Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.
mondo granata
Le Loro storie, Migjen Basha: “Il Toro mi lasciò da solo a curarmi, ma quante risate con Glik e gli altri”
Migjen dà sempre tutto in campo, Migjen dà tanto anche in spogliatoio. Migjen è solare, positivo, umile e normale nella migliore accezione del termine. Migjen è come noi, se non che è stato un componente davvero importante, forse più di quanto in molti pensano, di un Toro che, di riffa o di raffa, ha scritto un capitolo significativo della storia granata. La sua è una storia di felicità, finalmente. E, nonostante il finale, prendetela col sorriso, perchè, per dirla alla Jim Morrison, "più triste di un sorriso triste c'è la tristezza di non saper sorridere".
Quante cavolate che sparavamo in spogliatoio, a insultarci fino alla morte tra di noi, fare battute pesantissime sulle rispettive mogli o fidanzate, su tutto. Io, Glik ed El Kaddouri eravamo i peggiori, in spogliatoio c’era da piangere dal ridere. A Omar lo prendevamo in giro per come camminava (lui che ha queste gambe un po' storte), a Bruno Peres, che ha un leggero strabismo, lo chiamavamo da lontano poi, quando si girava, gli urlavamo “Ou, ma stai guardando me o lui?”. Sempre così. Uno dei punti di forza di quel gruppo che ha iniziato in Serie B e, senza nessuno che ci avrebbe puntato sopra due lire, è arrivato in A e poi in Europa League, era proprio il livello di confidenza che avevamo raggiunto tra di noi.
Insieme a noi lo zoccolo duro di quegli anni erano i Vives, i Darmian, gli Ogbonna e i Gazzi, tutti bravi ragazzi senza troppa esperienza che chiacchieravano poco, ma che avevano voglia di pedalare. Prima degli allenamenti scherzavamo sull’italiano di Cerci (e il solo fatto che a riprenderlo sulla grammatica fossimo io, Kamil o Omar, tutti stranieri, già fa ridere) o ci accanivamo su Lys Gomis se sbagliava al gioco dei due tocchi (quanti schiaffi che ci siamo dati, roba che poi ti facevano male il collo e la testa per una settimana). Ma quando si iniziava a lavorare, nessuno tirava indietro la gamba. Ci davamo dentro senza guardare in faccia a nessuno e questo credo abbia fatto la differenza.
Io e mio fratello minore siamo nati a Losanna, il maggiore in Kosovo. I nostri genitori sono Kosovari, ma non ho da raccontare una storia strappalacrime legata alla guerra perché, per nostra fortuna, ci trasferimmo in Svizzera prima che iniziasse, seguendo il lavoro di papà. Mio padre non capiva granché di calcio, ma ci mandò a giocare soltanto per toglierci dalla strada e farci passare un po’ di tempo. Ora si ritrova con due figli calciatori (oltre a Migjen, il più piccolo dei tre, Vullnet, gioca da centrocampista nel Wisla Cracovia, ndr) e un terzo che passa il tempo a commentare le nostre prestazioni. Non vede l’ora di criticarci e potrebbe benissimo fare il capo ultras di qualche tifoseria. Da piccoli eravamo scalmanati, delle vere teste di cavolo. Una volta, cercando di rincorrere gli altri due, sfondai una porta a vetri e rischiai di tagliarmi le vene di un braccio. Un altro giorno scesi con uno slittino da una montagna innevata, ma mi ci sdraiai di pancia e quando quello si fermò di botto io mi spaccai il mento. Sono stato un bambino felice con un’infanzia assolutamente normale, direi. Ma non chiedetemi chi è più forte tra me e mio fratello. La mia risposta è: nessuno dei due, altrimenti saremmo al Real Madrid!
I ricordi più belli di questi trentun anni sono tre. Due sono col Toro: la promozione in A e l’anno della qualificazione in Europa League. Aver fatto parte di quel gruppo e aver dato una mano a raggiungere quel traguardo per me rimane impagabile e anche se magari qualcuno non si ricorda di me, io vivrò sempre di quei momenti. Poi la qualificazione all’Europeo con la Nazionale Albanese, altra emozione immensa.
In assoluto – perché non c’è solo il calcio nella vita – la nascita di mia figlia. Lei mi ha fatto capire tante cose e mi ha cambiato tantissimo.
A distanza di tanto tempo ormai continuo a ricevere messaggi e lettere da parte dei tifosi del Toro che mi ricordano con grande affetto e per me vale lo stesso sentimento nei loro confronti. L’unica macchia legata al Toro è legata al modo in cui sono stato mandato via.
Ho dato tutto per tre anni ed ero apprezzato, tanto che si stava già parlando del mio rinnovo. Sul finire della terza stagione mi feci male. Il recupero andò per le lunghe e nonostante la stagione successiva Ventura mi avesse consegnato la fascia di capitano e fosse arrivato anche un bel gol contro il Parma, giocai pochissimo, ma, ancora peggio, avevo già capito che il mio tempo in granata era scaduto.
Avevo giocato otto mesi con un piede dolorante. Facevo infiltrazioni di cortisone ogni due o tre settimane soltanto per poter correre. Alla prima visita medica, lo staff del club disse che non avevo nulla. “Sono venti giorni che il dolore si è acuito e non accenna a passare – insistetti –. Possiamo fare altri controlli?”. “No – ribadirono –, non hai nulla”. Io dovetti fermarmi completamente, non riuscivo più nemmeno a camminare. Chiesi di essere visitato da qualche specialista, risposero “se vuoi, vacci pure a tue spese”. Si trattava della mia carriera e della mia salute, per cui andai in Germania. Scoprirono un infortunio grave alla fascia plantare che richiedeva un intervento chirurgico. Mi operai, pagando tutto di tasca mia.
Il luglio successivo, al momento dell’inizio del ritiro, non avevo ancora ripreso del tutto. La società mi disse che potevo andare dove volevo a curarmi. Andai a Bologna, sempre a mie spese, poi a ferragosto, con tutto il gruppo in congedo per tre giorni, io scelsi di rimanere in Sisport per continuare ad allenarmi. Un giocatore professionista, per contratto, quando è a disposizione di un club dovrebbe sempre avere un dottore o un fisioterapista a seguirlo. Il Torino non mi mandò nessuno, rimasi tre giorni a fare esercizi per conto mio.
Per cui fin da quell'estate sapevo che la società non voleva più rinnovarmi il contratto. Scelta legittima, i giocatori vanno e vengono e forse io avevo concluso un ciclo. Ma per capire le intenzioni del Torino in anticipo di un anno, non mi servì essere veggente: mi bastò rialzare la testa da quel piede dolorante e guardarmi intorno. Ero solo.
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