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Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.
Duro in campo, professionista fuori, pronto per la panchina. Ivan Franceschini è tante cose, ma fondamentalmente è un buono e certe volte, a causa di questo, si è sentito trattato ingiustamente. "Le Loro storie" è questo, è il racconto di un uomo prima che un giocatore, di una parte della vita che spesso sfugge ai riflettori. Questa è l'ultima puntata di questa stagione e, ci sentiamo di dire, la chiudiamo come piace a noi: con il cuore.
Il mio sogno da bambino era arrivare in Serie A, non mi interessava con quale squadra. Quindi da calciatore ho realizzato quell’obiettivo e forse ho anche avuto più di quello che le mie qualità tecniche mi dovevano permettere. Parlo solo di qualità, perché dal punto di vista dell’agonismo forse ho avuto meno di quanto meritassi.
Tornassi indietro farei altre scelte. Punterei a sfruttare di più i momenti positivi per guadagnare meglio. Non giocavo gratis, sia chiaro, però non ho mai fatto molto caso all’aspetto economico, sono uno che si è sempre accontentato. Non puntavo i piedi, non andavo in sede a ridiscutere i contratti, solo campo e casa. Un’altra cosa che cambierei è lo studio nel tempo libero. Quando giocavo non mi riguardavo poi in televisione, invece mi sarebbe servito per migliorarmi. Col senno di poi, userei quelle due ore passate a guardare la tv per studiare i prossimi avversari o correggere i miei errori. Mi sarebbe servito tanto, considerando che essendo uno senza grandissime qualità tecniche, dovevo arrangiarmi con altri espedienti. Ci sono giocatori in Serie A che devono migliorarsi quotidianamente, perché arrivare in A non vuol dire essere automaticamente forti. Puoi essere dotato quanto vuoi, ma quando incontri le grandi squadre con i grandi campioni fatichi, perché ti mettono in difficoltà sugli aspetti che magari tu hai tralasciato.
Il talento è un insieme di tante cose, molte devi migliorarle fin da giovanissimo. La coordinazione, fondamentale per calciare, è una di quelle cose che devi mettere nel tuo bagaglio da piccolo e poi te la porti negli anni. Poi ci sono le qualità innate, ci sono quelli nati per fare certe cose, quelli a cui il Signore ha dato talmente tanto talento che hanno meno bisogno di faticare. Questo non vuol dire essere meno professionisti o meno appassionati di me, che la carriera l’ho costruita grazie alla forza di volontà, alla determinazione. Però penso al Recoba visto a Torino. Un piede pazzesco, mai visto calciare così, una roba fuori dal comune. Lui faceva il suo, ma, per esempio, a Reggio ho conosciuto Nakamura, uno che in Giappone è un’istituzione tipo Totti o Del Piero in Italia. E lui era un professionista totale, esisteva solo il calcio: ogni giorno arrivava un’ora prima degli altri e si metteva a fare palestra, poi si fermava un’ora in più a calciare contro il muro o a esercitarsi nelle punizioni. Tutti i santi allenamenti. Lavorava più duro di chiunque altro.
Un’altra scelta sbagliata della mia carriera è stata restare al Toro un po’ troppo a lungo. Per me è stato un onore vestire quella maglia, ma dopo il primo anno avrei dovuto accettare la corte dell’Atalanta. Ho tentennato un po’, poi mi sono infortunato ed è saltato tutto. Sono stato un anno intero fermo e quello successivo sono rimasto al Toro perché non avevo mercato. Chiesi al mio procuratore di trovarmi una squadra qualsiasi, anche in C, perché volevo giocare, farmi vedere, tornare nel giro. Nulla. Ringrazierò a vita Camolese che nelle ultime partite di quel campionato mi diede la possibilità di rimettermi in gioco. Sfido chiunque altro allenatore in una piazza così importante come Torino a rimettere in campo un giocatore fermo da un anno e mezzo. Il dispiacere di quella retrocessione è, oltre a tifosi e società, soprattutto nei suoi confronti, perché è una persona eccezionale.
In quasi vent’anni sul campo, ho avuto la fortuna di incontrare allenatori importanti, gente che ha fatto benissimo in A e che ha anche cambiato il modo di difendere. La difesa di reparto di Del Neri al Chievo ha fatto scuola, l’hanno poi ripresa e personalizzata Giampaolo e Sarri. Anche il Delio Rossi di Salerno mi ha insegnato molto del calcio. Ringrazio tutti i miei mister, gli allenatori che mi hanno dato tanto e anche quelli che mi hanno umiliato, perché grazie a loro ho imparato cosa non fare quando avrò a che fare con uno spogliatoio. In primis, a non escludere nessuno. Tutti i giocatori sono importanti, anche quelli che devi cercare di mandare via o sostituire con qualcuno più adatto alle tue idee. Devi trattare tutti allo stesso modo, perché un giorno potranno tornarti utili. I giocatori messi fuori rosa o che si allenano da soli non dovrebbero esistere. Il mestiere del calciatore è soprattutto passione e quel trattamento rischia di fartela passare. Quando è successo a me mi sono sentito umiliato come professionista e agli occhi dei miei compagni.
In certe stagioni ho giocato di più, in altre meno, ma ho visto delle scene molto brutte e non in un solo posto, ma in tante squadre diverse. A un certo punto riescono a farti sentire in colpa anche quando giochi, perché vedi un ragazzo come te con cui condividi lo spogliatoio e gran parte della tua giornata che è in disparte, non considerato. Non siamo dei robot.
Ero un bambino molto timido, poi con il tempo mi sono un po’ aperto agli occhi della gente. Ho sempre pensato al campo e a lavorare, curavo poco i rapporti interpersonali con i compagni. Uscivo poco, avevo sempre ‘sta fissa di dover riposare e recuperare. Uno simile a me da questo punto di vista è Gaetano De Rosa. Sono stato con lui a Reggio, secondo me ha avuto meno di quanto si meritasse perché è sempre stato un leader positivo, un capitano non con la fascia, ma in campo. È un ragazzo che con il mondo del calcio c’entrava poco, molto sensibile, rispettoso, capace di dire la parola giusta al momento giusto senza mai prevaricare sugli altri.
Il calcio non è solo personaggi da copertina, lo stereotipo dello sbruffone, che poi magari sbruffone non è. C’è anche gente così e sono tanti, anche se molti indossano mille maschere per nascondere le paure e le incertezze. È la sconfitta dei buoni, non solo nel mondo del calcio, ma nella vita in generale. Tutti guardano i propri interessi e se uno è troppo buono alla fine ti mangiano in testa. Bisogna avere un po’ di grinta, essere buoni sì, ma cercando di farsi portare rispetto da chi si ha di fronte.
Qui a Reggio Calabria ho fatto per due anni il vice, puntavo a fare il primo, invece la società ha scelto di prendere un allenatore nuovo e mi ha offerto di allenare la Beretti. L’ho considerato un passo indietro perché ho studiato per migliorarmi e continuo a farlo per avere una buona cultura calcistica. Ho preso tutti i patentini, ho fatto il Master. Quindi ho preferito aspettare una squadra, anche in Serie D. Non è arrivata e ne ho approfittato per fare un corso da Match Analyst. Essere scartati è sempre brutto, forse da giocatore soffri di più, perché a me faceva male quando una squadra non mi riscattava a fine stagione o cercava di inserirmi in qualche scambio perché non piacevo al tecnico. Da allenatore la delusione è diversa perché sai che ci sono molti fattori che influiscono sulle scelte. Non è più solo un discorso di bravura.
Da allenatore ho lo stesso sogno che da giocatore: arrivare il più in alto possibile. Non è facile, perché in Serie A i calciatori sono 500, gli allenatori 20. Quindi ci devi arrivare con i risultati, le idee, la qualità del gioco. Il calcio è uno spettacolo e devi proporre un gioco quantomeno decente. Vedo molte partite, soprattutto nei campionati minori, dove lo spettacolo è prossimo allo zero, partite veramente brutte. Io vorrei vincere giocando bene, ma per un allenatore agli inizi non è semplice trovare un’opportunità. L’immagine conta molto, bisogna sapersi vendere bene, anche se alla lunga devi dimostrare qualcosa, perché non puoi bluffare per sempre. Io non sono molto bravo a curare la mia immagine pubblica, lo so e mi impegnerò di più, però per me vendermi bene vuol dire studiare. Vuol dire sapere il più possibile in tanti campi, dalla tattica alla tecnica e alla gestione del gruppo, imparare da allenatori vincenti, portare i miei concetti modellati in base ai tempi che corrono. No scenderò a compromessi, mai. Se qualcuno mi vuole, sono questo qua, altrimenti starò fermo come ho fatto quest’anno. Che poi fermo non sono stato, anzi. La ruota gira, aspetto il mio momento. Sicuramente ora sono più pronto di un anno fa e cerco di essere sempre positivo. Se no uno diventa matto.
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