mondo granata

L’ultimo urlo di Jack

Redazione Toro News
di Mauro Saglietti

Le immagini di Toro-Cesena, semifinale di ritorno dei playoff, scorrono sul video, a casa di Carlo.

Non siamo allo stadio quella sera.

Forse perché uno della nostra compagnia sta poco bene, forse per scaramanzia.

Siamo forti dell’uno a uno ottenuto all’andata, ma nessuno di noi si sente tranquillo.

Quando mai lo siamo stati, in fondo?

Dopo pochi minuti Balestri inventa uno strano cross, che si infila alle spalle di Turci.

Balziamo in piedi gridando”gol” saltando ed abbracciandoci come sempre, come tutte le volte.

Jack salta con noi, per quanto possa permetterglielo la sua mole, abbaiando ad intermittenza, quasi ad imitare le grida di Carlo, il suo padrone.

Mai visto un cane saltare insieme a tante altre persone, anche solo per condividerne la gioia.

Ma Jack era così, era granata. Jack era uno di noi.

Fu l’ultima volta che lo vidi saltare e abbaiare con noi.

Quello fu l’ultimo urlo di Jack.

Questa è una storia che parla di quella che era una grande amicizia.

Parla di rabbia, cattiveria e meschinità, parla di un dolore difficilmente sostenibile.

Parla di una lettera gettata nel fiume, di ricordi perduti e rimpianto.

Ma parla anche di un animo che non si arrese mai.

Jack e Carlo erano grandi amici, vivevano in simbiosi.

Si conoscevano da 8 anni, quando Carlo lo aveva ritrovato nei paraggi di casa. Sporco e denutrito, abbandonato da una mano vigliacca e da uno sguardo che fuggirebbe anche il proprio riflesso nello specchio, se solo conoscesse il significato della parola “vergogna”.

Il mio amico si era subito preso cura di quel Labrador cucciolone.

Ricordo ancora la prima volta che lo vidi “esultare” al nostro fianco, per un gol in una partita alla TV.

Forse era stata semplice paura per il nostro urlo, ma Jack saltava goffamente, abbaiando come un matto, dopo quel gol di Lucarelli.

Forse per spirito di emulazione, visti i complimenti ricevuti, aveva continuato a farlo ogni qual volta la nostra truppa seguiva qualche match al “posto di combattimento”, come chiamavamo il salotto della casa di Carlo.

Oddio, Jack sulle prime aveva avuto qualche problema a distinguere quando fosse gol e quando invece no. Un paio di volte si era messo a saltare ululando dopo un palo, credendo che le nostre grida fossero di gioia.

Mai visto un cane come Jack.

Jack e Carlo erano grandi amici, non c’era donna che avrebbe potuto intromettersi o relegare la loro amicizia in secondo piano.

Se una ragazza voleva Carlo, doveva sapere che Jack era incluso nel pacchetto.

Era così e basta.

- Sai – mi disse Carlo due giorni dopo quel Toro-Cesena – Ho paura di quando lo perderò…

Eravamo seduti nel giardino lungo il fiume e osservavamo tranquilli il nostro amico quadrupede giocare con quello che un tempo era stato un pallone da calcio.

- Lo vedo, ormai deve avere circa 9 anni, si stanca facilmente, lo so che sta invecchiando. Non so davvero come farò quando lui non ci sarà più…

Mormorai qualche parole di circostanza scarsamente convinta, non prendendo sul serio quella preoccupazione.

I nostri discorsi, in fondo, non facevano che soffermarsi sulla doppia sfida contro il Mantova, che era imminente.

Non avrei mai potuto immaginare che Jack stesse per andarsene.

Torino-Mantova, 11 giugno 2006.

E’ la sera più bella dell’anno, è il delirio. Una delle partite più belle di sempre.

La nostra truppa si reca in centro a festeggiare, ad abbracciare la gente granata lungo via Roma.

Ma a notte ormai inoltrata, quando Carlo torna a casa trova l’appartamento svaligiato.

E scopre che Jack non c’è più.

I ladri gliel’hanno portato via.

Ho ricordi confusi di quella nottata, dalla telefonata disperata del mio amico al momento in cui arrivai a casa sua.

Pazzesco.

Mentre i clacson ancora impazzavano per la gioia, la nostra gioia di poco prima, poco distante si stava consumando un dramma senza soluzione.

Cosa importava la roba in frantumi, quello che era stato portato via, la rabbia ed il senso di violazione che il furto porta con sé?

Quello che importava erano soltanto le urla strazianti del mio amico, che chiamava Jack, urla le cui eco si perdevano tra le vie nei pressi del fiume.

Pensammo che Jack si fosse spaventato per la presenza di estranei e si fosse nascosto da qualche parte.

Svegliammo il mondo quella notte, chiedendo se qualcuno l’avesse visto.

Setacciammo il lungo fiume, senza alcun risultato.

Riempimmo la città di manifestini nei giorni seguenti.

Promettemmo ricompense, alternando speranza e disperazione.

Ma non ci fu nulla da fare.

Non vedemmo più Jack.

Lo avevano portato via. L’avevano rapito, rubato.

Mi sono spesso chiesto quale mano vigliacca e maledetta, per quanto barbara e ignorante, abbia potuto fare tutto questo.

Alle volte non c’è perdono.

Che cosa puoi dire ad un amico in quelle condizioni, una persona che sta vivendo una separazione così drammatica?

Quali parole mai scritte o ancora da pronunciare, puoi pescare dal cilindro delle emozioni, per cercare di dare un briciolo di conforto?

Come puoi andare oltre a quello sguardo tra amici che non parla, ma dice tutto?

Diamine, quando è una donna ad andarsene, stai male, ti sembra di impazzire, ma almeno sai che c’è un senso, per quanto amaro e beffardo.

Ma quando ti portano via una bestiola per crudeltà, il tuo amico più caro da sempre, no…. allora non c’è un senso.

Non ce ne può essere uno quando non sai se lui sia vivo o morto.

Se sia distante o vicino.

Se stia soffrendo come te.

Se ti stia pensando e non capisca perché tu non stia venendo a prenderlo.

Jack e Carlo erano grandi amici, inseparabili.

Da allora le cose non sono più state le stesse. Del resto come avrebbero potuto esserlo?

Non ci siamo più recati nella sua “sala da combattimento”.

Senza il nostro amico granata ed i suoi goffi salti saremmo stati calpestati dal silenzio del suo ricordo.

Ho seguito Carlo durante questi lunghi mesi, il più delle volte di nascosto. L’ho visto percorrere i luoghi che frequentava con Jack, quando giocavano con quel rottame di pallone.

Non si può convivere con queste cose, quando il luogo diventa ricordo, ricordo di qualcuno che non c’è più.

Tempo fa’ Carlo mi disse che gli sarebbe piaciuto scrivergli una lettera.

Per dirgli quello che non era riuscito a dirgli, aggiungo io, per salutarlo.

Poi forse se ne era vergognato e non me ne aveva più parlato, né io mi ero osato tornare sull’argomento.

Ma so che quella lettera è stata scritta.

So che Carlo un giorno l’ha portata sul lungo fiume, quando il giorno si stava spegnendo, e l’ha lasciata sulla superficie dell’acqua.

L’ultimo saluto a Jack, il suo indimenticabile cane granata.

Se questo fosse un film, amici, la storia di Carlo e Jack si chiuderebbe con una lenta dissolvenza in nero, qualche parola consolatoria fuori campo e una musica che ti afferra per la gola e ti stringe.

Lentamente.Prendi il tuo soprabito e torni a casa.

Questo però non è un film.

Io, ragazzi, non so chi sia il regista di questa storia e perché abbia deciso di non inserire quella dissolvenza.

Forse perché alle volte non finisce così.

Non deve per forza finire così.

E’ capitato tutto pochi giorni fa’, sapete?

Con la stessa telefonata piena di urla confuse che mi era arrivata quella notte.

Mi chiedo se avrei potuto sostenere una cosa simile, se ci fossi stato, se l’avessi vissuta in prima persona.

Chi di noi ce l’avrebbe fatta se fosse stato con Carlo in quel momento?

Noi, che ci fingiamo scorza dura, ma che giriamo la testa dall’altra parte perché non ci vedano gli occhi arrossati quando una canzone, un film, un’emozione, ci prende nel profondo.

Noi che non vorremmo mai vedere scoperto questo nostro lato.

Ce l’avremmo fatta a sostenere quell’emozione se fossimo stati con Carlo?

Quella mattina.

La mattina nella quale ha aperto la porta di casa e ha trovato Jack di fronte all’uscio, sdraiato, uno scheletro stremato, con solo la forza di muovere la coda, prima di reclinare il capo.

- Io lo so … è tornato da me per morire, lo so! – singhiozzava il mio amico dietro la porta del veterinario.

La nostra truppa riunita, nessuno mancava.

Un silenzio che faceva baccano.

Aspettavamo.

Aspettavamo come dietro a una sala parto, che qualcuno ci dicesse qualcosa.

Jack doveva aver percorso decine di chilometri, centinaia di chilometri, per rivedere il suo padrone, le piaghe sulle sue zampe parlavano chiaro.

Avevamo sottovalutato il suo tremendismo granata, lui non si era arreso.

Jack era uno di noi, come avevamo potuto dimenticarlo?

Quando si aprì lentamente la porta dell’ambulatorio veterinario, il viso del giovane medico di turno, dopo un attimo di interminabile silenzio, ci fece capire che alle volte c’è un senso.

Non sempre, ma alle volte c’è.

Jack e Carlo sono grandi amici, l’amicizia più grande che ci possa essere.

Carlo non lo lascia più un attimo da solo e sembra leggere negli occhi dell’eterno cucciolone la storia delle sofferenze patite, che la bestiola non potrà che raccontargli con gli occhi o con un sospiro.

Sapete, li ho visti giocare l’altro giorno, sempre sul lungo fiume, questa volta con un pallone nuovo.

Che importa quanto sarà ancora lunga la sua vita, che importa se stia invecchiando, quando ti si propone una seconda opportunità come quella?

Che importa davvero?

Non vedo l’ora che ci si ritrovi di nuovo al “posto di combattimento” tutti insieme.

I nostri giocatori permettendo, pregusto già il momento della gioia, della palla in gol.

E il momento in cui il nostro amico cane che, acciacchi permettendo, salterà e urlerà con noi.

Jack è un cane granata ed è uno di noi

L’ultimo urlo di Jack?

E ancora ben distante da venire, ragazzi.

Questa era l’istantanea di Carlo e Jack, la storia di una grande amicizia e di una lettera affidata all’acqua del fiume.

Mi piace pensare che un giorno qualcuno possa ritrovarla e chissà, farne una storia.

O magari, perché no, una favola che si tinge di granata. Mauro Saglietti