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Le Loro storie, Elvis Abbruscato: “Ero un terrone con un talento immenso, ma cercavo Dio”

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Esclusiva / Al Toro e al Chievo soprattutto dolori, ma il bomber ora sa cosa vuole: "Tornerà un calcio più umano e io sarò pronto da allenatore"
Marco Parella

Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.

Quel nome mondano, il ruolo in campo da sempre più cercato dai riflettori, dai tifosi, dalle critiche. Avevamo imparato a conoscerlo in un modo che forse non ci aveva esaltato, ma che fondamentalmente ci era piaciuto. Ritroviamo Elvis Abbruscato allenatore, saggio, con la fede nell'animo e in testa un progetto. Ma soprattutto lo ritroviamo sereno e l'unica cosa che ci viene da dire di fronte a tanta consapevolezza è... buona fortuna, bomber. Dal cuore.

Esistono varie categorie di calciatore. C’è il Talentuoso, il Negatore, il Depresso, il Metodico, lo Scaramantico, ecc…. Ognuna di queste categorie umane dà la colpa dei propri insuccessi a un diverso aspetto: il Talentuoso accusa fattori esterni, lo Scaramantico la sfortuna, il Negatore tende sempre a dire che la colpa è di qualcun altro e a negare l’evidenza. Io penso di essere stato un Talentuoso, uno che quando fa grandi prestazioni si gratifica ripetendosi di avere un talento immenso, ma che se invece gioca in maniera indecente pensa “probabilmente non ho talento”.

Alti e bassi, insomma, ma ho sempre gestito i miei alti con freddezza. Non mi sono mai esaltato. Al contrario i bassi li ho accusati perché non ero abbastanza presuntuoso, mi infliggevo troppa autocritica e questo forse mi ha portato in certi momenti della mia carriera a non combattere come avrei dovuto, a non fregarmene il giusto. È anche vero che io avevo un po’ anche del Metodico, perché un giocatore può avere diverse personalità al suo interno e io mi impegnavo nel quotidiano, ho cercato di costruirmi attraverso il lavoro giorno per giorno. Fare bene o fare male è un problema pieno di variabili. Dipende molto dalle aspettative che hai di te stesso nel contesto in cui ti trovi, ma questo a sua volta è influenzato dall’aspetto sociale, la città, i tifosi. Quando hai paura di deludere le aspettative, magari tendi a chiuderti un po’, soprattutto se sei un ragazzo sensibile, una persona che non guarda le cose solo in superficie, ma prova a entrarci dentro.

Poi c’è l’altra strada, quella del menefreghismo totale, della “ignoranza”. Non è bellissimo da dire, ma nel calcio la via più utile forse è proprio questa. In fondo, penso che il calciatore non sia un vero atleta perché il luogo dove si allena, la città in cui vive, ogni cosa aggiunge o toglie ai risultati che ottiene, a seconda del carattere. Gli aspetti psicologici nel calcio, come in tutti gli sport di squadra, hanno un’incidenza molto elevata. I veri atleti sono altri, sono quelli che corrono 42 km di una maratona in solitaria, combattendo ogni secondo contro se stessi. I veri atleti sono coloro che fanno della resilienza la loro forza, che giustificano la propria prestazione solo in base all’impegno e al costante allenamento. I Resilienti - ulteriore categoria quindi - se non giocano bene possono soltanto rimproverarsi con un “non mi sono impegnato abbastanza”.

Io vengo da una famiglia che si è trasferita al Nord. Da ragazzino sono cresciuto sentendomi chiamare “terrone” (anni ’90, non un secolo fa!), ma mi è servito per farmi subito gli anticorpi. Sono cresciuto nel disagio e ho imparato ad avere fame.

Molti miei coetanei hanno esperienze e percorsi simili. Noi abbiamo sfruttato la scia di una generazione, quella precedente, molto forte. I ragazzi di oggi non ci assomigliano più, ma probabilmente quelli che arrivano dal periodo della crisi del 2007 formeranno di nuovo una generazione forte, arricchita dal mix di stranieri. Io ho iniziato a giocare a calcio tardi, a 12 anni senza aver fatto scuola calcio. Ho imparato al parco, nella competizione quotidiana e imitando i campioni del momento. I giovani adesso prendono informazioni con processi visivi e virtuali, imparano le finte dalla Playstation, non dai compagni al campetto e in questo modo si perdono due fattori fondamentali per la crescita: l’identificazione con un modello umano, non un simbolo lontano nel tempo e nello spazio; e l’esperienza del fallimento, che fa parte integrante della crescita. Tanti ragazzi oggi non sanno fallire, non sono preparati a fallire e nel momento in cui le cose non vanno non sono capaci di reagire, non hanno autostima. Al parco era uno scontro ogni giorno, ma anche se sbagliavi qualcosa, il giorno dopo tornavi e non importava più a nessuno. Abbiamo perso tanto, soprattutto la fantasia.

Anch’io però non ho saputo reagire a un certo punto e dopo il grave infortunio patito al Toro, la mia carriera ha avuto un’eclissi. Non avevo più la cattiveria necessaria.

Di quella brutta frattura, io accusavo il cielo: “Perché a me? Perché in questo momento topico della mia carriera?”. Era diventata una lotta tra me e Dio, una lotta impari in cui ho sempre perso. Ero chiuso in me stesso e lottavo per capire “c’è o non c’è?” e questo tormento interiore mi ha sempre tolto tranquillità. Nel momento in cui mi sono arreso è stato tutto più semplice. La riconciliazione con la fede è avvenuta a Vicenza. “Signore, questo sono io, con i miei difetti e i miei pregi. Mi lascerò condurre”, ho pensato tra me e me. È stato come sentirsi rispondere “figlio mio, stai tranquillo, ci sono io. Ci sono sempre stato fin da quando giocavi da ragazzino, solo che non te ne sei mai accorto. Lottavi, lottavi, ma io ero lì. E se sei arrivato fin qua con le tue sole poche forze, ora te ne darò io di nuove”. Ha funzionato, perché quella consapevolezza mi ha fatto provare una pace e una tranquillità che mi hanno permesso, dopo anni bui, di disputare due bei campionati a Vicenza. Ho ripreso energie fisiche e mentali. Sono tornato a essere e a sentirmi felice di giocare a pallone.

Ora so dove sto andando, so dove mi sono incamminato e so dove voglio arrivare da allenatore (vice allenatore dell'Italia U18, ndr). Non voglio affrettare i tempi, né rallentarli. Io so che arriverò al momento giusto, questo è il mio mantra. E il momento giusto per me sarà quello in cui la condivisione delle conoscenze tornerà a essere più aperta, quello in cui verrà apprezzato più il valore del giocatore e meno le idee di un allenatore. Credo molto in questo perché fino a quando sono diventato un calciatore professionista sono stato seguito da poche persone con pochi mezzi e pochissime conoscenze, ma che avevano un lato umano che superava abbondantemente ciò che mi ha insegnato chi aveva invece studiato la tecnica e la tattica.

Se torneremo leggermente indietro verso un calcio con più anima e meno icone allora riusciremo tutti a vincere di più. Sono convinto che ci si arriverà perché la storia si ripete e in questo momento stiamo correndo troppo avanti. Dobbiamo ascoltare le nostre necessità. Non so se il mestiere di allenatore mi permetterà di tenere fede a queste mie idee, ma sono convinto del mio percorso e di questo timing che mi sono imposto e chi vorrà prendermi lo farà sapendo di questo timing. Nel calcio ci va spirito di visione e di missione, altrimenti contano solo i numeri e gli schemi. Gente come Klopp e Ancelotti incarna questo spirito. Sono sempre pronti a mettersi in discussione, a studiarsi e a guardare se sono nel centro delle proprie priorità. Sono come me.

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