MARCO PERONI
mondo granata
Osytinato e contrario
C’è gente che in altri tempi si è ubriacata di sogni e ora smaltisce per i fatti suoi, si fa vedere un po’ di meno in giro. Uno è il mio amico fraterno Max: quando facevo il liceo era per me una specie di eroe (ma lo è ancor oggi), un professore a cui dare del tu, uno del Toro, uno che ogni sera partiva da Ivrea per darsi da fare in una piccola, tenace e tuttora viva radio torinese. Avevo diciassette anni, ero onorato di bere qualche birra con lui e non avrei abbandonato quel bancone per nessuna ragazza al mondo. Aspiravo stimoli e fumo e provavo a dire anche io la mia, ogni volta incoraggiato e rispettato: la prima volta che mi ha fatto entrare in casa ero rimasto catturato da quella discografia immensa, da quelle mensole cariche di libri, dall’intera collezione di Tex, da Zaccarelli appiccicato sul frigo e la copertina di un vinile incorniciata e appesa al muro… “Non conosci i Franti? Sono il gruppo più importante della scena indipendente italiana degli anni Ottanta! Stefano Giaccone, Lalli… Gente speciale, che non fa compromessi, gente tosta”… Per la verità tanta coerenza mi pareva un po’ sospetta. Sin da ragazzino non ho mai preso la cotta per la gente tutta d’un pezzo. Gente d’altri tempi, appunto: mi affascinavano quelli nel pallone, quelli pieni di contraddizioni, come sentivo che sarei più facilmente diventato io. Per di più, la sera che Max mi aveva messo su un disco dei Franti non è che avessi capito poi granché: così non eravamo più tornati sull’argomento. Anche se quell’espressione “gente speciale” si era fermata in qualche angolo dentro di me.Sono passati gli anni, i Novanta, e non è che l’Italia desse l’impressione di avere così a cuore complessità e radici, identità e memoria: l’abbattimento del Filadelfia era come il simbolo di un’irresistibile e più generale tentazione di dimenticare, di togliere qualsiasi ormeggio per andare alla deriva. Anche per questo, per stizza, avevo cominciato ad ascoltare anche altra musica e “riscoperto” Stefano Giaccone: che adesso pubblicava dischi da solista, riversava la sua voce in armonie da canzone senza perdere quella coerenza che finalmente adesso capivo anch’io. Sono andato a sentirlo per la prima volta proprio con il mio amico Max, in un piccolo locale di quelli in cui si consumano le nozze migliori fra voci ed accordi, doppio malto e parole.Un concerto che non dimenticherò: un uomo che cantava, prima che un cantante. Dell’attitudine “punk” era rimasta quella voglia di sfidare l’orecchio, di incrociare ogni melodia senza fermarsi, guardandola negli occhi ma passando avanti. Rimaneva quell’urgenza di dire qualcosa in faccia a qualcuno. Per tutti gli altri, per il grande pubblico, le grandi major avevano ben altre strategie (cito dagli studi di un sociologo: “videoclip per creare attorno alla star un immaginario distanti dalla realtà; per fingere una celebrità ancora non raggiunta; per suggerire un senso di comunità fra i componenti della band o fra essi e l’audience; per promuovere le fantasie sull’essere musicisti e confermare il fascino del divismo”…).
Ecco, adesso vorrei che le atmosfere, l’intensità e le persone che hai fotografato in Tras os Montes raggiungessero qualcuno in più. Se lo meritano le tue canzoni e se lo meritano le persone che sono arrivate alla fine di questa pagina. Per cui saluto tutti con le tue parole, e ti abbraccio:“E' a Torino che voglio tornare a vivere, perché da queste strade vengo e qui ancora, come a Londra, come a Barcellona o Belgrado, Roma o nella periferia più nera di Parigi, incontro gli eroi senza medaglia o bandiera, quelli che fanno ancora bello il mondo, con le loro parole, il loro vino, il loro lavoro e le loro storie. Alcune sono finite nel mio disco: spero di avergli reso giustizia”.Alla prossima, Marco
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