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Le Loro storie, Luca Mezzano: “Tanto, al massimo perdi”

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Esclusiva / L'ex difensore granata e veronese sulla sua vita: "Piegato dal dolore, deluso dal Torino, rinasco sempre. La vita è bella"
Marco Parella

Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.

Luca è un quarantunenne più in forma del 95% di noi con un sorriso largo, una tenacia contagiosa e le articolazioni fragili. Torinese e torinista nonostante le delusioni, innamorato del pallone nonostante il dolore e le ali tarpate, completamente innamorato della vita nonostante il fatto di essere passato in pochi anni da Djorkaeff e Ronaldo a Osmanovsky e Saber (si scherza). Sedotto e abbandonato dal Torino, è già al terzo capitolo della sua vita. Una storia non banale, ma lo si poteva immaginare visto che le prime parole del suo libro le ha vergate uno come Franco Scoglio.

“Tu hai finito di giocare”. Me lo dissero così, al termine di uno degli ormai troppo frequenti esami per le mie cartilagini consumate. Avevo 31 anni, non riuscivo più nemmeno a camminare. Non avevo un piano B.

“Adesso che faccio?”, mi sono chiesto, ma la prima risposta è stata la più semplice. Volevo rimanere nel mondo del calcio. Restava da decidere con quale ruolo, ma anche qui non ci ho messo molto a capire che il mio posto era il campo. Sono stra-convinto che se devo lasciare il segno nel mondo del calcio, lo devo fare da allenatore.

Sono stato fermo un anno intero, che mi è servito in parte per riprendermi dalla batosta della mia interruzione di carriera (e un anno solamente non è bastato…), in parte per riassestarmi a Torino. La mia casa è sempre stata qui, ma un ritorno in pianta stabile vuol dire sistemare bene le cose, iscrivere i figli a scuola e tanto altro. Quel primo anno da ex calciatore mi ha dato modo di frequentare il corso allenatori. Poi sono andato a parlare con il Torino, la mia seconda casa da sempre, e l’estate successiva ho avuto la possibilità di iniziare con le giovanili.

Non è semplice convivere con gli infortuni perché ricominciare ogni volta da capo diventa complicato, sia fisicamente che mentalmente. Ho giocato sedici anni da professionista e ho calcolato che, sommando tutti gli stop dovuti a questioni fisiche, ho perso praticamente cinque anni tra pubalgie, problemi alla schiena, ernie inguinali, frattura dello zigomo, due volte il menisco, distorsioni e chi più ne ha, più ne metta. Praticamente un terzo della carriera lontano dal campo, un po’ troppo per chiunque. Ma resto orgoglioso di tutto quello che la mia professione mi ha insegnato, perché è nelle difficoltà che si apprendono gli insegnamenti più importanti.

Il mio inizio fu travolgente, agevolato dal fatto di essere al posto giusto al momento giusto e, lo dico umilmente, di aver saputo sfruttare la mia occasione nella maniera migliore possibile: Scoglio mi fa esordire in un Roma-Torino; la partita dopo, Torino-Udinese, la gioco da titolare e vinciamo con gol mio e di Rizzitelli; poi altre dieci partite condite da un’altra rete, una stagione da protagonista in B a vent’anni e la firma con l’Inter. Rispetto a un Primavera che esce dal settore giovanile e deve andare a farsi le ossa in Serie C, il mio è stato un inizio in discesa. Penso di essermelo meritato perché ho sempre lottato e nessuno mi ha mai regalato nulla.

Permettetemi due parole su Scoglio, personaggio d’altri tempi ed emblema di un calcio di uomini veri che non avevano paura di mostrare anche le loro debolezze e peculiarità. Erano gli anni dei telecronisti faziosi a 90esimo minuto, a Sky oggi una roba del genere non potrebbe succedere perché adesso siamo tutti più impostati e attenti alla comunicazione, le interviste sembrano tutte fotocopie e il pubblico viviseziona ogni parola. A quel tempo invece era tutto pane e vino e Scoglio diceva quello che gli passava per la testa in quel momento, era uno totalmente genuino. Il mister comunicava la formazione titolare della domenica in albergo. Mi ricordo che mandava a chiamare per reparti: ti accoglieva in camera sua coi calzoni mezzi slacciati, scapigliato, gli occhiali storti sul naso, un calzino che si stava per sfilare. E ti spiegava cosa voleva che tu facessi in campo, chi marcare, come giocavano gli avversari. Gli devo tanto perché fu lui a volermi aggregare in maniera permanente alla prima squadra. Avevo già fatto un ritiro l’estate precedente con Sonetti ed ero uno dei Primavera più in vista. Poco dopo l’arrivo di Scoglio al Toro, mi vide in una trasmissione di tifosi granata in onda sulle reti private. Mi raccontarono che indicandomi sentenziò: “Questo ha la faccia da giocatore di calcio, lo convoco”.

I guai fisici iniziarono a tormentarmi quando passai all’Inter. Lo zio Bergomi mi aveva preso sotto la sua ala protettiva, come prima di lui aveva fatto Cravero al Toro. Roberto riusciva a infonderci tanta sicurezza con poche parole. Quando vedeva me e Moreno (Longo, ndr) un po’ tesi prima di una partita, si avvicinava e ci ripeteva sempre: “Ragazzi, tranquilli. Male che vada perdiamo”. Ho vissuto spogliatoi splendidi, ma nessuno come quello del Toro nella stagione che purtroppo si concluse con il fallimento. Eravamo tanti ex Filadelfia, tanti ex granata tornati alla base e c’era una complicità che si vedeva poi anche in campo. Caso vuole che quell’anno ben dieci delle nostre mogli fossero incinte in contemporanea (la prima a nascere poi fu mia figlia) e anche loro legarono molto. In nerazzurro invece non posso scordarmi Ronaldo, campione assoluto, anche paragonandolo ai migliori giocatori di oggi. Con lui avevi qualche chances di marcarlo solo nello stretto perché in campo aperto non c’era modo di fermarlo. E comunque, anche se lo accorciavi e provavi a tenerlo girato spalle alla porta, lui aveva una forza fisica impressionante, per cui riusciva a girarti e partire. A quel punto potevi solo sperare di indovinare il lato giusto, ma ti andava via in ogni modo. Ronaldo è stato un modello per tanti di noi, oltre che per il pubblico. Sempre positivo, allegro, con la battuta pronta; non ti faceva pesare il fatto di essere uno dei giocatori più forti al mondo in quegli anni e, forse, della storia. Aveva ricevuto un dono straordinario, ma non si è mai accontentato, né adagiato sugli allori. Era uno che lavorava tanto.

Purtroppo gli anni della maturità in cui avrei potuto essere io il “vecchio” che aiutava i giovani a crescere non sono durati tanto, ma ho sempre sentito forte in me il piacere di trasmettere qualcosa, anche al di là del calcio. Cerco di insegnare ai miei giocatori, con i ragazzini del Toro prima e ora nella mia prima esperienza “senior” con il Chisola, ad affrontare la vita da uomini, a prendersi le proprie responsabilità, a osare e a saper restare uniti nelle difficoltà.

La mia seconda carriera è iniziata, non a caso al Torino: Esordienti, Allievi regionali, Allievi Lega Pro in cinque anni splendidi. Poi il secondo fulmine a ciel sereno della mia vita. Avrei voluto continuare da allenatore granata e completare il mio percorso passando per gli Allievi nazionali e poi la Primavera, ma non mi è stato concesso. Credevo di meritarmelo sia per quanto dimostrato a livello di risultati, sia per il mio storico: undici anni nel settore giovanile, sei anni da calciatore della prima squadra, altri cinque da allenatore. Ventidue anni in una società pensavo contassero qualcosa e meritassero rispetto. Pazienza, un’idea me la sono fatta e penso di non sbagliarmi troppo, ma sono andato avanti lo stesso.

Ho metabolizzato il tutto e virato subito sui “grandi”, ma non è facile trovare chi è disposto a darti un’opportunità tra i dilettanti dove magari non conosci nessuno, non hai un curriculum né esperienza. Ci ho messo un anno intero a trovare l’occasione giusta. Ho continuato ad aggiornarmi, ma nel frattempo riprogrammavo la mia vita. Ho la fortuna di avere aperto quattordici anni fa con mia moglie un negozio di abbigliamento per la danza (lei è ballerina) che si è ingrandito. Non avendo certezze sul mio futuro ho pensato di andare a dare una mano concreta a lei. Poi il richiamo del calcio è stato troppo forte, è partita l’avventura con il Chisola e spero che questa terza pagina della mia vita con il pallone duri molto e mi regali qualche soddisfazione.

Sono veramente molto contento di ciò che ho. Quanto può essere bella la vita? A volte ci scordiamo di apprezzare le piccole cose che ti si parano davanti agli occhi e finiamo per lamentarci di tutto. La vita è dura, è impegno, lotta, a volte vinci, altre perdi, però diventa meravigliosa se riesci a viverla cogliendo le piccole fortune. Mi basta guardare i miei figli per ringraziare il cielo ogni sera e ogni mattina quando mi sveglio. Serve impegnarsi sempre, con cuore e passione. Tanto, come diceva il mio “vecchio” capitan Cravero, “al massimo perdi”. L’importante è mettercela tutta per provare a vincere.

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