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mondo granata
Viva il veleno, tranne quello gratuito o sputato senza talento. Mi riferisco alle illazioni a caldo di Cristiano Lucarelli sulla vittoria del Toro a Roma: mentre non mi hanno sfiorato quelle del presidente Spinelli, avvolto nei fumi del dopo partita e forse anche in quelli del suo cognome, ho trovato fuori luogo le dichiarazioni del bomber per almeno tre motivi: primo, ha vestito e baciato la maglia granata; secondo, l’ha fatto segnando così poco da doverci per lo meno un po’ di pudore; terzo, avrebbe dovuto sapere che, pur senza sfoderare una memorabile prestazione, la Roma ha colpito tre pali, calciato quattordici corner, cercato più volte il rigore cascando qua e là, protestato per l’invece evidente trattenuta di Brevi in mischia. Colgo allora l’occasione per parlarvi di un ben altro veleno: quello altrettanto livornese ma sublime, spericolato e tenero di Piero Ciampi. Un poeta che ha affidato i suoi versi alle capriole dell’alcol e alle tovaglie del porto, che ha abbracciato emozioni senza ritorno e ce le ha restituite cantando; un artista che qualunque sincero innamorato di canzoni incontra presto o tardi sulla strada. Ciampi nasce nel ‘34 nel vecchio quartiere popolare del Pontino, un labirinto cinquecentesco, una specie di casbah che ne incendia presto il talento e la fantasia. Tuttavia, verso la fine degli anni Cinquanta Ciampi si produce in proverbiali fughe senza meta, la più importante a Parigi dove conquista una certa fama declamando versi in circoli e botteghe per quattro soldi. Al suo ritorno trova gli amici Luigi Tenco e Gino Paoli intenti a picconare la canzone italiana per ridarle forma e vita: incide un disco, ma non è pronto a decollare. Più tardi, quando invece le sue ali artistiche saranno dispiegate, si divertirà a virare ogni volta che un’occasione gli si parerà davanti. Fatto di una pasta che non si lascia modellare, Ciampi coltiva il suo talento e non la sua carriera. E’ Gino Paoli a traghettarlo nella RCA e a inciderne canzoni, ma il successo non bramato non arriva: nessuno o quasi conosce Piero Ciampi, ma lui vuol esser chiamato Poeta. E’ la sola cosa cui tiene, assieme al vino e ai ricordi dei suoi strambi e disperati amori.
“Io sono un poeta. Sempre, anche quando sbaglio lo faccio da poeta. E posso fare e dire quel che mi pare perché sono un poeta. Vinco il Premio Goncourt, vinco il Premio Nobel, se voglio, alla faccia di tutti i letterati di questo mondo. Ma non ce ne sono. Portatemi qua Sartre che a settant’anni scopre la giovinezza: ma è solo quella degli altri e non gli serve. Portatemi qua Moravia che dice d’aver capito tutto della letteratura ma che poi per narrare deve andare in Africa perché qui non c’è letteratura per lui”.
Come il protagonista di una sua canzone, “vive male la sua vita ma lo fa con tanto amore”: è sempre più irrequieto e imprevedibile, davanti a un microfono come in mezzo ad una strada. Spesso pianta tutti in asso: in concerto a Firenze, nel ‘75, scappa senza aver finito il primo pezzo e si vanta d'essere il “cantante più pagato d'Italia… trecentomila lire per mezza canzone”. Inizia a improvvisare sulle note dell’amico e pianista Gianni Marchetti, mette le parole in braccio a quella musica e non le aspetta ritornare: sa che ormai sono di chiunque le vorrà, per sempre. Muore nel 1980 per gli eccessi a cui aveva abituato corpo ed anima, lasciando dietro di sé un’infinità di tracce come questa.
Mia mogliemi scoprìfurenteprotesoa sverginareuna stella.
In fondo, cos’altro deve fare un artista? Un abbraccio a tutti, e buona “attesa”. Marco
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