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Le Loro storie, Luca Bucci: “Dissi a mio figlio ‘meglio poveri e onesti che alla Juve'”

Marco Parella
Esclusiva / Il portiere granata (con una parentesi al Napoli) sulla sua vita privata: "Chiesi a Nevio Scala di non giocare perchè non stavo bene"

Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.

Il suo gesto dell'ombrello rimarrà impresso nella memoria di tutti i granata (e non) come simbolo imperituro di quella spontanea non sottomissione alle ingiustizie che ci animava da bambini e ci manca tanto nel calcio di oggi. Luca Bucci è questo, ma è anche uno sportivo con delle ferite sul cuore e un padre preoccupato. Ce lo racconta così.

01:05 min

Ho lottato per la salvezza in C1, sono stato retrocesso in Serie B, ho giocato per lo scudetto in A e ho trepidato nella speranza di vincere un Mondiale nel ’94. Ho visto e provato tutte le mille sfaccettature del mio ruolo, dei compagni di spogliatoio e dei diversi ambienti del calcio. Tutti noi speriamo di vivere soltanto i momenti belli, ma nell’arco di una carriera sono tanti anche quelli dolorosi. La vita è fatta così, dobbiamo accettarlo.

Ripenso ancora a quel 10 ottobre del ’95, a quel maledetto rimbalzo del pallone, il riflesso incondizionato, il cartellino rosso. Per me quell’espulsione contro la Croazia è dolorosa. Era la mia opportunità di fare bene in Azzurro dopo tanta panchina, invece andò male. Ragionando a mente lucida, non mi do la colpa perché quella sera c’era un grande vento e fu quello a modificare all’ultimo istante la traiettoria della palla. Alla fine dei conti rimane, però, la sensazione di non aver saputo sfruttare al meglio l’opportunità che mi si era presentata. Ed è difficile da digerire.

In altri episodi riconosco i miei errori, non ho problemi a farlo. Riconosco, per esempio, che se avessi raggiunto un po’ prima la maturità che ho trovato dopo i 34-35 anni, forse sarei stato un portiere migliore. In questo ruolo molto “mentale”, quando oltrepassi i trenta acquisisci totale consapevolezza dei tuoi mezzi e dei tuoi limiti. Da giovane sei istintivo e fai cose che a 35 anni non riuscirai più a fare, però rischi anche di commettere errori che con l’esperienza eviterai senza sforzo.

Ho sempre avuto una specie di dicotomia. La mia vita privata è ed è stata molto tranquilla, serena. Sono sposato da ventisette anni, ho avuto i figli abbastanza giovane. Gli eccessi li ho portati solo in campo. Vivevo la prestazione come una battaglia, come un gladiatore che va nell’arena. Sei lì con l’adrenalina a mille e vuoi prevalere su un avversario. A qualsiasi livello tu faccia sport, non lo fai tanto per partecipare, lo fai per vincere. Anche chi dice che va a correre solo per dimagrire, in realtà vuol prevalere sul suo avversario, che in quel momento è il grasso. Viene fuori la determinazione e io sono sempre stato riservato nella vita privata quanto aggressivo in quella professionale.

E pensare che la mia prima passione era cucinare. Avevo uno zio con un ristorante sull’Appennino reggiano e ogni tanto andavo ad aiutarlo ai fornelli. Avevo imparato a casa mia, dando una mano a mia madre che doveva sfamare me e i miei cinque fratelli. Anche durante i primi anni di matrimonio cucinavo spesso io: mia moglie non era ancora molto capace, ma poi è diventata una cuoca perfetta e io, per avere la possibilità e il tempo di giocare a calcio, ho ripiegato su una scuola per geometri. Se non fossi riuscito a emergere come calciatore, quindi, probabilmente sarei stato un geometra, non un cuoco. Anche perché, con il mio carattere, avrei fatto la fine di qualcuno di quegli chef degli show televisivi che in un raptus di rabbia lanciano pentole e spaccano piatti.

Di certo, l’intera mia vita privata è stata condizionata dallo sport e viceversa. È inevitabile, ma mi ricordo che, in particolare negli anni in cui ero al Toro, non fu sempre tutto rose e fiori. I compagni di mio figlio lo sfottevano quando il Torino – e dunque io – perdeva. Erano tifosi della Juve che in quegli anni (era l’epoca di Moggi) vinceva tanto e un giorno mio figlio tornò a casa e mi chiese: “Papà, perché non cambi squadra? Perché non vai alla Juve?”. Cercando di consolarlo, gli risposi: “Meglio onesti e perdenti, che disonesti e vincenti”.

Mio figlio fu molto condizionato dalla mia figura. Da piccolo giocava a calcio, in porta anche lui. Poi smise, disse che non gli piaceva più. Fu una sorta di autodifesa per lui, per la paura di essere preso in giro, per la paura dei paragoni con me, per il timore di non essere all’altezza delle aspettative. Me lo confessò lui stesso, qualche anno più tardi. Mi sono sentito in colpa per tanto tempo, perché, pur avendolo sempre spronato a fare sport, il responsabile di questa sua frustrazione, anche indirettamente, ero io. Da qualche anno ha ricominciato a giocare a livello amatoriale, ma non più in porta. Ora fa l’attaccante.

Questi sono aspetti della vita privata di un calciatore che non vengono presi in considerazione dalla gente comune, però possono anche essere fonte di reazioni spropositate. Perché siamo esseri umani e quando si vanno a toccare aspetti che riguardano la propria famiglia si reagisce male. Quel dolore, poi, lo rifletti anche nella vita lavorativa.

Ci fu una partita in cui feci malissimo, giocavo alla Casertana in B e un paio di giorni prima io e la mia neo sposa avevamo saputo che la nostra prima gravidanza si era interrotta.  La mia testa era totalmente da un’altra parte e se ne accorsero tutti. In tanti hanno dovuto affrontare momenti del genere, ma se sei sotto i riflettori non puoi nasconderti. Diventa difficile gestire la situazione anche per chi ti sta intorno, perché puoi trovare chi pensa di farti del bene a farti giocare comunque e chi, tenendoti fuori, pensa di toglierti un peso e invece peggiora solo le cose.

Una volta, l’unica della mia carriera, chiesi a Scala di non mandarmi in campo. Era un periodo difficile per la squadra e il clima era pesante, ma lo feci soltanto perché stimavo il mister oltre misura. Lui me lo concesse e per quella domenica mi accomodai in panchina, poi, senza alcun timore, Nevio mi domandò se me la sentissi di giocare la partita successiva e, al mio sì, non ebbe dubbi a schierarmi titolare. Penso che con qualsiasi altro allenatore non avrei chiesto di stare fuori.

Ora che sono preparatore dei portieri cerco di mettere a frutto e trasmettere tutte le mie esperienze negative, gli sbagli, le scelte fatte. In questo nuovo ruolo, il rapporto con i ragazzi che alleni è molto più intimo rispetto a quello classico tra giocatore e mister, perché è come se io allenassi una mini squadra di tre persone. Devi essere bravo a far capire dov’è il limite. Io cerco di mediare, ma sono più le cose che i portieri mi confidano e io non riferisco all’allenatore, che non viceversa….

In ultimo, concedetemi un pensiero sul 4 maggio. A Torino sono rimasto tanti anni e uno dei motivi è stato proprio quel senso di appartenenza, misto a commozione che mi dava la storia granata e la leggenda di una squadra scomparsa tantissimi anni fa eppure così viva. Mi ripetevo spesso che per quei ragazzi e per tutto quello che rappresentavano, io dovevo dare tutto quello che avevo. Dovevo dare più di quello che avevo. La storia del Toro si fa sentire sulle spalle, soprattutto in certi ruoli in cui capivi di non poter sbagliare due partite di fila. Ho vissuto anni sentendone la responsabilità. Ma la storia del Toro non è solo il 4 maggio. È un profumo che respiravi ogni giorno e ti faceva sentire in debito. Perché anche nelle sconfitte più brucianti, vedi quel maledetto spareggio di Perugia, la gente si alzava e ti applaudiva. E non è qualcosa che capita spesso.

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