato vissuto tra reciproci sospetti e insinuazioni. Ma, come sempre, c'è tanto da scoprire oltre le prime pagine dei giornali. Il talentuoso attaccante che ormai studia da mister ha voluto condividere una parte importante della sua vita: rimpianti e orgoglio.
Dicevano che ero una testa calda. Dicevano che spaccavo lo spogliatoio. Dicevano che dove c’era caos, c’era Di Michele. Ho smesso di giocare da un paio d’anni ormai e il mio bilancio me lo sono fatto, le mie colpe me le sono prese. Tanti altri hanno le loro nei miei confronti, perché si fa presto a etichettare, ma certe cose le so soltanto io.
Quel comunicato letto in sala stampa dopo l’aggressione al ristorante “I Cavalieri” lo avevamo pensato insieme. Tutti noi giocatori presenti quella sera avevamo buttato giù le nostre considerazioni, poi, non essendo così bravi in italiano, abbiamo chiesto a un nostro amico di metterlo in bella copia. Mentre lo leggevo c’erano tutti i miei compagni presenti, ma, in realtà, non tutti erano convintissimi del perché fossimo lì. Quella conferenza doveva essere fatta perché ciò che era accaduto è stato un brutto episodio e noi dovevamo raccontare i fatti. Però io sapevo già che la società mi avrebbe mandato via a breve, altri invece sarebbero rimasti a Torino, avrebbero dovuto condividere l’ambiente, incontrare le persone. Per questo non gliene faccio una colpa a chi poi ha cambiato idea sull’utilità di quella conferenza. Posso capirli. L’importante è stare bene con la propria coscienza e io posso dire di potermi sempre e comunque guardarmi allo specchio.
Dopo quel comunicato tanti tifosi granata si sono risentiti perché hanno pensato che io stessi generalizzando e accusassi tutti i supporter del Toro, ma in quel momento io ce l’avevo soltanto con chi ci aveva aggredito, quei pochi. So bene che non tutti i tifosi erano presenti quella sera. Mi dispiace non aver dato abbastanza in una piazza gloriosa come il Torino, la mia esperienza ha avuto alti e molti bassi. Avrei voluto entrare almeno un po’ nella vostra storia e questo è un rammarico grande nella mia carriera.
Per me il rapporto coi tifosi è sempre stato fondamentale, ovunque abbia giocato ho stretto un legame forte con le persone intorno alla squadra. Ho sempre provato piacere a fermarmi per una foto o un autografo e se posso capire i top player che dopo un po’ si stufano, perché togliere a qualcuno la possibilità di essere felice, se io ho la possibilità di regalare un pizzico di gioia? Rimanevo anche un’ora o due in più per scattare le foto coi tifosi. Per qualcuno sono piccolezze, per tanti una passione infinita.
Tutti si aspettavano tantissimo da me, ma qualche situazione poco chiara mi ha messo in cattiva luce agli occhi del pubblico. Io non porto rancore verso nessuno e anche la parentesi di Torino la reputo un’esperienza positiva perché una brutta serata non cancella tutto il resto. Salire a Superga il 4 maggio è un’esperienza incredibile. Ho avuto l’onore di poterlo fare da capitano e ogni volta che ci penso ho i brividi. Che tu sia più o meno coinvolto dalla storia granata, non appena arrivi lassù cambia tutto Vedi tutta quella gente, i colori, senti un’atmosfera unica al mondo. Leggere quei nomi sulla lapide, pensare a come possono essere andate le cose. Prima di vivere quella giornata non ho mai avuto paura di volare. Ma facendo lo stesso mestiere e immedesimandomi in un calciatore che aveva vissuto quegli attimi tragici, negli anni seguenti, in certe circostanze, ho iniziato a titubare un po’ degli aerei.
Il mio unico rimpianto di una carriera ultra ventennale, però, sono i treni. Ne ho visti passare tre, tre occasioni per capire se potevo reggere a un livello più alto. Non sono mai riuscito a salirci.
Ho giocato in piazze importanti e ne vado fiero, ma mi rimane l’amaro in bocca per aver soltanto sfiorato la possibilità di far parte di una grande squadra, confrontarmi con grandi campioni e magari migliorare ancora. Ogni volta che c’era una possibilità concreta, qualcuno cambiava le carte in tavole. Mi è successo a 22, a 28 e a 32 anni.
La prima volta stavo facendo bene alla Salernitana. Ultima gara prima della chiusura del mercato invernale: sabato sera mi telefona il presidente dicendomi “Domani è la tua ultima partita con noi, ti ho venduto all’Inter. Fammi vincere e ti mando via”. La domenica io segno, vinciamo 1-0. Lunedì vado a Milano e mi sento dire “No, sei incedibile, abbiamo venduto un altro”. Io sono impazzito.
Non volevo più giocare a Salerno, volevo sparire, non tornare nemmeno. Ma come, mi fai venire a Milano, mi racconti una storiella, mi manchi di rispetto in questo modo? Questi fatti però li so solo io e la società e loro possono anche negare tutto, ma io quella telefonata dal presidente al sabato sera l’ho ricevuta. Altrimenti non avrei fatto venire in fretta e furia mio padre, mia madre e i miei suoceri di domenica notte per fare un trasloco, svuotare e pulire tutta la casa in affitto, trasportare tutto a Roma in attesa di andare a firmare il lunedì. Ero fuori di me. E poi ti etichettano perché sei una testa calda…
Successe una cosa simile quand’ero all’Udinese. Mi voleva Spalletti alla Roma, ma poi Pozzo litigò con la società giallorossa e bloccò tutte le trattative.
La barzelletta più bella, però, capitò proprio quando vestivo la maglia granata. Cerco di riderci su per sdrammatizzare. Sempre la Roma, sempre Spalletti, annata 2008/’09. Io ero ai margini della squadra perché De Biasi non mi voleva, la stessa società aveva intenzione di cedermi. Mi chiamò Spalletti e diedi subito l’ok. Avevo sistemato tutto anche con la dirigenza giallorossa e persino qualche calciatore mi aveva già chiamato dalla capitale. Andai da Cairo: “Presidente, lei sa che qui io non sono gradito. C’è questa possibilità e a 32 anni per me è importante, ma anche per i miei figli e mia moglie. Potremmo avvicinarci alla mia città e io ho l’opportunità di giocare nella squadra che tifo”. Mi rispose così: “Non ti cedo a una diretta concorrente per l’Europa League”. Rimasi senza parole. Non era il Parma o la Sampdoria o un’altra squadra con una posizione di classifica simile. Era la Roma. Provai anche a far leva sul tasto economico: “Se resto qui, lei mi deve pagare. Non le servo e potrebbe dare il mio ingaggio a qualcuno che l’allenatore ritiene più funzionale”. Nulla, non ci fu verso. Mi costrinse a chiudere la trattativa. Me l’ha fatto a 32 anni, avrei potuto chiudere la mia carriera a Roma, la ciliegina sulla torta della mia carriera. Lo fece apposta, per ripicca.
Per poter giocare mi trasferii al West Ham e a fine anno il Toro scese in B. Sarebbe da fare la battuta a Cairo: “Ma tu m’hai detto Europa League e sei retrocesso?”.
Il mio grosso problema è che io le cose le dicevo in faccia e nel calcio, se dici le cose in faccia non ti torna indietro mai nulla di buono. Se un mio compagno sta sbagliando, io glielo vado a dire, non posso lasciare che passi inosservato. Se le cose vanno male, io vengo da te e te lo dico. Al mio lavoro ci tengo, per cui se abbiamo perso tre partite di fila, tu non puoi ridere, scherzare, andare a divertirti. Se vai a ballare vuol dire che non te ne frega niente. Il calcio, come la vita, è composto di momenti: c’è il momento in cui puoi uscire e quello in cui non puoi uscire.
Queste cose le ho sempre dette ai diretti interessati. Tanti compagni mi volevano bene per come sono, a tanti altri cui magari piace poco sentirsi sputare addosso la verità, sto antipatico. Ma io non me la mordo la lingua e se dovessi tornare indietro cercherei di commettere meno errori, ma molte cose le rifarei uguali. Anche conoscendone le conseguenze.
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