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- Redazione TORONEWS
mondo granata
Quando l’estate finisce lascia spesso dietro di sé un sapore dolce-amaro.
Guardi i luoghi che ami come se fosse l’ultima volta che li vedi.
Ci sono estati che non riesci a dimenticare.
Specialmente se sei un ragazzino. Questa storia parla di un derby che venne vinto due volte, di un disco rotto, e di un gruppo di ragazzini che giocavano a fare gli agenti segreti.
Parla di quattro colori e di un’estate che stava finendo dolcemente.
- Zitti, zitti! Lasciatemi ascoltare Enola Gay! Non fiatate!
- Ma non sei ancora riuscito a registrarla?
- Ma no, i DJ ci parlano sempre sopra…
- Chiedi i soldi per il 45, no?
- Non c’è, non è ancora arrivato! Qui in montagna non arriva mai niente!
L’estate 1981.
Enola Gay degli OMD impazzava, nelle radio non si sentiva altro. Solo Nikka Costa ogni tanto rompeva un po’ le scatole.
Eravamo in quattro. Quattro ragazzini coetanei che trascorrevano le lunghe ed interminabili vacanze estive nel paesino di montagna di sempre.
Eravamo troppo piccoli e spensierati, dal basso dei nostri tredici anni, per pensare alle ragazzine.
Le nostre passioni si chiamavano pallone, pallone e ancora pallone.
Ed ovviamente eravamo tutti del Toro, altrimenti come avremmo potuto essere veri amici?
Come dimenticare quella fine estate… quella in cui il Toro affrontò la gobba nel girone eliminatorio di Coppa Italia!
Estate 1981…
Ci piaceva giocare eccome! Ma non solo a calcio. Eravamo quasi tutti lettori del “Giallo dei Ragazzi Mondadori” e fantasticavamo su quelle letture. Come se fossimo seguaci di Jupiter Jones, ci eravamo assegnati dei nomi di battaglia: Il BLU, il VERDE, il GIALLO ed il ROSSO.
Ci lasciavamo messaggi in codice nei posti più impensati, fantasticavamo di strane missioni ma soprattutto avevamo un vero e proprio rifugio segreto.
Era stato il Verde a scoprire l’accesso nascosto a quel bosco che sembrava così fitto. Abitavamo tutti a poca distanza gli uni dagli altri e quel boschetto si trovava a poca distanza dalle nostre case.
Durante una delle nostre esplorazioni, avevamo scoperto un’ampia radura, ai margini della quale si trovava un albero robusto. Era stato lì che il papà del Verde aveva costruito per noi quello splendido rifugio, che era stata la nostra casa per quasi tutta l’estate.
Un rifugio sulla cui sommità sventolava una vecchia bandiera granata.
Ancora con sei scudetti, ma vuoi mettere la soddisfazione?
Era una specie di casetta di legno, dove potevamo stare tutti e quattro.
Nessuno ne era al corrente, a parte qualche genitore e la sorella del Rosso, della quale ci si doveva fidare per forza.
Avevamo addobbato quel posto con ogni ben di Dio. Giochi in scatola per i pomeriggi piovosi, provviste varie, dolciumi e soprattutto una radio a pile.
Proprio quella dalla quale il Blu stava cercando di ascoltare Enola Gay…
Io ero il Giallo perché adoravo leggere storie di detective, ma ognuno aveva una sua particolarità.
Il Blu adorava la musica. I genitori gli avevano quasi imposto lo studio del pianoforte e lui, forse per dispetto, aveva preteso una chitarra, che portava quasi sempre con sé.
Il Verde era il più smilzo e altrettanto non si poteva dire del Rosso, che era quasi l’opposto.
Certo, fosse dipeso da noi avremmo giocato a pallone tutto il giorno e non avremmo avuto bisogno di un rifugio.
Ma tra il dire e il fare c’era di mezzo un grosso problema.
E il problema si chiamava Ringo.
Ringo, un nome, un programma.
Era il terrore del paesino, era il terrore delle nostre vacanze.
Avrà avuto sedici, forse diciassette anni ed era un condensato di tutto quello che non avremmo mai voluto incontrare nella vita.
Era rozzo, violento, attaccabrighe e soprattutto gobbo.
Non c’era giorno in cui lui e la sua banda di seguaci, tutti gobbi matricolati, non ne combinassero qualcuna.
Lui e la sua banda di teppistelli si divertivano a terrorizzare i ragazzini più piccoli.
Noi in particolare.
Ci aveva preso di mira dall’anno precedente, un giorno nel quale ci trovavamo al campo sportivo.
Il Blu era il più piccolo della compagnia. Indossava l’adorata maglia granata numero undici, che all’epoca non aveva certo bisogno di scritte che ne spiegassero il significato.
Era il massimo e basta ed il Blu ne era fiero.
Ringo e i suoi seguaci arrivarono, annunciati dal sinistro rombo delle loro dannate moto.
Saltarono addosso al Blu in un amen e gli sfilarono la maglia, portandogliela via.
Lui cercò tra le lacrime di difendersi come poteva e noi tentammo di aiutarlo, ma, per dirla tutta, prendemmo una sonora dose di botte.
Quella era gente cattiva e vigliacca che se la prendeva con i più piccoli e non aveva certo pietà o misura.
Il Blu pianse per due giorni per il furto di quella maglia.
Non rivelammo mai ai genitori quello che era capitato, per rabbia e per vergogna.
Un granata può perdere tutto, ma non quello.
Non quella maglia.
Odiavamo Ringo.
Ci fosse stato Pulici! Lui sì che era grande e grosso. Lui era il nostro eroe… lui sì che avrebbe saputo cosa fare.
Li avrebbe riempiti di legnate. Lui non sbagliava mai. Lui era il Mito
Ci fosse davvero stato Pulici!
Anche durante l’estate del 1981 Ringo continuò a tormentarci.
Eravamo costretti a passare di fronte a casa sua per andare al campo sportivo e ogni volta facevamo gli scongiuri.
Il fastidio che provavamo nel vedere la bandiera bianconera perennemente esposta era accompagnato dall’angoscia per il timore che ci combinasse qualcosa.
La cosa buffa era che le ragazzine stravedevano, come spesso avviene, per quel duro da strapazzo.
Il Blu lo odiava più di tutti noi.
Lui non si arrendeva facilmente.
Pativa il fatto di essere minuto ma aveva una volontà di ferro già allora.
C’era da giurare sul fatto che aspettasse soltanto di crescere per dare una lezione a quel gobbo.
Ma il tempo a quell’età raramente accelera.
Fu così che costruimmo il nostro rifugio, sapete?
Nei pressi della radura, in quel boschetto.
Quello era il posto nel quale nessuno avrebbe potuto vederci o sentirci.
Potevamo leggere i nostri gialli, ascoltare la nostra musica o anche semplicemente stare al sole mentre i giorni di quell’estate scorrevano dolci, come solo a quell’età potevano essere.
Nessun Ringo avrebbe potuto impensierirci, trovarci o conquistare la nostra bandiera granata con soli sei scudetti, che continuava a sventolare sul rifugio.
L’estate stava finendo davvero.
Si era al sabato e tra il mercoledì e il giovedì tutti saremmo tornati a casa, prima che i tentacoli della scuola ci riafferrassero.
Soprattutto c’era il derby di Coppa Italia, la domenica sera, per sperare e magari gioire, anche se i pronostici erano davvero avversi.
Eravamo costretti a vincere per forza, con la nostra truppa di giovani, mentre dall’altra parte c’era lo squadrone gobbo.
Quel sabato mattina al rifugio notammo l’assenza del Blu.
Lo vedemmo arrivare molto in ritardo. Sbucò dagli alberi e capimmo subito che stava trattenendo a stento le lacrime.
Ci mostrò un piccolo oggetto, che sulle prime faticammo a riconoscere, ma in breve fu tutto chiaro.
Era la copia di “Enola Gay”, che era stata contorta e spezzata.
Proprio adesso che il disco era finalmente arrivato al negozio.
Sapevamo fin troppo bene chi era stato a fare tutto quello.
La domenica pomeriggio subimmo l’ultimo sberleffo da parte del nostro nemico.
Fummo affiancati da una macchina, mentre mangiavamo placidamente un gelato su di una panchina in paese.
Dalla macchina penzolava ogni sorta di atrocità bianconera e lui, Ringo, era seduto dietro.
Stava andando con i suoi “amici grandi” a Torino, a vedere la partita.
Ci ingiuriò, immaginate un po’ come. Ci promise che ci avrebbero sotterrati di gol e che lui ci avrebbe “dato una lezione”, in caso di vittoria gobba.
Restammo a guardarli andare via sgommando, preda della nostra rabbia che sembrava non avere sfogo o soluzione.
Quella sera però ci pensò un uomo di nome Dossena a far girare la ruota dalla parte giusta, con un gol al ’61.
Soffrii inchiodato alla radio fino al fischio finale.
Era vero! Ce l’avevamo fatta: Juventus-Torino 0-1.
Noi qualificati, i gobbi fuori dalla Coppa Italia.
Uscii fuori sul balcone e da lontano vidi una luce lampeggiare.
Era il Rosso, che da casa sua, lanciava segnalazioni, suppongo di giubilo.
- Toro! – mi misi a urlare verso quella luce
- Toro! – mi sembrò di sentire come risposta, anche da altre direzioni.
Eravamo grandi, pensai, mentre le nostre urla si perdevano nella notte.
La mattina seguente ci trovammo al rifugio molto presto, come stabilito
- Ragazzi… non dobbiamo muoverci di qui oggi. Ringo ci sta cercando! – disse il Blu, con gli occhi luccicanti di furbizia.
- Non ho resistito, stanotte non ce la facevo a dormire per la gioia. Ho preso una latta di vernice di mio padre, sono uscito di nascosto e…
- Non sarai mica…
- Si invece. Sono andato sotto casa di Ringo!
Ascoltavamo senza fiatare, come paralizzati.
- Ho scritto con la vernice “0-1”!!! E poi ho scritto RINGO…
- Sei matto, quello ci ammazza! – fece il Rosso
- No, non ho finito… dopo il suo nome ho scritto ….GLIONITO…!
Ci buttammo a terra per il ridere.
Il Blu era stato un grande. Aveva consumato la sua vendetta da solo.
La vendetta per la maglia di Pulici.
Fu una giornata fantastica.
Sentivamo in lontananza il rombo della moto di Ringo e dei suoi compari che ci cercavano, mentre noi eravamo lì al sicuro, a ridere, a scherzare e a goderci il sole di quell’inizio di Settembre.
Fu una delle giornate più belle della nostra vita.
Non pensavamo di essere traditi.
Ma qualcuno lo fece. Il giorno seguente
La sorella del Rosso. Non avevamo pensato a lei.
Lei, che impazziva per Ringo, gli aveva confidato il nostro piccolo segreto.
Poi, presa dai rimorsi era corsa ad avvisarci, proprio mentre il nostro odiato nemico stava andando a radunare la banda per venire da noi.
- Che facciamo, ora? Dove scappiamo?
- Quelli ci ammazzano, come minimo!
- E si portano via la bandiera… ti pare poco?
- No… restiamo qui…
Era stato il Blu a parlare per ultimo. Era il più piccolo, ma ricordo ancora il suo sguardo fermo e deciso.
- Ora basta. Non la smetteranno mai! Questo è il nostro rifugio, qui c’è la nostra bandiera. Affrontiamoli!
Nessuno ebbe il coraggio di dire mezza parola, di fronte alla fermezza di un ragazzino simile.
Sapevamo che saremmo andati incontro a morte certa, ma in quel momento le nostre corde vibravano veramente all’unisono, i nostri colori si erano fusi in uno solo.
Senza tanta retorica, credo non sia difficile indovinare quale.
Spedimmo via la sorella del Rosso e ci travestimmo di coraggio
Utilizzammo quello che avevamo come arma, infilammo delle pentole, che tenevamo nel rifugio, in testa come copricapo di guerra, battemmo sui coperchi per fare rumore e darci coraggio, quasi invocando Ringo e aspettando il momento in cui lo avremmo visto sbucare da dietro il sentiero.
Ma Ringo non arrivò mai.
C’è da giurare che ci avrebbe fatto a pezzettini.
Quel giorno però il destino aveva in mente un altro incontro per Ringo.
Non riuscimmo mai a sapere tutta la verità, ma, per come ci fu raccontata, capitò tutto mentre lui e gli altri stavano venendo da noi in moto.
Forse fu una precedenza mancata, chi lo sa?
Si dice che Ringo fosse sceso e avesse tirato un pugno sul cofano di quella macchina.
Forse il conducente lo conosceva già, forse no.
Fatto sta che scese anche lui.
E riempì di mazzate Ringo mentre i suoi compagni scappavano
Ma tante. Ma gliene diede proprio tante!
Ringo se la passò male, molto male per un bel pezzo.
Chissà chi era quel tipo che nessuno riuscì mai ad individuare.
Noi ragazzini però sapevamo fin troppo bene chi fosse.
C’era un solo uomo sulla terra capace di riportare la giustizia.
E quell’uomo doveva per forza essere Pulici.
- Agenti segreti a rapporto!
- Presenti!
I quattro colori erano di nuovo uno solo e si stavano salutando, l’ultimo giorno prima del ritorno, baciati da quel sole generoso.
Di fronte a noi il nostro rifugio, con la bandiera che sventolava, fiera dei due derby vinti, quello sul campo e quello contro Ringo.
- Che facciamo, la lasciamo così?
- Dai, perché no? Lasciamo tutto com’è. E’ già tutto pronto per l’anno prossimo…
Era difficile mentirsi a quel modo.
Sapevamo che uno di noi si sarebbe probabilmente trasferito.
Sapevamo che un anno a quell’età sembra un secolo.
Sapevamo che forse non ci saremmo più rivisti.
Certo non conoscevamo quella tristezza che stavamo provando.
Avremmo poi imparato, con gli anni, a chiamarla “addio”.
Anche se pensavamo che fosse un arrivederci.
- Bè… ci si vede l’anno prossimo, allora…
- Forza Toro!
- E Forza Pulici!
- Sempre forza Pulici!
E via, ci separammo lungo il sentiero, ognuno verso una strada diversa, lasciando per sempre il nostro piccolo grande rifugio.
Non ci feci più ritorno.
Se non nei miei sogni, che faccio spesso.
L’ultimo ricordo che torna alla mente è il viaggio di ritorno, sul sedile posteriore della vettura materna.
Nel lunotto posteriore vedevo la montagna e quel boschetto allontanarsi sempre di più.
Sapevo che lì, da qualche parte, c’era la nostra capanna e la bandiera a sei scudetti.
Sapevo che quello era il posto dove quattro colori avevano vissuto quella che era stata una grande avventura.
Una fantastica avventura.
Quando l’estate finisce lascia spesso dietro di sé un sapore dolce-amaro.
Guardi i luoghi che ami come se fosse l’ultima volta che li vedi.
Ci sono estati che non riesci a dimenticare.
Quanto fu bella l’estate del 1981!
Quanto fu bella quell’estate, ragazzi.
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