mondo granata

Oltre la paura

Redazione Toro News
di Mauro Saglietti

Il luogo comune talvolta impera.- No no no no no. Uh per carità! A me le cose horror non piacciono, fanno paura!Cose generiche, sentite e puntualmente riportate.Un po’ come Elio e le Storie Tese che fanno musichette, neanche supponendo da lontano il fatto che siano dei virtuosi.Stephen King non sfugge alla regola, grazie anche alle definizioni mediatiche che lo definiscono da decenni “Maestro dell’Horror” e “Genio del brivido”.Molti lo archiviano come paccottiglia letteraria, nel modo frettoloso con cui giudicano qualsiasi cosa abbia successo popolare, con quel tanto di spocchia puzzettona che si rivela spesso voragine interiore.Così, se ti azzardi ad iniziare una conversazione con qualcuno che magari ha soltanto visto la (probabilmente pessima) trasposizione cinematografica di uno dei suoi lavori, devi scalare le montagne per farti capire.Come glielo spieghi che si tratta di un autore che è riuscito a scrivere alcune tra le pagine più belle e serene sul mondo dell’infanzia? Oppure il senso di affetto e perdita gestito tra le righe del non detto?Sembra strano, eh?

 

Un paio d’anni fa ebbi la fortuna e l’onore di intervistare Stephen King in occasione del Salone del Libro.Mi parò della sua fede granata e di come molti dei suoi incubi si fossero materializzati in zona, ad esempio lungo la famigerata coda di Venaria.Ovviamente era una balla colossale e per fortuna nessuno ci cascò, come invece avvenne con l’intervista a Obama di qualche mese prima ed il tutto andò ad inserirsi in quel contesto di fanta incontri che aveva visto protagonisti anche Dan Brown, Buzz Aldrin e Silvia Saint (mio articolo più letto di sempre. Sotto questo punto di vista Guido Regis ha ragione da vendere. Basta mettere la foto – il viso - di una pornostar e oplà).Non mi sarebbe dispiaciuto averci a che fare sul serio, anche se sarebbe stato difficile gestire una vera intervista. Oltre all‘aspetto inquietante dell‘individuo, che non si sa fino a che punto abbia giocato su questo, ci troviamo di fronte ad un personaggio assolutamente schivo e particolare, al quale forse sarebbe stato difficile spiegare la passione per alcune sue creature, così comune anche tra i nostri lettori.Più che di passione fu una scintilla, che fece divampare non fiamme, ma aria nuova.Questa è la storia di quella scintilla.

 

In principio fu una Plymouth rossaAnzi, bianca e rossa.Amori che vanno amori che vengono. Il mio fu casuale, e la storia del libro che acquistai, e ciò che avvenne durante e dopo, è già stata descritta neppure troppo velatamente in altre Istantanee, quindi non mi ci soffermerò troppo.Il punto zero di ogni scrittore è il momento di incontro. Tu nella sua carriera. Una casualità che ti fa avvicinare a qualcosa.King, King, King, chi leggeva King?Forse qualcuno che conoscevo? Cosa sapevo di lui? Praticamente nulla, neppure le notizie più basilari, neppure che fosse l’autore di Shining.20 anni, che cosa puoi avere letto a quell’età? Qual è il libro che ti cambia la vita? Si accettano suggerimenti.Chi dice I promessi sposi (sottintendevo il cambiare la vita in meglio, comunque), chi Cent’anni di solitudine, chi Siddharta, chi Il gabbiano Jonathan Livingston, chi 101 storie Zen, sperando di comprenderne almeno mezza.No, per carità, non avevo tale profondità e forse non l’ho mai avuta.Il libro che mi cambiò la vita fu Christine, la macchina infernale (Christine, 1983).

 

Lo acquistai per caso, incuriosito, in una edizione che non ho mai più rivisto. Ancora oggi credo, con molta autosuggestione, che quel libro fosse una copia unica e che stesse aspettando proprio me.Avevo decine di gialli alle spalle, da sempre ciò che preferivo in una lettura, e non mi ero mai avvicinato a nulla di simile.Come in un amore, alle volte è un gioco di incontri.Persone per le quali alle volte i tempi sarebbero altrimenti sballati, si scambiano gli sguardi al punto giusto nel momento giusto.Christine era un libro per teenager.Ed io mi sentivo di esserlo, in pieno, anche se i miei giorni da teenager stavano per finire senza che io lo sapessi, anzi, forse finirono proprio con Christine.I tasselli si incastrarono alla perfezione, la sete di lettura, il tempo ancora dilatato a quell’età, le vicende personali.Lo lessi in quattro giorni, all’inizio dell’agosto 1988.Ore e ore sul balcone della casa di montagna, la sensazione, la prima volta che mi capitò, di essere stato rapito da un’altra realtà.Una realtà nella quale mi muovevo ospite invisibile, fino ad entrare quasi totalmente in uno dei personaggi, facendone mie le sue speranze e drammatiche tensioni.Le pagine che scorrevano, il respiro che si faceva più pressante.Ricordo quando lo terminai.Era l’imbrunire e non avrebbe potuto essere altrimenti. Vi ho detto che tutti i tasselli della storia vanno a posto, no?Rare volte tutto combacia in modo tale da creare la magia.Quella volta capitò.Restai a guardare le pagine, in bocca il sapore dolceamaro del finale.Credo a sapere a memoria le battute dell’ultima pagina di Christine, le parole, il pensiero, la lama di freddo che saliva dentro lentamente, fino a temere per quello che era rimasto fuori dal libro.Oh, come sa scrivere i finali, King!Giovane e sprovveduto, caddi travolto da quel dolceamaro che fece quadrare una realtà di fantasia.E la cosa mi piacque e spaventò allo stesso tempo.

 

Pochi giorni dopo mi capitò una cosa estremamente spiacevole.Fu inevitabile per me associarlo alla concomitanza con quella lettura.Anni dopo mi accorsi che quelle pagine mi avevano preparato all’inevitabile, ma allora le ritenni sinistre presagio di sventura.Occorsero altri due lunghissimi anni, prima che, titubante mi riavvicinassi all’universo di King leggendone per intero un nuovo romanzo.

 

L’inizio della marciaIl punto di incontro con gli scrittori, abbiamo detto, è solitamente casuale. Un romanzo della loro produzione, e poi via alla ricerca dei lavori precedenti, insieme a quelli che da lì in avanti seguiranno.Fui disordinato con il Re.Scrivevo, in quell’estate, avevo iniziato a focalizzare l’interesse per la narrativa, semplice ed ingenua, che tuttavia poteva evolversi in una strada ben precisa.Dopo quanto capitò nell’estate 1988 rinunciai a farlo, per vostra fortuna, per ben 16 anni.Ed è davvero una fortuna, altrimenti saremmo strapieni di Istantanee ben più di quante non ne siano state sfornate in questi quasi 5 anni.Dicevo, fui disordinato col Re.Quando nel 1989 mi capitò sottomano A volte ritornano (Nightshift, 1978), una raccolta di racconti brevi di una decina di anni prima, la sbirciai con finta distrazione, sperando di non sollevare quella negatività inconscia che temevo, dopo Christine.

 

Una parola. Come si fa a sbirciare con distrazione un libro di King?Fu così che ebbi il piacere di fare la conoscenza con i suoi racconti brevi, un qualcosa di molto diverso da tutto quanto avessi letto fino a quel momento.E’ il King più famoso, quello non tanto orrorifico (torneremo su questo punto) quanto tremendamente inquietante.Lessi qualche racconto, alcuni di essi inesorabili nel loro progredire verso un finale così spaventoso che me lo ricordo con inquietudine ancora oggi.Ricordo Il baubau, Io sono la porta (bello e angosciante), l’inquietante racconto dalla quale la raccolta prese il titolo, Il compressore (dal quale venne tratto un film orrendo), Jerusalem’s Lot, Secondo turno di notte, Materia grigia, Camion.

 

E’ questa la grande differenza tra il King dei racconti brevi e quello dei romanzi.Quello dei racconti brevi è spietato e ciò che fa accapponare la pelle è quanto sia inesorabile il suo incedere tramite una fantasia per nulla convenzionale.I racconti brevi sono stati selvaggiamente depredati dalla cinematografia, che ha spesso ottenuto risultati di serie B, i quali hanno contribuito notevolmente a creare la fama del King più popolare e superficiale.

 

Quando mi riavvicinai ad un romanzo intero di King, lo ammetto, lo feci con superstiziosa riluttanza, deciso però a vincere quell’autogol irrazionale della mia mente.Stesso balcone, stessi giorni d’estate, una vita dopo quel 1988.Era un titolo minore, ancora non sapevo che La lunga marcia (The Long Walk, 1985) fosse stato originariamente pubblicato, molti anni prima sotto lo pseudonimo Richard Bachman, con cui King rilasciava un determinato tipo di pubblicazione.Non c’era più la magia di Christine, ma il Re sapeva tenere legato il lettore con una vicenda reale seppur irrealizzabile (ma lo era davvero?).Una marcia attraverso alcuni degli States, sotto quello che poteva essere una sorta di regime dittatoriale.Solo uno può vincere, chi resta indietro non viene soltanto eliminato, viene ucciso.Un King cupo come lo era quello degli inizi, ancora distante dai grandi respiri della sua epoca d’oro.Una vicenda inquietante che contrastava con gli spazi aperti della sua ambientazione. Un finale indefinibile, anche se non terribile.Un lavoro minore che continuava comunque a far pensare anche dopo l’ultima pagina.Per giorni, forse per mesi se non di più.Non era Christine, non poteva esserlo, anche se mi rendo conto di averla cercata in ogni suo nuovo libro.Due giorni dopo la fine della Lunga Marcia, altro evento spiacevole.Anche questa volta passarono due anni.

 

Un treno nella notteNon dico che non fossi inquieto quando, sfidando ancora una volta l’irrazionale, decisi di acquistare Le notti di Salem (Salem’s lot, 1978) e soprattutto di mettermi a leggerlo, nel 1992.Frequentavo una ragazza che viveva distante da Torino ed i miei viaggi in treno, soprattutto quello di ritorno nel cuore della notte, si prestavano ad un’immersione letteraria.Non so voi, ma ho sempre trovato affascinante la luce interna della carrozza, mentre il treno viaggia nel buio e si è cullati dal riscaldamento, il tempo che ormai è un ricordo.Treno o non treno, Salem’s lot mi lasciò abbastanza indifferente, forse perché trattava l’argomento dei vampiri, che sinceramente non mi ha mai affascinato più di tanto (guai a dirlo ora, le case editrici stanno spremendo il filone vampiresco con ogni mezzo), sia perché si trattava di un’opera forse ancora acerba, con personaggi nei quali era possibile identificarsi, sia perché sotto sotto continuavo a cercare Christine.

 

Passata però la confusione degli inizi, il treno della lettura si agganciò finalmente alla produzione cronologica di King con Dolores Claiborne (1993), che mi decisi a leggere una volta per tutte senza farmi tante paranoie.Con Dolores Claiborne, lo scrittore di Bangor inizia un’esplorazione dell’universo femminile partecipe, con occhi comprensivi che sembrano essi stessi inaspettatamente femminili, inesorabilmente spietati verso il genere maschile.C’è molto non detto nell’introspezione psicologica che King fa di Dolores Claiborne iniziata nel Gioco di Gerald e che confluirà in Rose Madder.Col senno di poi, con occhi diversi da quel giovane che si cimentava avido in quelle prime letture Kingiane, si può dire che lo scrittore stesse tentando di sperimentare un livello diverso di narrativa, qualcosa di molto simile allo stream of consciousness ed un plauso enorme fa fatto a colui che per trent’anni è stata la voce di King in italiano, Tullio Dobner.Perché col passare degli anni tradurre Stephen King si è fatto sempre più difficile.

 

Al momento della pubblicazione di Dolores Claiborne, King aveva ormai alle spalle un periodo difficile della propria vita, coinciso con una paurosa crisi creativa nel 1988 (pensa un po’, l’anno in cui io scoprivo Christine) e con l’uscita da universi di alcool, farmaci e droghe, dai quali, negli anni ‘90 King sarà completamente pulito.Buon per lui.Dolores Claiborne, seppur un romanzo gradevole, è quindi più linguaggio che sostanza, più autorassicurazione cauta che spregiudicatezza sprezzantemente sfacciata e sicura di A volte ritornano.Non c’è soprannaturale, i mostri sono in terra ed hanno a che fare con violenza e rimorso, che forse hanno visto i primi bagliori nella folle ossessività di Misery.Un libro che sì, si legge con piacere, ma che forse si fa ricordare più per l’ottimo film uscito un paio d’anni più tardi (Kathy Bates ha reso un gran favore ai libri di King), che peraltro segue quasi alla lettera il romanzo.

 

Il Gioco di Gerald (Gerald’s game, 1992) uscì l’anno prima di Dolores, ma io lo lessi immediatamente dopo quest‘ultimo.E’ uno stream of consciousness non ancora marcato come nel romanzo successivo, un esercizio letterario suggestivo, che ha luogo in un contesto opprimente e isolato.Molto più oppressivo e inquietante di Dolores, lascia nella mente del lettore immagini di delirio azzurrino e colpisce per la studio e la scoperta di nuove forme di paura, dove finalmente il poco visivo lascia spazio all’interiorità.Cupo e sinistro, quasi ostinatamente perverso nelle sue immutabili immagini statiche, lo preferii a Dolores, anche se ritengo quest’ultima vicenda più completa, narrativamente parlando.Erano comunque anni nei quali non avevo ancora un metro di paragone valido per crearmi un’opinione corposa.Per me erano stati una serie di bei libri, preceduti ovviamente dal solito Christine.Era tutto qui o c’era dell’altro?

 

Autunno 1993La scintilla non era più scoccata con la stessa intensità e fu solo per caso, quando mi riassunsero la trama dei Langolieri che decisi di affacciarmi sui capolavori dell’artista di Bangor.Quattro dopo mezzanotte (Four past Midnight, 1990), una raccolta che dice già tutto nel titolo, formata da quattro inquietantissimi racconti lunghi, o novelle.Mi ci dedicai nel prolifico autunno 1993 ed I Langolieri mi tenne avvinghiato alla poltrona come non capitava da quei famosi giorni d’estate di cinque anni prima.Claustrofobico ma intrigante, narra la storia di alcuni passeggeri di un volo, che, addormentatisi durante il viaggio, al loro risveglio trovano l’aereo vuoto. Ne verrà tratto un film, di produzione televisiva americana, nel quale compariva in un piccolo ruolo lo stesso King.La novella, che terminava comunque in maniera formidabile, non mancava di momenti di violenza, scaturiti dagli stessi personaggi apparentemente normali di cui sarà costellata la sua produzione anni ‘90.Nei libri di King esiste una studiata alchimia e spesso le cose si bilanciano in modo da reggersi reciprocamente.Raramente esiste uno squilibrio tra il bene ed il male, tra più o meno. Le sue storie hanno sovente finali agrodolci, con frammistione di sensazioni, speranze ed amarezze, mezzi sorrisi amari ad annunciare una pagina che non c’è.Così, alla luce di questa conoscenza, King regala attimi di serenità assoluta.Sono attimi nei quali la nuvolaglia nera è ancora distante, e proprio alla luce del fatto che tu sai che arriverà (oh, come arriverà!), godi di quel presente che non è eterno, indipendentemente da quello che sarà il finale.E’ una cosa che trovo spettacolare, in King, Il saper fermare attimi che di per sé non avrebbero nulla di particolare, rendendoli sublimi, descrivendoli improvvisamente di una luce tenace ma sfuggevole, come spesso sono gli attimi della nostra vita.Sotto questo punto di vista King si dimostra più leale e veritiero di molti altri suoi colleghi, mostri o non mostri.

 

Il secondo racconto di Quattro dopo mezzanotte, Finestra segreta, Giardino segreto, mi colpì per il suo finale a sorpresa, e anni dopo ne fu tratto un buon film con Johnny Depp e John Turturro.Trovai veramente accattivante Il poliziotto della biblioteca e solo dopo qualche mese mi accorsi che era stata una variante sul tema dominante di It.Chiudeva l’opera l’inquietante racconto Il fotocane.Trovai esaltante il quartetto di novelle.Erano frizzanti e andavano a solleticare una parte sinistra dell’animo, forse con lo scopo nascosto di esorcizzare la paura, cosa che pensai potesse essere anche uno dei motivi della scrittura di King.

Proprio però mentre attendevo con ansia una nuova produzione letteraria in uscita nelle librerie, misi a segno, in quell’autunno 1993, un uno-due da paura, che avrebbe finalmente occupato i gradini del podio, lasciati ad attendere da troppo tempo.

 

Considero Stagioni diverse (Different Seasons, 1982) il secondo miglior libro di King.Scritto undici anni prima in quella che erano i suoi anni più riusciti.Anche i meno esperti avranno visto uno dei film tratti dalle 4 novelle inseriti nel libro, una per stagione.Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank è un racconto meraviglioso.Inaspettato, sprezzante, fin sfacciato nella sua perfezione. Un racconto sul tema carcerario con un finale grandioso, con le parole conclusive più belle che si possono scrivere in un racconto.Ne è stato tratto un film Le ali della libertà (The Shawshank redention) che, se possibile, ha addirittura migliorato l’originale.Più complicato e fastidioso il secondo racconto, L’allievo, perverso e molto poco politically correct, inquietante è spietato. Il film tratto, diretto da Bryan Singer, già Soliti Sospetti, che ha limato parte della trama cambiandone il finale, si è rivelato piuttosto piatto ed è stato presto dimenticato.

 

Capolavoro assoluto il terzo racconto, Il corpo, dal quale verrà poi tratto il magnifico Stand by me - ricordo di un estate, di Rob Reiner (1986)Una serenità inaspettata in uno scrittore che ha creato la sua fama sull’horror.Signori, giù il cappello, di fronte a passi simili di letteratura, che la critica del tempo disprezzava, per poi oggi paragonare King a Dickens.Il sublime di King arriva quando meno te lo aspetti.Nelle scene di malinconica giocosa, nell’attesa di un qualcosa che presto o tardi arriverà, nelle parole capaci di scrivere finali grandiosi.E soprattutto nella splendida capacità di descrivere il mondo dei bambini-ragazzini.Sotto questo punto di vista, King è inarrivabile.Forse, conscio dei suoi limiti, ha saputo superarli, dando il meglio di sé tutte le volte che non ha parlato di orrore.Proprio per questo non considero il Re non è uno scrittore horror, ma un artista capace di scrivere pagine piene di inaspettata dolcezza ed emozione, nell’eterna amarezza e consapevolezza della corruzione di chi quell’età ha perso e benedice il cielo per averla vissuta.Nel 1993 non avevo ancora visto il meglio.Poco dopo lessi IT.

 

DerryPioveva sempre più forte nell’autunno 1993, erano i giorni dell’alluvione nelle valli torinesi.Leggevo, leggevo e leggevo ancora, sprofondato in una poltrona, il gatto Natalino sulle gambe, le pagine che volavano, i libri dell’Università altrove.IT, capolavoro assoluto, il mio libro preferito da subito.It un libro d’orrore?Cavolata assoluta.Uno dei più bei romanzi sull’amicizia che siano mai stati scritti.Se penso alla quantità di persone che non lo ha letto spaventata dalle 1200 pagine, mi viene da ridere.Volavano l’ultima sera quelle pagine, più di cento consumate, divorate nell’attesa di conoscere il finale.It, finale, grande, felice e malinconico.La storia del diventare grandi e dell’affrontare un nemico che non riusciamo a battere, se non ritornando quello che eravamo.Passaggi memorabili, che il romanzo sussurra da solo, nel lento incedere verso l’inevitabile scontro finale, in quella Derry maledetta e sbagliata, che i ragazzini riescono a vivere grazie al legame dell’amicizia.Un libro meraviglioso non deve per forza essere di letteratura classica per essere grandioso.E se qualcuno è prevenuto, pazienza.Derry, Derry, Derry, sarebbe ancora tornata, ma mai più la stessa.A parte una volta…

 

Fui un avido lettore in quella fine 1993.Avrei dovuto studiare e forse avrei combinato qualcosa di più.O sarei dovuto correre dietro a qualche compagna universitaria, cosa che avrei comunque fatto.Invece no.Per quanto possa apparire stupido, sono contento di avere speso una settimana della mia vita non facendo assolutamente nulla se non leggere quel libro.E che cavolo, si vive una volta sola.

 

La raccolta Incubi e deliri (Nightmares and Dreamscapes, 1993) uscì nello stesso anno e seguì a breve la lettura di It, che era stato edito nel 1985.Un commiato significativo da quei pomeriggi che avrei ricordato a lungo.Ricordo con piacere La cadillac di Nolan e, vi farà sorridere, la sceneggiatura breve che più di ogni altra cosa di King sarebbe piaciuto scrivere al sottoscritto.Spiacente è il numero giusto, con l’agghiacciante finale nel quale la protagonista comprende il senso di una telefonata ricevuta molti anni prima…Grazie al cavolo, direte voi, lui e King e tu non sei neanche Crimson.Certo, ma mi sarebbe piaciuto lo stesso.

 

Oggettivo e soggettivoC’è chi giudica il lavoro di King una sorta di splatter orrorifico e indubbiamente alcuni elementi della sua produzione hanno giocato vivacemente su questa visività.Questo giudizio però risente inevitabilmente della rappresentazione cinematografica che rende per forza di cose oggettivo ciò che è soggettivo.Ed è per questo che buona parte di quanto scrive nei racconti comunque più horror venga rappresentato come materia spesso sovraccarica, ridicola all’eccesso.Effetti che non è facile trasporre in immagini.

 

Molti citano a questo proposito il finale di IT, che è esemplare in questo senso.Senza voler toppo rivelare a chi non ha letto il libro, alla fine del film compare un ragnazzo da paura, che getta alle ortiche tutto il lavoro cinematografico svolto prima.Nulla è più illuminante di questa situazione.It, per definizione stessa, è personificazione delle paure soggettive.La bravura di King sta nel soggettivizzare la paura, non nel renderla esplicita.Così capita che It di volta in volta sia clown, mummia o uccello piumato tratto da un film giapponese degli anni ’60. La scrittura tratteggia la paura definendola per le sue reazioni nei protagonisti.Il gap che si crea quando la paura viene rappresentata oggettivamente sullo schermo secondo i canoni dello sceneggiatore o del regista, è irriverente.Ecco perché i migliori film tratti dai libri del Re sono quelli dove la narrazione è per forza di cose oggettiva (Le ali della libertà, Stand by me), o dove l’evento soprannaturale può essere rinchiuso nell’oggettività di un personaggio visto esteriormente (Shining), mentre comincia a perdersi dove l’effetto paura – timore della perdita, affligge la psicologia ed il non detto dei protagonisti (Christine).

 

Aspettative non risolteLa sete dei libri di King, dopo quei capolavori, non fece che aumentare.Setacciai il passato e attesi impaziente le nuove pubblicazioni, anche se mi trovai di fronte ad alcuni interrogativi che non mi ero posto fino a quel momento.Rimasi abbastanza deluso da Insomnia, uscito nel 1994.C’erano tutte le premesse per un ottimo libro, l’idea New Age dell’aura attorno alle persone, Derry, la città di It, come sfondo.Tenuto conto del finale non particolarmente esaltante, quella fu la prima volta nella quale ebbi l’impressione che King non fosse King.Dopo un inizio promettente, la vicenda sembrava non progredire (caratteristica che ritroveremo più avanti in altre opere) e la penna sembrava scrivere bene in un tempo però stentoreo.Il finale inoltre non mi convinse del tutto, abituato a ben altri standard.Intendiamoci, Insomnia non è un brutto libro, ma vive di aspettative non risolte e manca del respiro che in passato aveva bilanciato la cappa sinistra che spesso avvolge le vicende d King.Derry non è la stessa Derry di It ed il paragone crea altre aspettative non risolte.Sono passati molti anni, forse dovrei rileggerlo per classificare questo libro, che fa parte della maturità di King.Sempre che…Sempre che ve lo dico in seguito.

 

Nel 1996, uscì “Il libro dalle pagine gialle”, così come lo soprannominai.Non so se capitò anche a coloro i quali tra di voi lo acquistarono, ma le pagine della mia edizione di Rose Madder, sono ingiallite fino a diventare di un marroncino inquietante.Sarà forse stato per una partita di carta particolare, o per altro, ma questo ingiallimento va di pari passo con la considerazione che ho del libro stesso, che chiude la quadrilogia femminile iniziata dieci anni prima con Misery (vidi solo il film, non lessi mai il libro).Lessi Rose Madder in un ambiente angosciante, in un periodo angosciante e sono estremamente convinto che le cose vadano sovente di pari passo e che i tasselli debbano incastrarsi da due lati.Quanto erano distanti i tempi della magia sul balcone della casa di montagna, nell’estate di ormai molti anni prima.Ben difficilmente diventerai un tutt’uno con la vicenda, se una parte di te non ne vuole sapere.E così fu, forse anche perché il romanzo stesso non invogliava alla simbiosi.In un gelido febbraio, in un luogo ostile (è ancora in piedi, nonostante le mie maledizioni), mi insinuai velocemente tra quelle pagine fredde.Rose Madder è uno di quei romanzi di attesa, dove sai che prima o poi il male arriva e, per quanto tu possa spettare, sai che è lì che ti attende nelle ultime 100 pagine.Il problema di Rose è che non esiste il solito bilanciamento di spazi sereni che lo contrastino.La vicenda è quasi inesorabile, il finale è lieto, ma scivola velocemente verso una senso di rassegnazione inaspettato.Non è comunque uno dei lavori più memorabili dello scrittore, secondo il sottoscritto.

 

Pochi mesi, dopo, passata la buriana (una delle tante), mi dedicai con stato d’animo più aperto alla lettura della Metà oscura (The Dark half, 1989).Il romanzo era stato edito nel 1989, poco dopo il periodo di crisi dello scrittore.Non so se anche per voi è lo stesso, ma mi viene istintivo associare dei colori ad un romanzo.Nove volte su dieci i colori sono quelli della copertina, che suggestionano la visualizzazione soggettiva. La metà oscura ha qualcosa invece di grigio.Soltanto dopo parecchio tempo venni a sapere che era troppo legato ai fatti personali dell’autore (da poco era stato scoperto che Richard Bachman era in realtà lui).Inoltre le cronache riportano una forte influenza della moglie Tabitha, anche lei scrittrice, su questo romanzo.Ahiahiahiahiahiahiahi, signora Longari.Non voglio fare l’anti Yoko Ono di turno, ma spesso quando una mente talentuosa si unisce ad una mente normale, il risultato si appiattisce, non certo verso l’alto.Come al solito un romanzo gradevole, per carità, scritto bene.Un romanzo che tuttavia non mi trasmise alcuna emozione.

 

La terra di mezzoE’ innegabile che esista una “terra di nessuno” nella quale King si muove tra la fine degli anni Ottanta e prosegue per tutti gli anni ’90.E’ come una lunga traversata nel deserto alla ricerca dell’oasi, dopo essere usciti da una terra rigogliosa.Lunghe strisce di quella sabbia arrivano fino ai giorni nostri, in maniera altalenante.Ci sarebbe da discutere assai su questa alternanza di risultati di King, troppo differenti tra di loro, non soltanto nei risultati ma nella vera e propria sostanza, quasi fossimo di fronte a due scrittori completamente diversi.Un esempio si ha nel 1996 quando King perviene alla sua unica oasi di quegli anni.Spesso il Re è alla ricerca di nuovi territori di sviluppo del romanzo, che escano dalla solita routine e l’idea di pubblicare un romanzo a puntate ottiene grande successo (il recente ebook Miglio 81 ne è un esempio).I libricini del Miglio verde (The Green Mile, 1996) escono una volta al mese ed hanno il pregio di tenere il lettore col fiato sospeso fino all’uscita successiva.Presto edito in edizione integrale, il Miglio esplora un territorio carcerario inesplorato in Shawshank redemption. Tutto fila, ne sarà tratto un famoso film, diretto dallo stesso Frank Darabont, il regista delle Ali della libertà.Dicevamo, tutto fila, forse troppo.C’è un filo di ridondanza fastidiosa nel film, che non si discosta quasi mai dal libro, una percezione di compiacimento buonistico hollywoodiano, che ti fa dire – Sì, bello…Non bellissimo.La differenza sta nel modo in cui il film tratta il finale, tacendo un particolare drammatico che fa quadrare particolarmente le cose nella versione narrativa.King è maestro nel trattare queste cose inaspettate, ma reali, capovolgendo l’etereità in dramma, magari raccontato in prima persona e, proprio grazie a questo, edulcorando le cose di un amarezza spesso disincantata.Ma, come detto, Il miglio verde fu l’unica oasi degli anni ’90.Almeno fino al 1999.

 

Pochi mesi dopo King diede alle stampe due libri.Uno col suo nome, Desperation (1997), l’altro col nome di Richard Bachman, I vendicatori, (The Regulators 1997).I romanzi avevano la particolare di essere speculari nelle copertine (ciò che era il retro di una diventava la principale dell’altra).Per quanto mi riguarda, lessi avidamente soltanto Desperation, romanzo che non ha lasciato in me alcun ricordo particolare, se non quello di essere un buon libro e niente più. Persino la trama è scivolata via dalla memoria, nello scrivere questa piccola analisi su King, sono dovuto ricorrere a internet per farmi tornare la trama alla memoria.Un King diverso, molto di mestiere, ma poco di magia, che sembrava non avere più molto da dire, notevole soltanto per essere diventato una vera e propria industria letteraria.Durante l’estate 1998 mi dedicai all’Ombra dello scorpione (The stand, 1978) il primo romanzo veramente lungo cdel Re.Dal momento che King mi aveva fatto innamorare  dei romanzi lunghi, mi ci gettai senza esitazione, sperando forse di trovare una genesi di It, speranza che andò tuttavia disillusa.Esiste una fortissima differenziazione tra i decenni kingiani.Lucido, spietato e inesorabile nei ’70, geniale e insuperato negli ’80, frenato e freddo nei ’90, doppio negli anni 2000.L’ombra dello scorpione è un romanzo di ampio respiro, dai personaggi freddi, ai quali è difficile affezionarsi. Si intravede ancora da distante la scintilla dell’umanità che accenderà la sua produzione anni ’80, ciò nonostante il romanzo ha già la sua struttura integra, dove ogni ingranaggio scatta al punto giusto per far progredire il lettore verso il finale, comunque non memorabile.Non è uno dei miei libri preferiti, ma è una gran bella lettura.

 

Negli stessi mesi mi dedicai alla lettura di Tommykockers - le creature del buio (The Tommykockers, 1987).Lungi dal farmi paura, il romanzo mi deluse abbastanza.Per sua ammissione, fu scritto nel periodo di tossicodipendenza dai farmaci e precedette la grossa crisi, o chiamiamola disintossicazione.Lo ricordo con fastidio, una vicenda per certi versi simile al successivo The dome, quasi come se una mano estranea ne avesse fortemente influenzato la scrittura.Vero? Non vero? Allora il dubbio non si poneva ancora.

 

Quando la parabola di King sembra ormai in decadenza, nel 1998 esce Mucchio d’ossa (Bag of bones, 1999) che giunge inaspettato.L’intera prima parte del romanzo è frizzante, spedita ed è capace di fare realmente paura.Coinvolgente finalmente in maniera quasi totale, sembra tuttavia risentire di una difficoltà ridondante, quasi King facesse fatica e stesse provando con difficoltà a riemergere verso il suo mondo. Una difficoltà tuttavia superabile.Tuttavia a tre quarti del romanzo capita qualcosa che spegne sul nascere ogni ulteriore desiderio di immedesimazione e coinvolgimento.Lo shock emotivo è troppo forte per non provare rabbia ed è questo il grosso limite di Mucchio d’ossa, che ne decreta la parola fine a tre quarti, mentre il finale, seppur perfetto, è pura rassegnata maniera.Nonostante un filo di rabbia, Mucchio d’ossa sembra il primo scalino di una capacità narrativa che, benché non sia venuta mai a mancare, è capace di coinvolgere nuovamente.Tant’è che dopo poco arriva il capolavoro.

 

HeartsNel 1999 esce Cuori in Atlantide (Hearts in Atlantis), che considero il capolavoro della maturità di King.Composto da 5 racconti semi indipendenti tra di loro (ma che in realtà non lo sono), sempre più brevi, quasi modulati su di un respiro affannoso, Cuori richiama la circolarità già dal titolo.Una circolarità nella quale il cerchio si chiude alla fine, nell’ultima pagina, di una bellezza quasi insostenibile tanto è semplice.Sottostimato da critica e lettori, che si stufano presto senza avere la pazienza di aspettare e di sintonizzarsi su questa strana vicenda, ne venne tratto un film, che mi fece arrabbiare moltissimo.Il film infatti fu costruito soltanto sul primo dei cinque racconti, che preso  a se stante perdeva il valore che aveva come componente della cinquina.Dubbi e interrogativi aperti alla fine del film vennero presto tacitati con qualche frettolosa chiusura di sceneggiatura.Chi vede questo film senza aver letto il libro non può non provare un senso di incompiutezza quasi fastidiosa.

Mucchio d’ossa e Cuori in Atlantide sembrano il portale su un nuovo periodo di genio, dove la maturità dell’artista si confonde alla voglia di conforto e all’eterna capacità di sognare.Chi può dire se sarebbe stato così.Le cose andarono in maniera diversa.

 

PatapumNel 1999 King sta effettuando la sua solita passeggiata quotidiana di sei miglia, nei dintorni di casa sua, nel Maine.Un uomo a bordo di un pick-up, distratto dal suo cane a bordo, lo prende in pieno.King ne esce più morto che vivo, serviranno mesi di ospedale.Sulle prime lo scrittore accetterà le scuse dell’investitore, poi cambierà idea e lo denuncerà perché gli sia tolta la patente come esempio.Non voglio pensare cosa possa essere capitato al poveruomo, per il quale provo una gran compassione.Si suiciderà dopo non molto.

 

E’ lui o non è lui?Estate 2008.Fa caldo, parecchio caldo.Giugno e luglio volano via sempre più veloci con gli anni.Il piacere di leggere un libro sta anche nella sua fisicità.Mi rigirò tra le mani questo libro dalla copertina colorata, un piacere da vedere.Ancora più piacevole sapere che si tratta dell’ultimo libro di King, Duma Key.Una storia tipica ma non lineare.Sofferta come è la sofferenza fisica del protagonista, dalla quale sono scaturiti altre sofferenze, sempre sobriamente trattenute.Spesso i suoi libri hanno inizio quando una separazione tra un uomo e una donna è già avvenuta (Mucchio d’ossa, Duma Key, 22/11/63) e l’autore è bravissimo nel far respirare le sensazioni tra una parola e l’altra.Nonostante la vicenda sia interessante, la scrittura è alle volte strascicata, si intuisce anche una certa difficoltà di traduzione nel rendere americanismi e modi di dire irritanti, ai quali l’autore si abbandona sempre più con frequenza.Modi di dire che risultano insulsi a noi che viviamo dall’altra parte del mondo, in quanto troppo distanti da una possibile identificazione, che hanno come risultato uno sbuffo e la ricerca di un aggancio nelle righe seguenti nel quale far proseguire l’attenzione.- Che palle – mormoro, ci risiamo.- Ma non voglio abbandonare il romanzo e proseguo testardo.

 

Non ho letto tutta la produzione di King, ve en sarete accorti.Per quello che vale, di alcuni  (Misery, Cose preziose) ho soltanto visto la versione cinematografica, altri semplicemente mancano dal mio curriculum. Mi rifiutai di leggere Cujo essendo venuto a conoscenza del finale, non ho mai letto Carrie (1976), Pet sematary (1983) e L‘incendiaria (Firestarter, 1982). E non mi azzardo neppure a seguire la sua saga fantasy, genere che proprio non fa per me.Tuttavia ho seguito con una certa costanza quasi tutta la produzione della maturità.Il rapporto con King negli anni 2000 è cominciato molto male.E’ una fredda giornata di fine estate quando esce L’acchiappasogni (Dreamcatcher, 2001) e lo compro con l’intenzione di divorarlo in una sola giornata.Sarà il primo libro del Re che abbandonerò.

 

Illeggibile, a tratti irritante.Il mio modesto parere non vuole essere universale.Il romanzo lascia presagire qualcosa, una possibilità grandiosa.Poi si avvita in un pozzo, nel quale è difficile comprendere la direzione.Per scoprirne il finale, dovrò guardarne l’orrenda versione cinematografica, insulsa e ridicola, a questo punto non so quanto per demerito della sceneggiatura, del romanzo, o dell’oggettivizzazione dei mostri.Terribile, una delusione spaventosa.

 

L’anno seguente cerco di rifarmi con La casa del buio (Black house – titolo che vuol forse fare il verso al Dickens della Bleak house), scritto con Peter Straub ed ideale prosecuzione de Il talismano (The Talisman) del 1984, ma il finale è più amaro che consolatorio e non lascia respiro ad una storia opprimente.L’anno seguente, a letto influenzato, ho l’opportunità per dedicarmi interamente alla lettura del nuovo lavoro di King senza che nessuno rompa las pelotas con interruzioni.Insomma, nonostante la botta di vita, termino Buick 8 (From a Buick 8, 2003) con la stessa espressione con la quale l’ho iniziato.Se prima era interrogativa speranza, ora ho soltanto una muta domanda.Un romanzo nel quale non capita assolutamente nulla.Una buona idea iniziale, suggestiva ed inquietante, che non va a solcare il terreno di Christine, come si poteva frettolosamente pensare. Poi però pagine e pagine a riempire una trama che non c’è, a parte qualche momento memorabile.La scrittura a tratti sembra strana.Sembra non sia neppure lui a scrivere, tanto era stato diverso il ritmo di Cuori in Atlantide.Non un libro orribile, ma un muto interrogativo.

 

Cosa ho scritto nella penultima riga?Sembra che non sia neppure lui a scrivere… uhm. La frase mi martella. Che sia un problema di traduzione? Non penso proprio.Eppure…Eppure il pensiero macina.Inoltre King nello stesso 2002 dichiara di volersi ritirare dalle pubblicazioni (non dallo scrivere), probabilmente ritenendo di non avere molto altro da dire.La dichiarazione getta nello sconforto, oltre alla massa di milioni di fedeli fans, anche e soprattutto il mercato dell’editoria, per il quale King è ormai un’industria.Non so cosa capiti, fatto sta che la decisione rientra.Ma anche questa è una cosa che fa macinare la mente e pone delle ambigue domande.

 

La parentesi di Tutto è fatidico (Everything’s eventual) del 1993, sembra rassicurarmi. Una raccolta di gradevoli racconti, tra i quali spiccano l’agghiacciante Autopsia 4, Il Virus della strada va a Nord, e soprattutto l’ottimo 1408, dal quale verrà tratto un ottimo film con John Cusack e Samuel L. Jackson.E’ il racconto della camera di albergo maledetta, dalla quale sembra impossibile fuggire.Uno dei pochi film nei quali l’oggettività non calpesta la soggettività, grazie anche a lievi variazioni rispetto alla trama del racconto, alcune azzeccate, altre pasticciate.Il sollievo di Tutto è fatidico però era relativo se si valutava il fatto che King aveva scritto questi racconti nel corso di anni, non nell‘ultimo periodo. Poteva essere considerata la riva ultima del suo scrivere?Compresi presto che la risposta era un NO sonante.

 

Colorado Kid mi fece saltare i nervi, letteralmente infuriare.Un libricino di una cinquantina di pagine, venduto a circa 8-10 euro.Una copertina intrigante.Un nuovo tentativo per King di uscire dalla routine romanzesca.Un cadavere ritrovato sul quale il lettore spera si faccia luce.Le pagine scorrono ed il mistero non si risolve.- Sarà un’idea geniale nell’ultima pagina - penso, povero ingenuo.Invece no.Il libricino termina, non solo senza che sia capitato alcunché, ma soprattutto senza soluzione.Per tacere dei soliti americanismi che sembreranno tanto geniali e simpatici oltreoceano, ma che da noi appaiono imbarazzanti (tipico esempio una maglietta sulla quale viene scritta una frase che a noi non dice un bel nulla).Insomma, quella volta la rabbia monta, e non poco.Sì, si può dibattere sul messaggio recondito, sulle reali motivazioni.Per me sono capricci da star, l’avesse fatto un povero diavolo sarebbe stato massacrato.Così comincia il mio periodo di rabbia verso il Re.

 

Nel 2006 esce The cell (Cell, 2006) e, per la prima volta dopo anni, non lo compro.- Stavolta non mi freghi - sussurro amaramente alla pila di libri, memore di quello che ho passato per Colorado Kid.Insomma, tengo il muso al Re, ma la cosa mi riesce male, perché a distanza di pochi mesi acquisto La storia di Lisey (Lisey's Story, 2006), sperando in una nuova trama che esca dai soliti canoni.Gesù.Comincio.Torno indietro.Ricomincio.Daccapo.A tutt’oggi è il romanzo di King per il quale provo più avversione.Illeggibile, arzigogolato e pesante, NON sembra scritto da lui, almeno all’inizio.Lo lascio, lo mollo lì dopo 150 pagine, ed è una sconfitta.Trovo veramente difficoltoso lo stile, la pedanteria nelle descrizioni fini a se stesse.Continuo a pormi la stessa domanda.

 

Ma veniamo all’estate 2008 e al nostro Duma Key.Ho ceduto ancora una volta all’acquisto, ho il tempo per sfidare il romanzo, che va avanti a stento.Diventa quasi una lotta, una sfida contro quel modo di scrivere pesante, che fatica a portare in giro le cose.Parto per le vacanze sul lago di Garda.Scrivo già per Toronews da più di un anno.Assieme al libro di King porto anche un bloc notes per eventuali idee, non si sa mai dovessi abbandonare anche questo romanzo.Sulle rive del lago riesco faticosamente ad arrivare a metà.TAC.Succede qualcosa.Alla metà esatta.La narrazione si fa improvvisamente magnetica.Il ritmo fluido, snello seppur dovizioso di avvenimenti e dettagli.E’ scattata una molla.Mancano un centinaio di pagine, quando sorrido, credendo di aver capito quello che è successo.Termino il libro in un bar, mancano 40 pagine e impongo alla compagnia di rimanere lì.- Non andiamo via da qui finché non ho finito! Non tollero interferenze!Cosa che avviene, col tempo cronologico oramai deformato.Un finale alla King, al quale non ero più abituato.Buono ma amaro, amaro ma dolce…- Ragazzi miei - dico ai miei amici sbuffanti, che hanno accettato i miei diktat - Questo romanzo è stato scritto da due persone distinte.Almeno da due.

 

Inutile negarlo, la lettura di Duma Key è stata una cartina di tornasole.Sarà una leggenda metropolitana alla quale ho finito col credere, ma spesso ho avuto l’impressione che a scrivere non fosse lui.E in Duma Key ne ho avuta quasi la certezza.Oppure la sensazione che le due parti siano state scritte in tempi molto distanti.Me lo immagino, si sarà anche rotto le scatole di scrivere, soprattutto dopo l’annuncio del 2002, miliardi o non miliardi.Magari sono tutte balle, ma può benissimo aver detto - Portatemi la vicenda fino qui, poi ci penso io…Chi lo sa, la moglie è scrittrice, uno dei figli mi sembra che lo sia…Forse sono solo illazioni.Per mettermi alla prova, tentai nuovamente di leggere La storia di Lisey, tornato a casa.Tentativo fallito per l’ennesima volta.Forse c’era qualcosa di vero.

 

Capita di nuovo.Attendo The dome (2009) con impazienza.Ma lo lascio ben prima della metà.Forse è l’impianto ad essere troppo complicato, forse la quantità di nomi da ricordare, se per caso trascorri due giorni senza leggerlo.O forse è eccessivamente sbilanciato verso i nuvoloni annunciati da troppe parti.Non sono il solo a pensarla così.Un mio amico fa a gara con se stesso per arrivare al fondo.E ci arriva stremato.

 

Insomma, il King degli anni 2000 viaggia su sottili strisce di terra fiorita in mezzo al deserto.Lembi che partono dai decenni precedenti, nei quali spesso ci imbattiamo.Quando decide di essere veramente lui a scrivere.Forse ne esiste un esempio recente.

 

La macchina del tempoHo cominciato a leggere il suo ultimo lavoro, 22/11/63, nel quale tratta l’argomento di un singolare viaggio nel tempo, nel tentativo di cambiare il corso della storia.Non voglio sbilanciarmi, ma, fino al punto in cui sono arrivato, rappresenta la sua opera migliore in 20 anni.Forse sarò smentito dai fatti nel proseguo della vicenda, e non mi importa.Ho però la sensazione che questa volta sia stato proprio lui a scrivere.Aggiungo una sensazione personale molto frammentaria, essendo ben lontano dal terminare il romanzo.22/11/63 ha il sapore del commiato.Ho colto diverse autocitazioni, alcuni personaggi dei romanzi precedenti… Sono nascosti, ma si possono individuare. C’è persino Christine, anche se King non la chiama mai per nome.E’ come se King avesse voluto radunarli tutti insieme, per una parata rombante…Sensazioni, nulla più.

 

C’è da aggiungere una cosa importante.Da Notte buia, niente stelle (Full dark, no stars, 2010), raccolta di quattro novelle, il traduttore storico, Tullio Dobner è stato “sostituito” da Wu Ming 1, teoricamente un collettivo di scrittori e traduttori bolognesi, più precisamente nella persona di Roberto Bui.Non so quanto questa discussa decisione possa avere influito sul risultato, fatto sta che 22/11/63 sembra davvero avere una marcia in più

 

Capace di portarci nei meandri delle nostre paure sapendole mascherare, e di dischiudere inaspettati momenti di bellezza quasi insostenibile, King può e deve essere considerato uno dei maggiori talenti letterari a cavallo tra la fine del 20° secolo e l’inizio del 21°.Solo il tempo potrà dirci se il Re avrà ancora voglia di percorrere quel lembo di terra rigoglioso sul quale sembra essere approdato ultimamente e costruirci sopra qualcosa che chiuda il cerchio con quella scintilla che fece respirare aria nuova, tanto tempo fa.

 

Chissà.Se lo chiede ancora quel teenager sul balcone. Mauro Saglietti