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mondo granata
Un nuovo modo di raccontare il calcio: quello dei protagonisti. Calciatori, allenatori, dirigenti. Sempre sotto la luce dei riflettori, ma mai veramente compresi o comprensibili. Noi li vogliamo avvicinare ai tifosi e ribaltare il meccanismo delle interviste. Non saremo noi a chiedere, saranno loro a raccontarci un aspetto del mondo in cui vivono. Un tema libero, potremmo dire. Sono i protagonisti stessi della nostra passione a condividere con noi “Le Loro storie”. Senza filtri, senza meta.
Fino al 12 settembre Valerio Di Cesare era in Serie A, tesserato di quel Parma che aveva contribuito in prima persona a portare dalla Lega Pro al massimo campionato. Oggi, dopo un triplo salto carpiato verso il basso, è tornato al rifondato Bari di De Laurentiis, in Serie D. Lo ha fatto perchè è un padre e ha pensato al futuro dei suoi figli, ma in testa ha ancora l'obiettivo di tornare nel "suo" campionato: quella Serie B che oggi è vergognosamente in bilico tra normative assurde e un livello tecnico che non diverte e non fa nemmeno crescere i giovani. Considerazioni di un calciatore semplice, uno che ama il pallone e del resto non gliene frega nulla, neanche di un allenatore un po' scorbutico...
Rispetto a quando ho 18 anni vedo il calcio con un’altra ottica. Da giovane ero stupido, sempre a scherzare. Adesso vedo le cose in maniera diversa, riesco a capire le decisioni degli allenatori. Una volta se non ero titolare mi incazzavo come una bestia, oggi mi incazzo uguale, ma capisco che l’allenatore deve scegliere tra 22 giocatori quelli che gli danno più garanzie di vincere. Perché lui non è che vuole perdere, vuole vincere anche lui. Poi ci sono quelli che hanno le loro fisse e lì non puoi fare nulla. Hai voglia a dimostrare…
Ne ho avuto qualcuno di allenatore così. Anche a Torino con Ventura, soprattutto l’anno della Serie A (2012/’13, ndr). Mi schierò titolare a San Siro e feci una gran partita, ma la settimana dopo fece giocare comunque Kamil. Mi incavolai, ma mai con Kamil, lui che colpa ne aveva? La colpa al massimo era di chi lo faceva giocare sempre. Io e Kamil avevamo instaurato un rapporto di grande complicità e ancora adesso lo sento. Ho sempre avuto un buon rapporto con i miei compagni di reparto, nonostante la concorrenza, ma con lui fu ancora più stretto.
In B ci alternavamo alla pari: giocavo io 5 o 6 partite, poi altre 5 o 6 lui. Io mi incazzavo, lui si incazzava, ma, ripensandoci oggi, il mister ci ha proprio gestito alla grande, è riuscito a farci sentire entrambi importanti. Kamil fece un salto impressionante dalla B alla A. Era arrivato irruento, grezzo, tecnicamente deboluccio: migliorò tutti i fondamentali. Infatti poi quando il mister mi metteva in panchina, io giustamente ero nero, poi però mi calmavo e mi dicevo: “ma che te voi incazzà, Valè. Lo vedi chi hai davanti?”. Kamil è uno dei difensori più forti che ho mai visto, ma il merito va dato anche a chi lo ha allenato. Ventura, checché ne dicano, rimane uno dei migliori allenatori in circolazione. Quando accettò l’incarico della Nazionale pensai subito che avesse sbagliato. Lui non è un allenatore da Nazionale, è uno da campo, deve avere i giocatori vicino ogni giorno, non può vederli una volta al mese. Col Chievo ha accettato una situazione molto complicata per volersi rimettere in gioco a tutti i costi. Mi dispiace quando lo attaccano perché chi lo ha avuto come allenatore sa quanto è forte e, vedendo certi suoi colleghi in giro adesso, è un peccato vederlo arrancare. Anche a settant’anni rimane uno dei migliori.
A livello umano non era il massimo, lo so, ma a me lui ha aperto un mondo e se mai un giorno io dovessi fare l’allenatore sarà per merito suo. Anche se sotto il profilo dei rapporti personali a me poteva non starmi simpaticissimo, mi interessa poco perché un allenatore deve essere bravo in campo, deve far giocare la squadra, dare la sua impronta, il resto è un di più. Con Ventura io entravo in campo e sapevo esattamente quello che dovevo fare. E adesso che ho 35 anni e di allenatori ne ho conosciuti parecchi, posso dirvi che era solo merito suo.
Io non concepisco quegli allenatori che non danno la propria impronta alla squadra. Ce ne sono tanti che magari hanno anche vinto dei campionati, ma la loro unica istruzione è dare palla agli attaccanti, se ne hanno di forti, e vedere cosa succede. Non so dire se gli allenatori di oggi siano più scarsi di quelli di vent’anni fa, ma per me, come Ventura, Conte o Giampaolo, ce ne sono davvero pochi. Loro insegnano il calcio, non li chiamerei nemmeno allenatori: sono insegnanti, professori. Sono Maestri.
In carriera ho giocato praticamente solo in Serie B, ad eccezione dell’anno in A con il Toro e di quei primi mesi in Lega Pro con il Parma prima della promozione. Lo conosco bene come campionato, ne ho alle spalle una quindicina. È infinito, massacrante. È sempre stato così, tranne quest’anno: l’unico anno in cui non ci gioco io e hanno fatto a 19 squadre e con le soste. Non c’è mai stata una sosta in B, l’hanno fatto apposta! Scherzi a parte, il livello della B è sceso tantissimo. L’ultima stagione davvero competitiva forse fu quella in cui fummo promossi col Toro. Basti pensare che in quel campionato la Sampdoria con in rosa gente come Eder, Icardi, Pellè arrivò sesta.
Il problema è che è diventata una lega di giovani. Una volta ce n’erano due o tre per squadra, adesso nelle rose ci sono dieci giovani appena usciti dalla Primavera e 7-8 giocatori esperti. Per forza che il livello scende. Un tempo i giovani uscivano dalle giovanili e andavano a farsi le ossa su campi improponibili in C1 o C2. Adesso iniziano direttamente dalla B, sono avvantaggiati, ma io credo che questo sistema non sia un bene nemmeno per loro. Perché se un giovane è bravo gioca, altrimenti si allena, migliora, lotta per un posto. Se invece tutto gli è dovuto non crescerà mai. Meglio per me se il livello rimane così basso, così posso davvero giocare fino a 40 anni! Guardate Campagnaro al Pescara: ha quasi 39 anni ed è ancora uno dei migliori della categoria.
Un tempo in B e ancor di più nelle categorie inferiori c’era la fama di gente che non andava tanto per il sottile. Quando sono arrivato qui a Bari in Serie D mi hanno avvertito “occhio che qui menano, stai attento”. Ma dove? Ma che? Manco quello. E non è un discorso di livello tecnico, è che è sparita anche quella mentalità aggressiva, fisica. Io ho avuto la fortuna di avere una formazione di quel tipo quando ero al Chelsea, poi sono stato un po’ stupido e un po’ sfortunato ad andarmene perché altrimenti io sarei rimasto lì a vita. Dopo gli anni con le giovanili del Blues, ero arrivato a 19 anni, il momento della verità per fare il grande salto in prima squadra. E chi ti arriva quell’estate? Abramovich che inizia a comprare tutti giocatori fortissimi. Io mi sono detto “che ce sto a fare qua?”. Però a livello di vita, l’Inghilterra è un’esperienza unica per un giocatore. In Italia se fai un mezzo errorino e magari perdi una partita cominciano con “è scarso, è un cadavere in campo”. Lì invece i giornali non parlano per sei giorni della sconfitta della domenica prima, vanno subito avanti. Poi allo stadio vanno tutti con la maglia della squadra, vedi tantissimi bambini (qui fai fatica a trovarne) e a fine partita i tifosi si fanno una birra con gli avversari.
Io continuo a sperare che un giorno anche l’Italia arriverà a quel livello di cultura sportiva, ma in realtà ci credo poco. Si continua a dire di voler riformare il calcio e poi ci sono sempre gli stessi personaggi. Quello che è successo quest’anno in Serie B è una vergogna mondiale. Siamo a novembre e non sappiamo ancora se l’Entella torna in B o no. In Lega Pro ancora peggio: la Viterbese ha giocato due partite, le altre squadre undici, l’entella due, la Pro Vercelli sei. Ma che roba è? Ma che roba è? Dove vogliamo andare solo con le chiacchiere? Il calcio è stato, è e rimarrà, con tutto il rispetto per gli altri, lo sport più praticato e importante d’Italia. Ma noi non riusciamo nemmeno a curarci della cosa che fa andare avanti questo Paese…
Per me sarà difficile smettere. Ho ancora voglia e se riesco giocherò fino a 40 anni, come il mio amico Lucarelli, poi magari diventerò un direttore sportivo, qualcosa ho in mente. Ma io vivo di calcio e non sono uno di quelli che va al campo e timbra il cartellino. Io arrivo due ore prima e vado via due ore dopo. Quando smetterò sarà durissima perché mi mancherà la vita dello spogliatoio. Alcuni miei ex compagni che hanno già appeso gli scarpini al chiodo mi dicono che a loro non manca nulla. Io non dico che andrò in depressione, ma sarà veramente difficile non provare più tutte quelle sensazioni.
Sono sempre stato un uomo spogliatoio, non ho mai avuto problemi coi compagni. A Parma si era creata un’alchimia speciale, era un gruppo fantastico, lo metto dietro solo ai ragazzi con cui abbiamo ottenuto la promozione col Toro. Antenucci, Iori, Vives, Basha, Kamil, con loro mi sento ancora oggi. Col Parma mi sono lasciato in buoni rapporti, nonostante mi sia dispiaciuto. Sono stato anche un po’ sfortunato perché mi sono operato al menisco e non ho potuto fare la preparazione con gli altri. Mi sono ritrovato a fine mercato estivo senza essermi ancora mai allenato con la squadra e la società ha fatto delle scelte. Ci sta, ho 35 anni, li capisco. Ho dovuto scegliere in fretta perché mi avevano messo fuori lista e a quel punto ho pensato anche alla famiglia. Ho due figli, il grande di 11 anni e la piccola di 7. Ho deciso di tornare a Bari, anche se in Serie D perché conoscevo ambiente e città, avendoci giocato due anni prima. I bambini hanno ritrovato la loro scuola, gli stessi compagni. Anche per la mia compagna che si deve sorbire tutti i miei spostamenti, è stato meglio. Quando l’ho conosciuta lei aveva un suo lavoro a Roma, una sua indipendenza. I primi due anni in cui io giocavo a Vicenza avevamo il bimbo piccolo e non mi ha seguito, poi ha dovuto fare una scelta e ha lasciato il lavoro per starmi vicino.
Mi reputo molto fortunato, nel calcio e nella vita.
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