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Le Loro storie, Roberto Muzzi: “Io cresciuto per strada, ora penso solo al bene di mio figlio”

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Esclusiva / Il bomber di Torino e, tra le altre, Cagliari: "Io e Totti abbiamo imparato tutto nei vicoli sotto casa. Gigi Radice cambiò la mia vita"
Marco Parella

  • Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.
  • Gli anni passano, si diventa più pensierosi. E allora capita che l'uomo sopra il Toro della notte di Torino-Mantova, l'icona della romanità giallorossa ante-Totti, il rude guerriero dal capello sudato e dal pettorale prepotente si trovi a riflettere sul futuro di suo figlio (del maggiore Ramon. C'è anche Nicholas, anche lui calciatore, più vecchio di due anni). Roberto Muzzi è un padre preoccupato come tutti, positivo come pochi, disposto a mettere da parte il proprio orgoglio come pochissimi. Il mondo è cambiato e, almeno a livello calcistico, non pare in meglio. Grazie Robbè.

     

    Mio figlio ha vent’anni. Fino ai 14 mi ascoltava, ora per i problemi calcistici parla con il suo procuratore.

    Io faccio solo il papà.

    Non mi impiccio tanto, anche se certe volte mi devo trattenere perché Ramon poi inizia a dirmi “io so’ io e te sei te; io ho certe caratteristiche, tu ne avevi altre”. Ha il suo carattere, la sua personalità e non vuole fare paragoni. È giusto così, io preferisco fare il genitore e dargli consigli su come comportarsi, sulla vita in generale. È cresciuto nelle giovanili della Roma, poi Torino, Lazio, Brescia e quest’estate è passato al Savona, in Serie D. Ci sono giovani che esplodono presto e si ritrovano subito in Serie A o in Nazionale e altri che ci arrivano più tardi. Lui deve ancora maturare, ma ha buone chances di diventare un professionista. È un ragazzo molto umile, sa quali sono i suoi limiti e dove migliorare e si comporta da professionista.

    L’importante per me è che dia il massimo. Gliel’ho detto un sacco di volte: “Fai la tua strada, se ti piace continui, altrimenti vai a lavorare”. Non c’è nulla di male e non è detto che lui diventi un calciatore per cui qualunque scelta farà per me l’importante è che sia felice. Il destino non lo puoi comandare e se la sua strada non sarà quella del calcio, rimarrà sempre mio figlio e io cercherò di metterlo sulla giusta via per un lavoro. A 14 anni io facevo il carrozziere e so quanto valgono 1.200 euro al mese. Quello del calciatore o dell’allenatore è un mestiere che richiede grandissimi sacrifici, ma ripaga con tantissimi soldi. Ma chi fa il muratore, l’operaio, il meccanico si fa un culo enorme per uno stipendio molto, ma molto più basso. Bisogna rispettare tutti i lavori, soprattutto quelli più duri del nostro. A me interessa solo che mio figlio sia felice e vorrei fargli vedere che anche la gente normale che ha un lavoro normale e non può permettersi la Ferrari, ma soltanto una macchina normale, può e sa essere felice e costruirsi una famiglia stupenda.

    Nel mondo del calcio non basta essere bravi e responsabili, certe volte serve un po’ di culo per essere al momento giusto davanti alla persona giusta. Per me fu fondamentale Gigi Radice.

    Quando ero alla Berretti della Roma non giocavo mai, anzi andavo sempre in tribuna. Certe volte non venivo nemmeno convocato, stavo proprio a casa. Ero un anno più giovane per cui l’allenatore degli Allievi Nazionali, Barbanti, mi chiese di scendere di categoria. Io accettai e negli Allievi feci trenta gol in stagione. La stagione successiva feci il salto direttamente in Primavera, ma mister Spinosi fu subito chiaro: “Tu sei il quinto attaccante”. Decisi di aggregarmi lo stesso per la preparazione estiva e giocarmela, poi ci fu un’amichevole contro il Cagliari (vedi il destino) che allora era in Serie C. In tribuna quel giorno venne anche Gigi Radice, allenatore della prima squadra della Roma. Io sapevo che non sarei mai entrato e mi portarono in panchina solo perché era un’amichevole. Dopo nemmeno un quarto d’ora, però, entrambi gli attaccanti in campo si infortunarono. Io ero il quinto, quindi entrarono le due riserve, ma a mezz’ora dalla fine uno di questi prese dovette uscire per una distorsione. Entrai e feci due gol.

    A fine partita Radice mandò il suo vice in spogliatoio perché doveva aggregare quattro ragazzi alla prima squadra, aveva già scritto i nomi. Io ero in doccia e mi ricordo che all’ultimo cancellarono quello di un mio compagno e scrissero il mio. Qualcuno poi gli chiese se era sicuro: “Voglio quel ragazzo, punto”, rispose deciso. Da quel momento per me cambiò tutto. Da quinto attaccante della Primavera alla Serie A. Giusto il tempo di fare due allenamenti, poi un’altra amichevole, stavolta contro la Cremonese. Radice mi buttò dentro negli ultimi venti minuti al posto di Rudy Völler e io segnai ancora. Erano passate poche settimane e i giornali mi soprannominavano già il “Baby Völler”. Fu pazzesco, inaspettato, quasi imbarazzante.

    Ho sempre avuto un carattere forte, determinato perché arrivavo dalle levatacce alle 5 di mattina e da giornate passate sotto alle auto. Questo mi ha aiutato tanto. Oggi a un giovane che va in prima squadra fanno subito un contratto da due o trecento mila euro e questo modifica la loro prospettiva. Io dopo sette mesi di Serie A prendevo un milione e duecento mila lire. Era il minimo sindacale e persino Giannini e altri più grandi di me andarono in società a chiedere che almeno mi venissero riconosciuti i bonus come a loro. All’epoca c’erano i premi a punto: ogni punto prendevi magari 40.000 lire in più, io vivevo su quelli. Ero avvelenato perché vincere voleva dire che a fine mese prendevi più soldi, perdendo invece avevo solo lo stipendio base. Se io avessi una società questa regola la applicherei immediatamente, ma dovrebbe essere la Fifa a implementarla a livello globale, altrimenti i calciatori più importanti emigrerebbero subito nei campionati dove non c’è. Nessuno la accetterebbe al giorno d’oggi.

    Le ultime generazioni sono cambiate tanto dalla mia. Nessuno gioca più per strada. Di campetti ne sono rimasti pochi e c’è anche più delinquenza per cui i genitori non si fidano più a lasciar andare i figli. Da piccolo io scendevo di casa al pomeriggio e tornavo alle 9 di sera. Quella è una scuola che mi è servita tantissimo e come a me anche ai vari Baggio, Del Piero, Vialli, Mancini. Tutta gente che giocava per strada con gli amici. Con Francesco Totti io ci sono cresciuto e dopo scuola buttavamo giù le serrande dei negozi chiusi a furia di pallonate.

    La strada manca tanto alle nuove generazioni. Il primo giorno in cui sono entrato a Trigoria per allenare gli Esordienti della Roma ho fatto fare una partitella. Non ho dato le casacche ai ragazzini e i responsabili mi hanno rimproverato: “Roberto, non puoi non far indossare le casacche, i ragazzi poi non si riconoscono in campo”. “Ma tu da piccolo ci hai mai giocato per strada? – ho ribattuto – Avevi le casacche?”. Io sapevo che ero in squadra con il bambino col maglione blu, con quello vestito di rosso e con quello con la maglietta gialla. In questo modo ho imparato ad alzare la testa e guardare dove passare la palla. Oggigiorno i bambini hanno le casacche numerate, le borracce, i conetti. Per strada non c’era niente e mi sono dovuto dare una svegliata in fretta.

    In tutta Europa la situazione è praticamente la stessa anche se, per esempio, allo Sparta Praga dove ho allenato fino ad aprile i bambini si allenano tutti i giorni, non due o tre volte a settimana come qui da noi. Hanno a disposizione 9 campi in erba, un centro sportivo spettacolare che non è riservato solo alle varie categorie dello Sparta, ma è a disposizione anche delle squadre dilettantistiche. Invece l’unico posto che continua a sfornare campioni sapete qual è? Il Sud America. Lì si continua a giocare per strada, tra le case e quando poi i ragazzini si confrontano con i nostri, a pari età, sono tecnicamente molto più forti. Ma davvero tanto. Se i giocatori più forti della storia sono Maradona, Pelè, Ronaldo, Messi e arrivano tutti da là, un motivo ci deve essere.

    Mio figlio purtroppo è già di quella generazione che non ha vissuto queste cose. Io ho cercato di spingerlo ad andare ai giardini o a giocare in qualche campetto, però ero l’unico. I suoi amichetti preferivano stare a casa a giocare con la Playstation per cui quando non mi allenavo lo portavo io a giocare. Raramente abbiamo incontrato degli altri bambini. Adesso in strada non c’è più nessuno, devi per forza iscriverti a una scuola calcio, ma tanta gente non ha 250-300-400 euro da spendere. E se per strada non puoi giocare e la scuola calcio non puoi permettertela, cosa resta ai nostri figli?

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