mondo granata

Le Loro storie, Stefano Fiore: “Astori come Moretti, esempi. Valorizziamoli prima che sia troppo tardi”

Le Loro storie, Stefano Fiore: “Astori come Moretti, esempi. Valorizziamoli prima che sia troppo tardi” - immagine 1
Esclusiva / Il centrocampista riflette su chi ha influenzato la sua vita: "Zola e Maldini mi formarono, Rosina rimpianto di una possibile amicizia"
Marco Parella

Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.

I grandi palcoscenici, i trionfi, gli ultimi anni a Cosenza, a casa. Come per chiudere un cerchio che, in quasi vent'anni di calcio giocato, ha visto entrare (e uscire) dalla vita di Stefano Fiore tanti compagni. Giovani, esperti; italiani, stranieri; gioviali, riservati. Ma quanti di loro hanno influito nella sua crescita umana, più che professionale? Quanti Uomini ha incontrato Stefano tra migliaia di professionisti del pallone? Il suo elenco riserva qualche sorpresa (anche granata), qualche conferma (anche granata) e un amaro consiglio.

Nella vita servono degli esempi, ognuno trova i suoi. Uomini, prima che calciatori, nel nostro caso.

Agli inizi della carriera queste figure ti rimangono più impresse perché ti affacci giovanissimo in un mondo di giocatori affermati. Quando sono arrivato a Parma avevo poco più di 18 anni e Nevio Scala fu un secondo padre per me. Mi trattava non da ragazzo, mi faceva sentire importante per la squadra già allora e lo faceva in maniera tangibile, davanti a tutti i campioni di quello spogliatoio.

Sempre a Parma ricordo bene il rapporto con Zola: era al top della fama, reduce da un Mondiale eppure si fermava a fine allenamento a insegnare ai più giovani, alla mano, genuino. Mi diede tanti consigli azzeccati, ma eravamo di generazioni diverse per cui il legame non è poi proseguito nel tempo. Però quando ci incontriamo è sempre un bel momento.

Chievo e Udinese invece erano squadre in cui i giovani andavano a formarsi, per cui legai con molti della mia età. In particolare con Giuliano (Giannichedda, ndr), che col passare degli anni è stato a lungo mio compagno di squadra ed è diventato amico vero fuori dal campo, ancora oggi. Siamo cresciuti praticamente insieme e per fortuna abbiamo giocato spesso insieme.

Il calcio, come la vita, purtroppo va molto veloce. Non è facile mantenere i contatti se i percorsi sono diversi. Ci sono rapporti che pensi possano essere duraturi e poi si interrompono perché uno dei due cambia squadra. Fu così con Rosina al Toro. Alessandro lo conoscevo da prima perché siamo conterranei e avevo seguito le sue avventure da distante, visto che fa sempre piacere sapere cosa fanno quelli delle tue parti. Mi ero fatto una certa idea su di lui e cioè che fosse un ragazzo perbene, che aveva lasciato la sua terra molto presto e non aveva avuto paura di farlo per inseguire i propri sogni. Quando iniziai a conoscerlo, confermai tutto. Educato, riservato, timido nonostante la fascia di capitano, poco appariscente. È sempre stato un ragazzo che sapeva di avercela fatta, ma non per questo si credeva chissà chi. Sotto questo aspetto mi assomigliava molto. Purtroppo io rimasi a Torino solo sei mesi e ci separammo abbastanza presto. È uno di quei rapporti che se fosse durato un po’ di più forse avrebbe potuto avere altre sfumature.

Le parti si invertirono, lo sentii distintamente, nella mia ultima esperienza, a Cosenza. Ero un vecchietto in un ambiente pieno di giovani e tanti si sorprendevano a vedermi lì, per cui ero un po’ oggetto di osservazione. Ho sempre prestato molta attenzione ai comportamenti, perché quando rappresenti un esempio per qualcuno, è importante dare i  segnali giusti.

Io ho sempre ammirato, al di là della fascia di capitano, chi non guardava soltanto al proprio orticello e metteva i propri interessi dopo quelli del gruppo. Riconosci subito a pelle gli uomini di questo tipo: dal modo di giocare in campo, dal saper tutelare chi è in difficoltà in quel momento, dall’essere in grado di sostenere un compagno con una parola di conforto o difenderlo. Alla Lazio, per esempio, subimmo una contestazione abbastanza severa e gente come Mihajlovic e Fernando Couto non si tiravano mai indietro quando c’era da assumersi delle responsabilità. Era gente di spessore, capace di metterci la faccia davanti ai tifosi tanto quanto davanti all’allenatore o ai compagni. Il leader non è quello che alza la voce, nel nostro mondo contano molto di più i comportamenti.

Nella mia carriera mi è capitato di rivestire questi panni molto presto. Dopo aver vinto la coppa Uefa nel ’95 col Parma, venni mandato in prestito al Padova. Ero ancora un signor nessuno in uno spogliatoio pieno di giocatori affermati ed esperti. Stavamo per retrocedere, i senatori non avevano voglia di dire le cose scomode e si nascondevano dietro le solite frasi tipo “dobbiamo allenarci di più”. Io avevo una mia idea e, nonostante i miei vent’anni e pur con educazione, mi permisi di andare contro parte dello spogliatoio e dire tutto quello che pensavo. Rimasero tutti un po’ sorpresi, ma fu significativo che il capitano, Damiano Longhi, venne da me a complimentarsi per il coraggio. Non so se lui e altri (soprattutto Sandreani, il mister…) fossero d’accordo col mio pensiero, ma apprezzarono lo spirito. Io ho sempre cercato di essere leale, vero e rispettoso delle mie idee.

Al rientro in spogliatoio dopo le partite, Maldini ringraziava singolarmente ogni compagno passando a stringere le mani. Una cosa semplice, banale, ma che fatta da Paolo è un segnale fortissimo. Quando arrivai in Nazionale lui mi fece sentire come se fossi sempre stato lì. Era sempre pronto alla battuta, disponibile a ridere e scherzare e ti toglieva la pressione di indossare la maglia azzurra. La sua umiltà e il suo esempio ti fanno riflettere: si diventa campioni perché dietro, anzi, prima del calciatore, c’è una persone speciale.

Uno così è Emiliano Moretti. Abbiamo giocato insieme a Valencia e lui è quel che si dice un leader silenzioso, uno che non si è mai permesso atteggiamenti egoistici o sbagliati, anche quando, come nel Torino, è una figura di riferimento. Anche da ragazzino sembrava più grande e maturo di quanto fosse, io l’ho sempre detto. Dava l’esempio in silenzio, allenandosi e non fiatando mai, anche quando veniva considerato poco dagli allenatori. Lui non è uno che ti colpisce in campo, ma è affidabile e quando hai una carriera lunga come la sua vuol dire che gli allenatori apprezzano le doti tecniche, ma anche quelle umane. Emiliano è sempre stato positivo, pronto a fare quello che serviva nei modi e nei tempi giusti e in maniera da essere seguito dal gruppo. Questo aspetto della sua persona credo che gli abbia allungato la carriera. Emiliano è un ragazzo speciale.

Non ho avuto la fortuna di conoscere Davide Astori perché quando lui iniziava a giocare, io finivo. Non ho fatto in tempo a incrociarlo, ma secondo me avrebbe potuto diventare un “Moretti”. Anche lui è sempre stato uno sì ben considerato, ma mai da prima pagina, un ragazzo pacato, non alla ricerca di chissà che cosa. Per motivi drammatici abbiamo scoperto dalle testimonianze di tutti quelli che gli volevano bene che le nostre impressioni erano esatte, che tutti quei valori che si intravedevano dall’esterno, li portava davvero dentro di sé. Abbiamo perso una gran bella persona.

Queste figure nel mondo del calcio sono sempre più rare, in via di estinzione. Un po' perché le difficoltà fanno emergere chi sei davvero e spesso svelano chi pensa più a sé che al gruppo, un po' perché i tempi cambiano e le valutazioni sono diverse. Io rimango un romantico e per quanto un cambiamento ci sia stato, anche a livello “genetico” (un calciatore di oggi è molto diverso fisicamente anche solo da uno della mia generazione), ciò che non deve cambiare è l’importanza dei valori umani. Bisognerebbe considerarli di più, perché se è vero che a pallone si gioca coi piedi, col fisico e con la testa, le partite si vincono anche col cuore e le qualità morali. E quelle non si allenano, o le hai o non le hai. Però queste risorse – e non uso un termine a caso – dovrebbero essere sottolineate e valorizzate nei modi e nei tempi giusti. Non solo, come successo con Davide, quando ormai è troppo tardi.

PRECEDENTI PUNTATE

LEGGI: 

LEGGI: 

LEGGI: 

LEGGI: 

LEGGI: 

LEGGI: 

LEGGI: 

LEGGI: ”

LEGGI: 

LEGGI: 

LEGGI: 

LEGGI: 

LEGGI: 

LEGGI: 

LEGGI: 

LEGGI: 

LEGGI: 

LEGGI: 

LEGGI: 

LEGGI: