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Le Loro storie, Rachid Arma: “Noi figli non potremo mai fare abbastanza per i nostri genitori”

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Esclusiva / Prima della Spal e del Toro la fabbrica e un soprannome: "Otto ore da operaio e poi andavo al campo. Mi chiamavano 'Piattella'"
Marco Parella

Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.

Di padri lontani ce ne sono tanti: non fanno notizia, ma fanno il bene delle loro famiglie. Anche Rachid Arma ne ha avuto uno e ne ha sentito tanto la mancanza, ne ha imitato le orme in una fabbrica veronese per pagare il mutuo a mamma, fratelli e sorelle e ancora oggi lo prende come modello. Prima di una onorevole carriera tra cadetteria e Serie C, prima di un soprannome curioso (l'altro, "Arma letale" è incommentabile), prima di trovarsi a un fischio dal diventare un eroe granata. Prima di tutto questo, c'era e c'è un ragazzo molto normale.

 

A quel gol annullato ci ho pensato l’altra sera guardando in tv la finale di Coppa Italia tra Juve e Milan. Arbitrava Damato, lo stesso che mi fischiò quella trattenuta ininfluente contro il Brescia. Un gol che poteva valere la Serie A...

Ho tirato un po’ la maglia al difensore, un gesto istintivo, ma lui era girato dalla parte opposta, per cui non l’ho ostacolato in direzione della porta. Quel gol era buono, buonissimo. Non scherziamo. Non ho dormito per due giorni dopo la partita tanta era la rabbia che avevo in corpo. Rimanevo sveglio nel letto a pensare a cosa sarebbe potuto cambiare per me: due anni prima giocavo in Serie D, quello sarebbe stato il triplo salto dopo C e B in così poco tempo. Sarebbe stato un sogno. Nonostante questo non penso che il mio percorso calcistico sarebbe cambiato. Andare in A sicuramente avrebbe migliorato il mio bagaglio personale, ma comunque la stagione successiva sono andato a giocare a Vicenza in B, quindi sono rimasto in categorie importanti.

In Marocco da bambino giocavo a calcio al pomeriggio con gli amici. Quando avevo sei anni mio padre se ne andò a cercare lavoro lontano. Prima in Libia, per un periodo in Tunisia, infine oltre il Mediterraneo, in Italia. Girò per tutta la penisola, poi trovò una sistemazione in provincia di Verona. Appena prese casa io, mia sorella e mia madre lo raggiungemmo. Erano passati tre anni, tre anni lunghissimi, in cui lo vedevamo una volta ogni tanto, quando poteva permettersi di tornare per qualche giorno. E quando ripartiva ci abbracciavamo tutti piangendo. Sapevo che doveva andare, sapevo che lo faceva per noi, che andava alla ricerca di un futuro migliore per la sua famiglia, ma non è stato facile. Nostra mamma ha avuto tanta forza e pazienza a crescerci da sola, ora che sono diventato padre lo capisco molto bene.

Ho un bambino piccolo e adesso mi sono chiari tutti i sacrifici che hanno fatto i miei. Ognuno di noi sarà sempre in debito con i suoi genitori perché quanto facciamo noi per loro, non sarà mai abbastanza rispetto a quanto hanno fatto loro per noi.

Mentre mio padre era lontano da casa cercavo di immaginare come poteva essere il posto in cui viveva. Guardavo i film in tv e mi facevo mille storie in testa, pensavo a palazzi altissimi, tecnologia all’avanguardia, luce dappertutto. Quando arrivammo nel veronese, invece, fu esattamente l’opposto. Mio padre abitava in un piccolo paesino, non c’era nessuno per strada e per di più era dicembre, per cui passare dai 30 gradi di Agadir ai mucchi di neve fu traumatico. Ci misi un po’ ad abituarmi. Ora l’Italia è casa mia, ho vissuto più qui che in Marocco, ma sento ancora forti le radici e quando finisce il campionato torno sempre là per staccare la spina e scaricare le pressioni di tutta la stagione.

La mia è una storia un po’ diversa da quella di tanti altri calciatori venuti in Italia per inseguire un sogno sportivo. Io mi sono trasferito per ritrovare mio padre. Qui sono nati gli altri due miei fratelli e a diciotto anni ho abbandonato la scuola per andare a lavorare insieme a mio padre. Serviva una mano per le spese di casa, avevamo le rate del mutuo da pagare, l'auto da mantenere e i soldi non bastavano mai. Sono entrato nella sua stessa fabbrica che produceva carrelli elevatori, entrambi operai metalmeccanici. Mio padre ci lavora ancora adesso, io ci sono stato qualche anno. La prima stagione in cui mi ha preso la Sambonifacese, Serie D, lavoravo in fabbrica otto ore e alla sera andavo ad allenarmi. I due anni seguenti ho continuato comunque a fare un part-time al mattino e al pomeriggio mi univo alla squadra.

Non sapevo dove mi avrebbe portato il calcio e preferivo stare coi piedi per terra e aiutare i miei genitori.

Qualche tempo dopo, nello spogliatoio della Spal iniziarono a chiamarmi “Piattella” perché tiravo solo di piatto. È una caratteristica che mi porto dietro da quando sono piccolo. Ho molta forza negli adduttori e preferisco calciare di piatto che di collo. Sia a giro che dritto per dritto, mi riesce meglio colpire con l’interno del piede.

A Torino vivevo in una traversa di via Nizza, vicino al Lingotto. Non amo la confusione del centro, la Ztl, ecc. e avevo scelto quella zona per essere vicino alla Sisport. Torino è una città molto bella, viva, che accoglie bene lo straniero. È una città che col tempo si è abituata all’immigrazione e ha imparato a far convivere anime diverse. Avevamo formato un gruppetto con Gorobsov, Statella, Scaglia e Vailatti. Li sento ancora su Facebook, con Statella e Scaglia ci siamo affrontati tante volte da avversari in Serie C. Invece mi dispiace molto per i tanti infortuni che ha dovuto sopportare Ricky (Vailatti, ndr), aveva davvero grandi doti.

Durante la mia presentazione ufficiale al Toro dissi che avrei portato tanti marocchini allo stadio. Mi aveva contattato anche il console marocchino e mi aveva prospettato la possibilità di entrare nella nostra Nazionale se avessi giocato con una certa continuità. Non è andata così, ma giocavo veramente poco perché davanti avevo uno come Rolando Bianchi che fece benissimo e trovare spazio è stata dura. Nonostante questo, qualche mio connazionale allo stadio veniva, difficile portarne di più non giocando.

Però è stato un onore. Mi sono accorto che a Torino c’è un tifo speciale quando, poco tempo fa, ho incontrato in aeroporto dei tifosi granata. Mi hanno riconosciuto: “Tu sei Arma, quello della rete annullata nei playoff”. Mi sono stupito, perché se per quel poco che ho fatto si ricordano ancora di me, figuriamoci l’affetto che dimostrano a uno che ha lasciato davvero il segno al Toro.

Figuriamoci se mi avessero convalidato quel gol.

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