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mondo granata
Caro direttore, sono un giornalista di tgcom, uno dei tanti che a Mediaset è di granata vestito. Di solito non scrivo di sport ne' tanto meno di Toro, che ritengo una passione molto intima e personale. Per il centenario ho fatto un'eccezione, e mi piaceva comunicarlo alla migliore testata granata in circolazione. DOMENICO CATAGNANO"I cent'anni del giovane Toro" (da ) Difficile scrivere qualcosa che non si sia già scritto per questi cent'anni di Toro in questi cent'anni di Toro. Difficile cercare nuove sfaccettature in una diversità che nasce dal cuore, dalla passione più pura e ingenua, dall'istinto più che dalla ragione. E allora non resta che guardarsi dentro per capire come si è stati infettati da quello che Massimo Gramellini chiama il virus granata. Con un'avvertenza: questo è un'articolo scritto da tifoso, che in altre circostanze non sarebbe corretto, ma una ricorrenza così importante merita l'eccezione.Sono nato a 1670 chilometri e 300 metri dal Filadelfia (un tifoso granata si fa anche questi calcoli...), "isolato" dalla storia e dalla tradizione granata. Ma al di là della distanza geografica, ho cominciato a capire come girava il mondo (che poi altro non è che un pallone di dimensioni extra-large) in un feudo a strisce bianco-nero-rosso-azzurre. Il Toro era davvero lontano.Scavando nei ricordi, la "colpa" è delle figurine Panini. Mi innamorai subito del granata delle maglie, così sanguigno e diverso, come mi ispirava naturale simpatia la faccia un po' malinconica di Ciccio Graziani, con quelle sopracciglia in salita e l'aria da bonaccione. Graziani ai tempi del Toro era il "generoso", e come tale gli si perdonarono pure quei rigori decisivi sbagliati nelle finali di Coppa Italia. Altre storie, altro Ciccio.Era un bel Toro, quello, fresco di scudetto e vincente, ma la favola finì presto. E finì mentre io crescevo e cominciavo a sapere di Superga, di Valentino e del quarto d'ora granata, e poi di Meroni, quindi di Ferrini e del tremendismo, iniziavo a capire chi era (e chi è) Paolino Pulici, l'altro "Gemello del gol", in poche parole cos'era tutta la "granatitudine" e cosa vuol dire essere tifosi del Toro, di come la curva Maratona sia il dodicesimo uomo in campo. E di come 50mila tifosi siano capaci di scendere in piazza per "festeggiare" una retrocessione.Insomma, più la squadra negli anni si allontanava dalle vittorie, più cresceva l'affetto per quei colori, poi diventato amore. Sono un tifoso del Toro senza radici, mi piace considerarmi un predestinato. Poche soddisfazioni negli anni '80, legate a due derby (il 3-2 di Dossena-Bonesso-Torrisi in 3 minuti e 40 netti e un 2-1 sempre in rimonta con gol di Serena al 90° e con un Junior memorabile) e a un secondo posto più casuale che cercato. Pochissime negli anni '90 (la sedia di Mondonico in una finale Uefa vinta solo moralmente e una Coppa Italia rocambolesca conquistata battendo la Roma). Praticamente zero negli ultimi sei anni (a memoria il 3-3 nel derby della buca di Maspero e, a livello emotivo, le finali per tornare in A).Eppure lo spirito Toro rimane, quello per cui l'importante non è nè vincere e neanche partecipare ma esserci (il che non vuol dire che vincere non sia bello: sfigati sì, ma scemi no), per cui bisogna tirar fuori in ogni partita attributi e sudare, cose che servono sicuramente per battere l' "altra squadra di Torino", ma che si rendono necessarie anche contro il Pizzighettone.Toro metafora di vita e vitalità, simbolo di rinascita ma grande anche nella tragedia, "filosofia" a volte difficile da seguire ma alla lunga appagante. E basta così, perché è facile cadere nel trappolone della retorica.Cent'anni, ed è un bizzarro paradosso che a festeggiarli sia in realtà la società che è la più giovane tra quelle che contano, rinata giusto due estati fa dopo aver rischiato di sparire. Un paradosso che però racchiude l'essenza di questa festa: un secolo è passato, ma la storia proietta il Toro verso il futuro. Tanti auguri, cuore granata, tanto vecchio quanto giovane.
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