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Le Loro storie, Riccardo Maspero: “Tratto i dipendenti della mia fabbrica come giocatori”

Marco Parella
Esclusiva / Ricordato con affetto a Firenze, idolatrato a Torino, ora l'uomo della buca pensa ai figli: "Il mondo del calcio non è reale, devono pensare a studiare"

Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.

Ingenerosamente famoso per una buca, ora Ricky Maspero si preoccupa di salvare quelli che cadono dai tetti. Ma non molla il sogno di diventare un grande allenatore e soprattutto quello di preparare i figli a quello che succede quando il pallone smette di rotolare, il "dopo". Lo fa con uno dei consigli forse più pronunciati della storia dei genitori di buonsenso: "Studia!".

Per me la fabbrica è un po’ come uno spogliatoio. Nessuno deve pensare di essere un mio dipendente: deve avere rispetto del capo, quello sì, ma deve imparare che qualsiasi cosa faccia, la sta facendo per se stesso. Cerco di coinvolgere il più possibile gli operai perché li ritengo una parte importante del progetto. È esattamente come un allenatore e la sua squadra.

Ci abbiamo riflettuto molto, io e mia moglie, prima di scegliere che tipo di azienda aprire. Lei veniva da una lunga esperienza nell’attività di famiglia che si occupa di carrelli sollevatori per auto e moto, ma quando ho smesso di giocare ci siamo seduti a tavolino per capire cosa fare. Abbiamo messo in piedi questa azienda di linee vita per i tetti e dispositivi di sicurezza per le cadute dall’alto a Villa di Serio (Bergamo). L’edilizia è un mondo particolare, ma noi cerchiamo di stare sempre a galla. Ho sposato una bergamasca e mi reputo fortunato ad aver incontrato una donna meravigliosa che non solo mi ha dato tre figli (due maschi e la più piccola di 11 anni), ma mi ha mostrato cosa vuol dire essere imprenditori e mi ha fatto capire com’è il mondo al di fuori del calcio.

Bisogna pensare in anticipo a come sarà il “dopo” perché finché si è calciatori si vede un mondo che non è reale. È bellissimo, certo, ma a trentacinque anni finisce e devi essere pronto a viverne altri quaranta almeno. La vita vera è un’altra cosa e quello che ti mette di fronte spesso è impegnativo.

Il mondo della fabbrica per me è un diversivo al di fuori del calcio, quasi uno svago mentale. Mi sono dovuto staccare quando ho iniziato a fare l’allenatore. Ora sono fermo dopo l’ultima esperienza a Mantova e mi divido a metà tra l’azienda, che segue mia moglie, e il mio vecchio mondo. Non ho rinunciato a diventare un mister, cerco di rimanere nel giro, mi faccio vedere e vado a osservare le partite, anche se in questo momento non è facile perché siamo in tanti e in giro se ne sentono di ogni colore. C’è qualcuno che accetta di allenare gratis pur farsi vedere. Oppure certe società ti danno il posto, ma senza staff: per me, una buona parte dei meriti di un tecnico deriva da uno staff efficiente e affiatato. Se mi togli una parte importante come quella, diventa difficile lavorare e anche instaurare un rapporto di empatia coi giocatori. Se in uno spogliatoio, il preparatore atletico è un uomo della società, quello atletico è del presidente, un allenatore con chi si confronta? Poi vogliono i risultati e non c’è tempo per programmare con calma. E se sei fuori dal giro cosa fai, non accetti qualsiasi proposta? Lo capisco, vai a lavorare anche gratis, ma poi non stupiamoci se il livello qualitativo di certi campionati scende sempre più.

Mio figlio maggiore, Alessandro, ha vissuto in pieno il periodo in cui ancora giocavo e sia lui che il secondo si sono trovati dall’avere un papà calciatore che diventa un papà prima imprenditore e poi allenatore. Non è stato facile rapportarsi con il cambiamento. Mi sfottono: “Papà tu giocavi a calcio solo perché erano altri tempi ed erano tutti scarsi, oggi non potresti”. Giocano entrambi, il primogenito in Serie D, il secondo in Juniores, sono due destri di piede e parliamo spesso di pallone. Mi chiedono qualche consiglio, io cerco di far loro capire come funziona questo ambiente. Loro due tecnicamente non sono male (ma quello è un dono genetico!), però hanno delle lacune. Il fisico, per esempio, che ai miei tempi non era così importante, mentre adesso invece è l’unico aspetto che guardano, tralasciando purtroppo la tecnica. Così si bruciano i giocatori…

Quand’ero piccolo e abitavo a Lodi, l’Inter mi ha chiamato tante volte a fare provini, mi volevano. Poi ho scelto Cremona ascoltando i consigli di mio padre: “Guarda quanti sono in prima squadra al Milan o all’Inter quelli che arrivano dalle giovanili. Praticamente zero. Se tu parti dal basso, invece, ti puoi far conoscere e allora i grandi club ti verranno a prendere e sarai pronto per la prima squadra”. Provo a dare lo stesso suggerimento anche ai miei figli. Devono studiare, prima di ogni cosa, perché un titolo di studio ti permette di inserirti, in futuro, nella vita “normale”. Entrare nel calcio oggi è difficile, per cui quello che ripeto loro è che “papà e mamma ti danno delle possibilità. Tu prima studi e poi ti diverti con il calcio. Non ti chiedo di uscire da scuola col 10, esci col 7, ma portando avanti in parallelo studio e pallone”. Il secondogenito è micidiale e ribatte sempre: “E tu allora? Tu hai scelto di giocare a calcio”. “È vero – rispondo – , ma ora che sono più cresciuto ho capito che è meglio non seguire troppo il mio esempio. È meglio studiare”.

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