di Marco PeroniLo ammetto, sono uno dei tifosi che non avrebbe scommesso un centesimo sulla fortuna di Oscar Brevi in maglia granata. “Eccolo qua, il futuro della nostra difesa” pensavo mentre seguivo un allenamento in quel disgraziato...
Lo ammetto, sono uno dei tifosi che non avrebbe scommesso un centesimo sulla fortuna di Oscar Brevi in maglia granata. “Eccolo qua, il futuro della nostra difesa” pensavo mentre seguivo un allenamento in quel disgraziato agosto che tutti sappiamo. Finché una sera, davanti all’albergo dove respiravamo l’ultimo odore del Toro, un vecchio giornalista mi raccontò di questo giocatore che aveva rifiutato due anni di contratto per concludere da noi la carriera: così, distrattamente e pensando ad altro, ricoprii quel vecchio libero di stima e ritornai a preoccuparmi per quello che ci stava capitando. Ma le cose andarono per il meglio: non morimmo, affrontammo l’Albinoleffe con le stesse emozioni che ci provocò a suo tempo il Real e io abbandonai anche ogni perplessità tecnica agonistica sul nostro capitano. Avevo scoperto un giocatore vero, un lottatore tonico e virile: una persona capace di liberare emozioni che avevo provato soprattutto da giocatore (quel modo allo stesso tempo fiero e sobrio di intendere il ruolo di capitano ce l’aveva anche un mio vecchio compagno di squadra, impiegato nei feriali e stopper nei festivi, che usciva serenamente palla al piede anche quando in amichevole affrontavamo professionisti mille volte più allenati di noi). Oggi per me Brevi non è più una sorpresa, ma un piacere che si rinnova ogni volta: il suo calcio profuma ancora di provincia, di valori, di fatica e di radioline accese la domenica pomeriggio. Mi sembra d’averci giocato, con Brevi: non ho ricordi della sua faccia su un manifesto pubblicitario, né ho sentito la sua voce tra le tante mentre scappavo da inutili domeniche sportive dedicate a un rigore non dato al Milan. E quando lo guardo giocare, anticipare, staccare e rincorrere non ho la sensazione di essere spettatore di uno show, uno stupido pianetino nella galassia dei consumatori di calcio, ma un tifoso di una squadra particolare degnamente rappresentata dal suo capitano nel sacro rito della partita.Oscar Brevi (così come Ardito, del resto) era sul campo nel giorno che lo spirito granata ha avuto bisogno di uomini veri per reincarnarsi, per non morire e compiere degnamente i cento anni. Uomini che avessero ancora la passione dei ragazzini:
“Erano tredicenni da assalto: mettevano il calcio sopra ogni cosa. Il Dio del Calcio era il loro dio. E il Mister il suo profeta. L’estate macinavano polvere nel campetto di ghiaia. Appuntamento alle sette del mattino per la prima partita, e avanti fino a sera. Stava per cominciare la terza media, ma è soltanto un dettaglio. Era il calendario delle partite a scandire le tappe di un’avventura… era il calcio che si giocava allora. Bruciava nei loro sguardi, e li faceva uscire dagli spogliatoi con i borsoni in spalla, fieri come paracadutisti”.