mondo granata

Long road out of Eden

Long road out of Eden - immagine 1
di Mauro Saglietti e Massimo Ellena
Redazione Toro News

di Mauro Saglietti e Massimo Ellena. Ci sono giornate che rimpiangi in eterno, altre che aspetti per sempre.Altre ancora che non smetti mai di vivere.Questa storia inizia dove finirà molte ore dopo.In un posteggio deserto.

 

Avevamo paura di arrivare tardi.Max ed io, più il terzo compare, ci guardiamo sghignazzando.E’ il primo di una serie di posteggi praticamente deserti nelle vicinanze del Palaforum di Assago inondati dal sole dal mezzogiorno.Ma non c’è altro posto al mondo nel quale saremmo più contenti di trovarci. Con spazi e tempo per riflettere.Come siamo arrivati qui?Da dove è iniziata la lunga corsa che ci ha portati in questo posto? Forse è cominciata quel sabato mattina stesso, appena svegli…

 

Un’occhiata a Toronews prima di partire, non si sa mai che si sia sbloccato qualcosa.Magari una trattativa. Una svolta, perché no?Col cavolo che si è sbloccato. Non si sblocca mai.In compenso gli insulti volano. Una sequenza impressionante.Persone che scrivono col coltello tra i denti.Internet, che avrebbe potuto diventare un mezzo di unità per divulgare informazioni, è diventato un veicolo per sfogare la propria rabbia. Chi aveva voce solo per gridare “Toro”, ora trova sfogo per sfoghi che rimangono sul web come un tempo le scritte rimanevano sui muri.Se questo fosse un libro si intitolerebbe “Se questo è Toro”Sospiro e spengo il pc. E’ ora di partire.

 

Sono le 10,30 di mattina, il sole fuori dalla macchina è torrido e dentro è anche peggio. Ma è una giornata fantastica e non c’è una nuvola in cielo. Una giornata che ci deve condurre al concerto degli Eagles al Forum di Assago.Sono mesi che lo stiamo aspettando, da quando abbiamo comprato i biglietti. Ed erano anni che l’aspettavamo per andarlo a vedere insieme. Anni.

 

Per strada abbiamo parlato di Toro con stanchezza. Sarà Giampaolo? Sarà Colantuono?Ma è un Toro stanco quello di cui parliamo.Quasi un Toro “secco”.Siamo stanchi persino di parlarne ed il discorso scivola via con amarezza.Dov’è finito il senso di amicizia?L’identificazione con gente che sentivi simile a te?Ora c’è solo insofferenza, rabbia e frustrazione.C’è voglia di scappare via e mettere più chilometri possibili tra te e quella situazione nella quale non ti riconosci più.Quando siamo usciti dall’Eden? Quanto è durata la nostra Long run?Si parla d’altro e si sta meglio.

 

L’atmosfera si fa elettrizzante.Veniamo da mesi di quieta trepidazione per la data odierna, che per me è rimasta in bilico fino all’ultimo.Li vidi a Lucca nel 2001, uno dei concerti più intensi di sempre, inaspettato nella sua bellezza, e a Verona nel 2006.Ma Max no, non c’era.Questa volta però non ci sono donne che tirano il freno a mano. Si va insieme.Ci conosciamo da 26 anni, ben un quarto di secolo…

 

Improvvisamente la macchina si scioglie, non per il caldo, e il paesaggio si trasforma.Anche noi non siamo più gli stessi.Non siamo più sulla Torino-Milano verso il Forum di Assago. Abbiamo circa vent’anni di meno. Obiettivo: Courmayeur; uno dei tanti giri rigeneratori della nostra dura vita da studenti.Siamo sulla mia vecchia 128 blu diventata a strisce bianche dopo un tentativo di lucidarla col Polish.È una calda giornata di sole, una di quelle terse battute il giorno prima dal vento. Abbiamo appena lasciato il casello e poi superato un’auto ribaltata sul bordo della strada quando sentiamo un colpo secco provenire dalla macchina. Dietro, dal lunotto posteriore, si intravedono delle scintille come le stelle filanti di Natale.Senza dire una parola accosto, e mi volto verso Max:- Guarda tu per favore… - mormoro a denti stretti.Max non scende nemmeno. Apre la portiera e si sporge per guardare sotto la vettura. Si rimette a sedere con le spalle comodamente sprofondate nello schienale, richiude la porta e resta a guardare fisso fuori dal parabrezza le altre macchine sfrecciare felici lungo l’autostrada:- Ce l’abbiamo nel… - sibila.La marmitta con tutta la tubazione è cascata per terra.Quella volta riuscimmo a pagare l’autostrada sospesi sopra il carro-attrezzi come dalla cabina di una ruota panoramica. Ma il resto della giornata fu come avremmo voluto che fosse: scivolare via tra le strade del paese in tutta tranquillità discutendo di montagna, progettando scherzi da fare agli amici, parlando di calcio e del Toro. Ascoltare musica seduti in macchina (con lo scappamento riparato con del fil di ferro) rimanendo a guardare le ragazze più belle che passavano per la via, provando a immaginarle come sarebbero state anni dopo.Già, come sarebbero state anni dopo.

 

Lo scenario si riscioglie e il nostro pensiero è vinto dal presente.Molte cose si sono trasformate.Altre sono rimaste lì a bussare dentro la testa aspettando solo l’occasione giusta per saltare fuori. Andare a un concerto degli Eagles non è semplicemente andare a un concerto. È qualcosa di più: significa ricordarti la persona che sei e che sei stata; le cose che hai detto e che hai fatto. Ricordarti le cose che avresti voluto dire e non hai detto; quelle che avresti voluto fare e non hai mai fatto forse per vergogna, un po’ per paura. Senza sapere che quando avevi vent’anni non avresti dovuto aver paura di niente.

 

Siamo la quarta macchina che posteggia qui.L’uomo del parcheggio è seduto sotto un albero a fumare una sigaretta. Ci guarda con compassione e una punta di sarcasmo. Niente e nessun altro.Una macchia di cemento rovente nella periferia milanese.Come tutte le periferie mette addosso un profondo senso di tristezza. La tristezza che si ha osservando un luogo che non è. Non è abitato ma non è neppure disabitato. Una terra di nessuno simile a tutte le altre città del mondo: palazzine di uffici deserti infilati tra viali alberati, cantieri abbandonati o in preparazione, immensi parcheggi spaccati dal sole a bordo autostrada, centri commerciali che si ergono nel mezzo di appezzamenti di terreno in disarmo.C’è tristezza in tutto questo pensando che invece fra poche ore arriveranno migliaia di persone e che quest’angolo di periferia si tramuterà in qualcosa con un’anima. Solo per qualche ora. Poi tornerà come prima. Immobile, solitario ed estraneo.Si fa il giro di questa enorme astronave, scorgiamo gli enormi tir della band posteggiati sul retro. Un roadie dorme rumorosamente contro la fiancata di un camion.Non sono neanche le 13, ma una giornata del genere va assaporata in ogni sfumatura, anche nella polvere che si posa sull’asfalto al limitare del Forum.

 

Doveva essere il 1985 quando la nostra professoressa di Inglese ci parlò degli Eagles, di cui non sapevamo un accidenti di niente.Le piaceva follemente Glenn Frey, uno dei componenti di quel gruppo che si era sciolto da pochi anni, ma noi non prestammo attenzione più di tanto a quelle che ci parevano sciocchezze.Soltanto l’anno seguente, dalle frequenze di Rai Stereo Due, catturai la parte finale di New kid in town.Alle volte aspetti la vita, talvolta la rimpiangi.In quel momento passò da lì.

 

Il primo vinile fu Greatest Hits 1971-1975, una testa d’aquila su sfondo azzurro in copertina.Ma quello che ci fece veramente sognare fu una raccolta acquistata nella primavera del 1987. In copertina la strada che conduce alla Monument Valley quasi distorta dal calore in una tonalità rosso marte.E all’interno tutte quelle canzoni capaci di comunicare serenità anche se era trascorso già così tanto tempo dal momento della loro incisione.

 

Il sole picchia fortissimo. Quella periferia non ha da offrirci una Monument Valley al termine del viadotto rovente, amara parodia della “lunga strada” su quella copertina, ma soltanto un enorme centro commerciale con aria condizionata.Il tempo scorre lentissimo, lo assapori sperando che in fondo non passi mai, girovagando per librerie e negozi di informatica, spizzicando l’ennesimo boccone della giornata.Un messaggio da Torino: - Niente, ancora nulla di definitivo.Un senso di fastidio prima di ricaricare le pile per la stanchezza del primo pomeriggio.- Che fine ingloriosa – mormoro mentre ci scopro intenti a fissare le casse del Carrefour con fare sperso.Siamo arrivati qui così presto, vogliamo perdere i posti migliori pur di non fare una coda di qualche ora sotto il sole? E’ ora di andare.

 

Siamo tra i primi in coda nell’arsura.Di fianco a noi gente di tutte le età.Un eroico bambino sfoggia coraggiosamente un cappellino del Toro. Più in là una maglia del Brescia è l’unica altra cosa che parla di calcio.

L’apertura dei cancelli è quel sogno che credi ormai chimera.Ma che prima o poi arriva.Mentre corriamo verso il palco, ridiamo come matti. Ce la caviamo ancora bene sullo scatto. E pazienza se non sono queste le cose importanti della vita. Pazienza se c’è qualcuno perennemente pronto a dirci di crescere.

 

In piedi in seconda fila col palco a pochi metri di distanza.Lo guardiamo increduli per il fatto di essere così vicini: quattro microfoni in prima fila con le chitarre a fianco, la batteria dietro, a sinistra un pianoforte, a destra le tastiere…Manca l’ossigeno e mancano ancora due ore, ma non importa.Max si abbassa a raccogliere la bottiglia d’acqua e quando si rialza un tizio alto in camicione bianco, pantaloni corti e coda di cavallo gli si è materializzato davanti.Mentre si sposta di qualche centimetro per riguadagnare spazio, si volta e vede il terzo amico alle prese con una ragazza, alta sì e no un metro e mezzo, che gli si è posata sui piedi e lo sta spingendo per farsi largo.- Che brutto essere bassi… - dice, sperando di intenerirciSarà anche brutto, ma tu di qui non passi. Non siamo arrivati così presto per farci fare fessi.È così: siamo in Italia e gli ultimi si sentono in diritto di diventare i primi a colpi di gomitate, alla faccia di chi si è mosso e organizzato per tempo.Ma c’è anche chi legge John Grisham e addirittura chi si sta sprofondando nello studio di un testo di zoologia. Meno male…

 

Il pubblico aumenta.Non li conosciamo, non abbiamo mai parlato con le altre persone.Ma siamo qui per lo stesso motivo e ci sembra di riprovare lo stesso senso di appartenenza che conoscevamo lontano da qui…Ci sono state migliaia di volte in cui gli Eagles sono stati solo una giornata di sole che svaniva, una strada che scorreva o un bosco vicino alla casa di montagna, il profilo delle montagne o il mare che si intonava con la loro vocalità. E ti sembrava che quella musica fosse stata composta chissà dove, chissà quando.Oggi il loro treno incrocia il nostro.Non sono più dei ragazzini, ma neanche noi lo siamo.E sentire ancora quelli che eravamo, ricordando la loro musica, ci lascia quel senso dolce di malinconia che spesso è il sale della vita.Ma questi pensieri vengono spezzati improvvisamente dal buio e dall’urlo della folla.E gridiamo anche noi, chi se ne frega.

 

Siamo qui a meno di due metri, come i ragazzini, immersi nel buio, spezzato solo dai flash delle mille macchine fotografiche e dai video dei telefoni cellulari.Ombre conosciute si muovono sul palco.La chitarra parte all’unisono con i colpi di batteria e le luci si accendono come un flash.Quanto impieghiamo a riconoscere How Long? Un secondo? Due?

Like a bluebird with his heart removedLonely as a trainI’ve run just as far as I can run

 

- Good evening, we are the Eagles!  - dice Glenn Frey. Come se non lo sapessimo.Probabilmente si stupiscono anche loro di 13000 persone che sono venute a vedere loro, un disco di inediti in 27 anni, con l’entusiasmo dei teen-ager.

 

Dopo la terza canzone si fa buio.Il suono di una tromba emerge, illuminato soltanto da una luce rossa.Ormai so cos’è. Attendo il finale dell’assolo per vedere le luci spegnersi e poi illuminarsi nuovamente sulle note dell’arpeggio del chitarrista aggiunto Stuart Smith, mentre lo schermo a palpebra si infamma con la copertina del loro disco del 1976.Questa è Hotel California, signori.

Last thing I remember, I was running for the doorI had to find the passage back to the place I was before…

 

I pezzi volano, Peaceful easy feeling, I can’t tell you why, In the city, Witchy woman, Lyin’ Eyes...

 

City girls just seem to find out earlyHow to open doors with just a smileA rich old man and she won’t have to worryShe’ll dress up all in lace, goin’ style

 

Quante volte l’ho cantata?In quanti siamo a cantarla adesso?Quante migliaia di storie intrecciate che il destino ha deciso di far convergere oggi?A quante persone o amori abbiamo adattato gli occhi bugiardi della canzone?Di quanti periodi è stata colonna sonora?

 

Don Henley, prima di attaccare The long run, dice che faranno quindici minuti di stop, per poi riprendere perché “hanno intenzione di suonare molto a lungo questa sera”.Eh eh, vecchi furbacchioni. Sanno che dicendo questa frase ci sarà un’ovazione del pubblico. Ma loro lo faranno sul serio. Tre ore in tutto.

 

Le lui si riaccendono per la pausa, ma nessuno di noi vuole cedere un centimetro.La nannerottola ha capito che di qui non si passa ed è andata a spingere da un’altra parte.I pensieri si accavallano.Cosa faranno ora? Faranno Waiting in the weeds? E Take it easy? E…Le luci si spengono.Don Henley, Glenn Frey, Joe Walsh e Timothy B. Schmit iniziano la seconda parte seduti di fronte a noi su quattro sedie.Loro e le chitarre.Alla prima canzone basta solo un accordo iniziale. Il resto sono solo le loro voci.

 

 

No more walks in the woodThe trees have all been cut downAnd where once they stoodNot even a wagon rutAppears along the pathLow brush is taking over

 

Poi c’è un arpeggio.Eccola.E’ la canzone che aspettavamo.Pur essendo un brano dell’ultimo lp, molte persone la riconoscono al volo.E’ Waiting in the weeds, forse uno dei brani più belli mai scritti.Una storia sulla ciclicità delle cose.L’esempio calzante del fatto che la musica sia tutte le lingue e possa valicare razze, barriere e religioni con suoni che cavalcano emozioni.

 

I’ve been waiting in the weeds, Waiting for the dust to settle downAlong the back roads running through the fieldsLying on the outskirts of this lonesome town

 

Lo schermo sullo sfondo proietta le immagini che si associano a questa poesia, una ruota panoramica gira lentamente, l’inquadratura scorre attraverso campi solitari.Mi volto verso Max e leggo la mia stessa emozione. È incredibile come a volte senza dire nulla si possa avere l’intuizione dei medesimi pensieri.È la stessa storia di sempre.Le amicizie hanno un rapporto particolare con la musica. Se ne nutrono golosamente anno dopo anno per accorgersi alla fine che quella musica, quel brano, quel pezzo è diventato necessario come il sangue. Con gli amori non è la stessa cosa. Sono come le onde del mare: sai che arrivano e che ti solleveranno in alto fino a farti galleggiare con le mani tese verso le nuvole ma sai anche che prima o poi se ne andranno lasciandoti sulla spiaggia deserta da solo, in compagnia unicamente dei tuoi pensieri. E, per fortuna, dei tuoi amici.

 

All alone at the end of the eveningAnd the bright lights have faded to blueI was thinking about the woman who might have loved meAnd I never knew…

 

Il pubblico canta con loro. Per molti, ventenni, trentenni, quarantenni o cinquantenni, o altro ancora, è un momento unico per ritrovare persone dalla stessa sensibilità musicale con i quali intonare le canzoni. Canzoni di gioventù che per qualche strana alchimia sono sopravvissute al tempo.Quante volta suTake it to the limit ne abbiamo valicato i confini.Il senso di appartenenza è qui.Una volta sentivo tutto questo alle partite del Toro.Ora non più. Purtroppo.

 

No more cloudy days, Love will keep us alive, Long road out of Eden, frecciata antimilitarista.Le ore fuggono con la velocità con cui le note scivolano sulla chitarra di Joe Walsh, mentre il repertorio si fa più grintoso,Heartache Tonight, Life in the fast lane, Dirty Laundry...

 

Arriva il momento della “finta” fine del concerto, prima dei Bis.Quando la band attacca Take it easy, ad un osservatore superficiale quei quattro signori attempati potrebbero fare tenerezza. Ma non è l’aspetto che conta, è la musica senza tempo a fare breccia. E’ quel senso di averne fatto parte.

 

Well, I'm a standing on a corner in Winslow, Arizona and such a fine sight to see It's a girl, my Lord, in a flatbed Ford slowin' down to take a look at me Come on, baby, don't say maybe I gotta know if your sweet love is gonna save me We may lose and we may win though we will never be here again so open up, I'm climbin' in, so take it easy

 

Alla fine si fa buio e partono le note di un pianoforte.Il pubblico grida.Molti di noi, quelli che hanno già visto i loro concerti nel passato, sanno che Desperado è la canzone conclusiva.Tre minuti per dirsi grazie.Per dirsi un arrivederci che sa di addio.Ben difficilmente torneranno ancora, non sono più giovincelli, nonostante abbiano tenuto il palco per tre ore.Don Henley si è rimesso la giacca. It may be raining – dice -  but there’s a rainbow above you…Poi alza il microfono verso il pubblico.Forse siamo venuti qui soltanto per gridare let somebody love you con lui.Let somebody love you!You better let somebody love you… before it’s too... late. Le luci si affievoliscono lentamente.Grazie ragazzi.

 

Posteggio.Soltanto poche ore fa inondato di sole.Pare un luna-park. Luci dappertutto, macchine posteggiate, frotte di persone che passano da un banco di magliette all’altro, furgoni dei paninari, odore di crauti, di salsiccia e di olio fritto.Ci sediamo un attimo su un gradino. Ci guardiamo attorno. Chissà se fra tutta questa gente, c’è qualcuna delle ragazze che avevamo visto passare quel giorno di vent’anni fa a Courmayeur? Sola, sposata, divorziata, triste o felice, ingrassata o statuaria come allora? Di sicuro con qualche ruga in più…I fari rossi delle macchine cominciano la diaspora e ognuno porterà con sé questa giornata, chi inserendo i filmati su Youtube, chi riguardando con inevitabile malinconia le foto di un giorno di sole. Chi riportando a casa la propria storia fatta di chissà tante quante lei che hanno avuto la fortuna di fare parte di questa colonna sonora.Da qualsiasi parte siamo giunti, le nostre lunghe strade avevano deciso che la nostra amicizia oggi confluisse qui, sulle note di una musica senza tempo.

 

Nessuno ha voglia di pensare a quando saremo a casa, con questo senso di pienezza addosso.Sì, forse faremo click sul sito.E poi vedremo i soliti insulti.Il Toro non è più lì.Se ne andato. E’ andato a fare un giro, probabilmente stufo e chissà se tornerà mai più dove ha vissuto.Forse si è spostato su altre cose. Forse ci ha dato una mano ad essere amici e ad essere l’enzima delle nostre vita, a vivere giornate come questa.Lentamente verso casa. Prolungando ancora gli attimi, mentre il nuovo giorno è giovane.Evitando di schiacciare troppo l’acceleratore.- Un panino all’autogrill vi va?Verso casa. Con la consapevolezza che questo sia il sipario su una parte fondamentale della vita.Qualcosa di bello e importante sta per capitare in poco più di 48 ore.E forse nulla sarà più come primaO forse no. Che senso avrebbe in fondo?Cambiare tutto perché nulla cambi.Chi può dirlo?

 

Ci sono giornate che rimpiangi in eterno, altre che aspetti per sempre.Altre ancora che non smetti mai di vivere.Alle volte la rimpiangi, alle volte la aspetti.Raramente la incroci, ma quando passa devi esserci.Oggi la vita è passata di qui.E per quanto gli anni siano passati e ci abbiano segnato, per quanto le rughe ci possano aver segnato, ognuno di noi stasera ha visto scorrere i fotogrammi della propria vita sulle note di quella musica.Una vita che valeva la pena di essere vissuta.

 

C’è un faro in Irlanda sul capo di Mizen Head. È una zona sempre spazzata dai venti e quando il mare è agitato le onde si abbattono con una tale violenza alla base che gli spruzzi arrivano come delle fiondate quasi fino in cima.Quando il cielo è terso tra la costa e il mare si apre un paesaggio favoloso. Ma è quando il cielo è grigio, le nuvole sono basse e il mare sembra avere voglia di trascinarti via che capisci che c’è qualcosa di speciale lì in quel luogo. Una magia. È il senso di forza e solitudine, di poesia e di ineluttabilità.Quel faro è lì da tanto tempo. Immobile. Radicato nel suo spazio sulla scogliera per quanto il mare lo voglia fare a pezzi e la nebbia lo voglia nascondere.Solido.Come certi amici.Come certi concerti.Come certe canzoni che un tempo sono state parte dell'Eden.

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