mondo granata

Pink Floyd

Pink Floyd - immagine 1
di Mauro Saglietti
Redazione Toro News

Premessa. Per i pochi che non lo sapessero, i Pink Floyd furono la prima band ad adottare, per i loro spettacoli dal vivo, una diffusione del suono di tipo quadrifonica.In anticipo di oltre trent’anni sui cosiddetti 5.1 dolby stereo bla bla bla, i loro spettacoli erano concepiti affinché lo spettatore si trovasse esattamente all’interno della musica che non proveniva soltanto frontalmente, ma anche dai lati e posteriormente.Queste faceva sì che chi partecipava ai loro concerti, fosse pienamente coinvolto dalle canzoni, fino a trovarcisi in mezzo e diventarne parte attiva, il tutto sublimato con effetti visivi che riuscivano ogni volta a sorprendere.

 

 

n questi ormai quasi 5 anni di istantanee, ho affrontato più volte l’argomento Pink Floyd.All’inizio per ricordi personali legati al concerto di Torino del 6 luglio 1988, poi per la morte di Richard Wright, articolo che ha avuto anche una certa risonanza a livello nazionale e sui siti specializzati. Poi ancora per riferimenti legati al Toro e all’approssimarsi contemporaneo di un loro concerto (campionato 1987-1988), per i ricordi di un’estate legati ad un disco appena uscito, infine come reportage del recente concerto di Roger Waters che ha portato in giro The Wall per l’Europa, nella prima parte di quest’anno.I Pink Floyd dunque sono stati parte integrante della mia vita, un argomento che ha la stessa consistenza di quella che è stata la nostra passione per il Toro.Tremendamente simile, colonna di cemento armato, solida ed eterea allo stesso tempo, per molte delle nostre singole culture.Credevo di avere scritto abbastanza sull’argomento. In questo ultimo periodo però ho sentito il bisogno di scrivere qualcosa che fosse più globale.Beninteso, non che mettesse la parola finale e su un argomento che è ben lungi dall’essere risolto, ma che potesse mettere in fila una serie di riflessioni su quella che è stata la nostra vita, non solo musicale, quando ad un certo punto del cammino ti trovi a guardare indietro e scopri che, forse proprio grazie a quella musica, tutto può essere riletto sotto un’altra ottica.La storia dei Pink Floyd, come lo sono tante storie del Toro, è un po’ anche la nostra storia.

 

The music at the gates of life.Come comincia la passione?Quale è stato il momento in cui è scattata quella inesorabile e piacevole via del non ritorno?Un ascolto, una copertina, quattro chiacchiere, l’Hi-Fi del vicino?Qualcuno ricorda come è diventato del Toro?Molti di noi rispondono che lo si è sempre stati, impossibile definire con certezza una situazione. Inammissibile per la nostra mente, anche soltanto considerare un istante nel quale non lo si sia stati.Persino nei primi istanti incoscienti di vita.Forse tutti noi che ne siamo appassionati, siamo stati floydiani da sempre, inconsapevolmente catturati dalla stessa brezza d’acciaio, telepaticamente in sintonia e in contatto con note ed energia che dovevano ancora essere create, assai prima del tempo.

 

Mi piace pensare all’arte dei Pink Floyd come ad un esperienza multidimensionale, a un qualcosa non soltanto uditivo o polifonico e neppure soltanto visivo.Piuttosto come un insieme di sensazioni ed intuizioni sensoriali e temporali.La musica dei Floyd è talmente onnipresente che può confondere passato di ieri con futuro di oggi, miscelando i canali del tempo, come un impianto quadrifonico.Per questo credo che quanto creato, abbia non soltanto frantumato i concetti di canzone, così come erano conosciuti, ma anche quelli di tempo.Spero nessuno si offenda o spaventi, se dico che conoscevo il nome Pink Floyd prima di ascoltare la loro musica.Conoscevo il nome, e parlo della seconda metà degli anni Settanta, quando stavo per avvicinarmi alla decina, come un qualcosa di estremamente importante, che però si confondeva in mille altri nomi, sentiti nelle occasioni più disparate. Molti di noi hanno avuto un fratello maggiore che ci guardava con sdegno e ci insultava mentre ascoltavamo Heidi. Lui, sprezzante, aveva sotto il braccio la copertina di un disco scuro e cupo, che avrebbe potuto benissimo essere Animals, uscito l’anno precedente.Nel mio caso fu un vicino di casa, quindici anni più vecchio di me, appassionato di Patty Pravo fino al midollo, che tuttavia non disdegnava la musica veramente bella.Ehm, Patty mi perdoni.Lui, in discorsi fatti tra amici e parenti, fu il primo a parlarmi degli spettacoli dal vivo dei Pink Floyd, che si dicevano essere cose incredibili. Ma purtroppo lontane, riportate di rimando.I Floyd non suonavano in Italia, come molti altri gruppi importanti, in quegli anni che sapevano ancora di Palasport e di fumo.A parte a Pompei. Da soli, senza pubblico.Per quel film che, chi era stato in grado di vederlo, ricordava come un qualcosa di grandioso.Badate, erano anni in cui l’aggettivo non era stato ancora usurato.

 

Se questo fu il primo ricordo, temo proprio che la prima canzone nella quale mi imbattei possa essere stata la tanto conosciuta Another brick in the wall.Dico questo perché quando decisi di farmi furbo e di interessarmi di quell’universo variopinto, molti pezzi non mi sembrarono estranei. Parlo delle quattro note portanti di Shine on you crazy diamond e di One of these days.Ma tant’è.Diamo per scontato che sia stata Another brick in the wall. Del resto, che cosa potevo pretendere? Avevo undici anni e il mio canale di approvvigionamento musicale, come credo quella di molti altri, era l’Hit Parade di Foxy Jones al venerdì, ore 13, sostituito da Emilio Levi durante i mesi estivi.Di sicuro fu il mio primo loro disco, in quanto non mi feci sfuggire quel 45 giri così strano, che iniziava in modo diverso dal maestoso e geniale attacco presente sull’LP.

 

Come tante canzoni dei Floyd, Another brick in the wall assume vigore se collocata nel giusto contesto e nella corretta sequenza del Long Playing, come parte che rafforza il tutto e viceversa.Al contrario, se isolata, perde parte del proprio essere.Per questo il The best of, uscito qualche anno fa è stata a mio giudizio un’operazione deludente, come tentare di ridurre la Divina Commedia a un Greatest Hits dei canti di Dante.La parte aveva senso per il tutto, ripeto.E viceversa.

 

The Wall fu il primo LP vero e proprio dei Floyd che maneggiai. E questo ancora una volta grazie all’amico Pattypravesco. Il primo che ascoltai, seppur molto parzialmente dalle cuffie di un impianto rigorosamente Hi-Fi. All’epoca l’orgasmo uditivo.Che cos’era dunque quel disco strano, al quale mancava il titolo?E dov’era scritto che era dei Pink Floyd?Tutto mattoni bianchi. Mattoni su mattoni…E ancora, cosa rappresentavano quegli strani disegni all’interno? Perché i testi erano scritti con quella calligrafia incomprensibile?Era un disco doppio, cosa strana per chi viveva di 45 giri come me. L’oggetto LP era un qualcosa da “grandi ma non troppo”, la promessa di un futuro appena dietro l’angolo.Di quel periodo, ricordo la lotta serrata per il primo posto della Hit 33, tra The Wall, appunto, ed Innamorarsi alla mia età di Julio Iglesias (Orrore!!! Credo che il pubblico fosse nettamente diviso. Chi comprava l’uno non era certo tipo da comprare l’altro, e così via).Ricordo ancora un trafiletto di Claudio Cecchetto, perdonate la rima, che gestiva una piccola rubrica musicale su Sorrisi e Canzoni TV, all’epoca per fortuna non ancora Signorineggiante.Cecchetto difendeva il disco dei Floyd dai giudizzi di chi lo accusava di essere troppo costoso. Il noto DJ, allora ancora savio (ricordiamo che in meno di dieci anni avrebbe lanciato il Jovanotti di Gimme Five e Sei come la mia moto - Iglesias, dove sei?), sosteneva che si trattava comunque di un disco doppio e che comunque la musica dei Pink Floyd non era sfornata a ritmo continuo, ed era di qualità talmente superiore, da non poter essere soggetta a critiche.Niente da dire.Sarebbero passati ancora molti anni, prima di poter fare l’incontro definitivo e imboccare quella svolta.Una cosa era certa.Se i fratelli maggiori avevano potuto vivere i Floyd in contemporanea, la mia generazione e quelle ovviamente seguenti, già all’inizio della loro passione, subirono uno scarto temporale significativo.Valeva anche per altra musica, ma quello scarto era comunque l’indizio di un qualcosa che stava cominciando ad andare oltre il tempo.

 

Roger Waters in via Coppino 45.- Ma chi ca l’è ca urla?- A jè quaiche dun ca sta mal?- A jè ‘n monsù ca crija.- Omi poura dona. A sarà en lader?- Speruma mac ad no, madama, a l’è mej serese ‘n ti ca.- Dabun, madama, arvedse.

 

Il monsù in questione era Roger Waters e le protagoniste del dialogo, due anziane signore dello stabile di via Coppino 45, dove risiedevo.No, nessuno stava male e non c’erano ladri in giro. Le grida erano quelle di Roger Waters, quasi al termine di The Gunner’s dream, tratto da The Final cut, e provenivano dall’alloggio del Pattypraviano.Era il 1983. The final cut, l’ultimo disco dei Floyd con Waters, era uscito da poche ore, ed il mio amico lo stava facendo ascoltare a tutto Borgo Vittoria. Si dice che alcuni pezzi della Cascina Fossata abbiano cominciato a staccarsi allora.Preso da curiosità, mi feci registrare una cassetta, una “Scotch” (negli anni ‘80 diventavamo matti con le marche. Qualcuno ricorda le TDK al cromo, le Sony o le Maxell?) e durante quell’estate ascoltai il mio primo vero e proprio disco dei Floyd nel walkman rosso, tra Billy Jean di Michael Jackson ed Every breath you take dei Police, tra I like Chopin di Gazebo e Let’s dance di David Bowie.Ne fui rapito, anche se non ero in Sardegna.Ipnotizzato è la parola giusta.Sì, sapevo che quel disco parlava… della paura della guerra atomica… giusto o no? Qualcosa di simile, l’avevo sentito su Rai Stereo Due.Conoscevo anche a memoria Not now John, il pezzo più famoso.Ma non avevo la minima idea del significato profondo del disco, anche se mi sforzavo come un pazzo con l’inglese raffazzonato di quegli anni.Non occorreva comunque essere dei geni per afferrare il nome di Breznev, o per capire che quella Maggie ripetuta così tante volte (idea di Nick Mason), altri non era che la signora Thatcher.La cosa che mi colpì di più fu comunque l’atmosfera ipnotica, quasi fisica. Quasi si torcessero le budella per quell’esplosione liberatoria che non arriva mai nel disco, se non finalmente su

 

Or would you take me home?

 

di The final cut. Ed il respiro quasi si adattava a questa camminata oscura, a questa corsa frenata, al grido strozzato, poi liberato in modo struggente.Per lo scrivente The final cut è uno dei pezzi più belli dei Pink Floyd.Seguito poi dalla arrembante Not now John, liberatoria soltanto nel finale, quando Waters chiede

 

S’cusi dov’è il bar?

E’ scritto proprio così sui testi del disco, in realtà, lui lo pronuncia

Scuseeiiii dove il bar?

 

Non avevo ancora ben chiaro invece il significato delle poche parole che arrivavano quasi subito dopo.

Ohi! Where’s the fucking bar, John?

Quelle sì, liberatorie davvero

 

La muccaAscoltai quel nastro per un paio d’anni, facendo poca attenzione alle voci che davano il titolo del disco come un epitaffio non solo al sogno del Dopoguerra, ma anche alla storia musicale del quartetto britannico.In realtà Gilmour, stanco delle oppressioni di Waters, se ne era andato senza partecipare alla produzione del disco. Disco che vede malinconicamente l’assenza di Richard Wright, licenziato da Waters.Ma questo è andare oltre. In fondo era soltanto una cassetta strana e niente più.Poi un giorno capita.E ti accorgi che Via Chiesa della Salute è legata a doppio filo con i Pink Floyd.Perché è lì che tutto inizia, ed è lì che continuerà.Lì, quando ti rechi al solito negozietto, stanco forse di ascoltare Make it big degli Wham, benché musica decente. Lì ti dirigi il giorno che qualcosa ti dice di superare la soglia non soltanto del negozio.Lì vai senza idee ben precise.- Ha dei dischi dei Pink Floyd?Come andare dal panettiere a chiedere se per caso hanno pane.Da lì esci con un disco che ti ricorda una vecchia domanda di un quiz di Mike Bongiorno.. Aloooora? Mi sa fire che cosa è raffigurata sulla copertina di Atom heart mother dei Pink Floyd, eh?- Una mucca!- Risposta esattaaaaa!

 

E’ l’autunno del 1985, quando posi quel disco con l’etichetta gialla sul piatto.E’ stato registrato nel 1970, quindici anni prima.Basta quello per farti sentire strano.Che diamine stai facendo? Stai per ascoltare un disco fatto quando tu avevi due anni? Ma sei rincitrullito?Ti aspetti un qualcosa simile a The final cut, ma i primi suoni sono quelli di strumenti a fiato.- Ma… che roba è…?Non l’hai mai ascoltato, la delusione dura un attimo.Poi qualcosa ti dice che dietro quella musica strana, ci deve essere una trama. Un qualcosa.Poi parte il refrain. Così, senza saperlo, sei già stato catturato da uno dei talenti della band inglese.Quello della ripetizione di un ciclo di note, respiri, sensazioni, che diventa sempre più forte.La ripresa di una sequenza base, che si innalza e aumenta di corposità, tono e definizione, è una delle caratteristiche di tutta la prima parte della carriera dei Floyd e spesso sbuca qua e là nella produzione seguente.Come una biro che non scrive e che viene strofinata sulla carta con forza, lascia un piccolo tratto incolore.Tuttavia alle passate successive lascerà un tratto sempre più netto, che definirà se stesso nei medesimi margini e contorni della tenue linea iniziale.Atom heart mother, Echoes, A saucerful of secrets, Careful Wight that axe Eugene, ripercorrono il loro tema, coinvolgendoti in un girotondo mentale ed emozionale che quasi assecondi col respiro, o con movimenti della mente stessa, che, suggestionata da questo mantra, visualizza elementi che la mettano a proprio agio. Un po’ come era stato col desiderio frustrato di The final cut, e come sarà, in maniera ancora più sofferta con The pros and cons di hitch hicking, il primo disco solista di Waters, del 1984.

 

Vi potrà sembrare che questa storia vada al contrario, ma lo fa volutamente.Perché la tesi da dimostrare è che anche il tempo sia stata una delle componenti toccate e manipolate, probabilmente in modo involontario da Water, Glamour e soci.Il coinvolgimento, gli elementi onirici o universali, innalzano quasi sempre ad un piano della coscienza comune ed etereo, che poteva essere vent’anni fa, ma è più presente oggi di allora.Un piano dove le comune convenzioni musicali si annullano perché non più necessarie, comandate dalla musica interna che le note dei Floyd hanno messo in movimento.

Dunque Atom heart mother è tutto il contrario di quello che ti aspettavi, ma è anche il contrario di una delusione.Ventitre minuti di musica. Ma chi li faceva nel 1985? Pochi potevano imporsi o essere interessati a una cosa del genere.Si apre un contatto con un mondo differente, lontano eppure affascinante e pieno di segreti, non abbandonato.La seconda facciata suona più lontana nel tempo, con i suoi riferimenti precisi, ma ce ne si accorge più dal tipo di registrazione che per contenuti obsoleti.Anzi, Fat old sun diventa subito un piccolo classico, e così ti sembra strano, terribilmente strano che nessuno la conosca.Non so se anche a voi è capitato così, ma il piacere diventa voglia di divulgazione e condivisione.Non la condivisione minchiuta del mettere un qualcosa sulla bacheca di Facebook, per carità.La sensazione di una energia profonda da condividere, il desiderio di far parte di un gruppo di persone come te.Nessuno la prenda come una bestemmia, né da una parte né dall’altra, ma queste sono state a lungo le sensazioni dell’essere granata.Per questo dico che la musica dei Floyd era (ed è) capace di sollevarti ad un livello di coscienza comune.

 

Natale con i Floyd, Pasqua con chi vuoyd.E’ sempre il 1985, ma le tue attese sono andate frustrate.In pochi, tra i compagni di classe, hanno la minima idea di cosa sia Atom heart mother. E quei pochi amici valgono una fortuna.Così come lo scarto orizzontale, quello del tempo, nasce uno scarto verticale tra livelli, una sorta di incomunicabilità tra persone simili, di cui una si sente benedetta da un livello emozionale e cognitivo estremamente piacevole e vede chi non accetta o non ha desiderio di aprirsi verso tutto questo, come una sorta di alieno.Lo scarto dei Floyd comincia a definirsi come una quadrifonia, una polifonia dimensionale e non solo sonora, ma occorre tempo per definirla.Così, corri a comprare qualcos’altro.Qualcosa che si rivela essere un disco strano.A great collection of dance songs, una copertina ironica per un disco probabilmente uscito per esigenze commerciali,Una grande collezione di canzoni ballabili. Una raccolta, insomma.Già, dove in copertina due ballerini sono ancorati al terreno.Sì, perché i Pink Floyd non hanno mai fatto nulla di ballabile, grazie a Dio.Fai la conoscenza con quello che sarà il tuo futuro, e ti emozioni sulla versione, peraltro tagliata, di Shine on you crazy diamond.Money (ne hai sentito parlare tanto, che sarà mai?), ti delude. Infatti non è lei. E’ una versione reincisa senza cuore, per esigenze di casa discografica (i Floyd avevano cambiato l’etichetta americana).E poi conosci Wish you were here. Il primo di una serie sterminata di ascolti.Ma, come detto, i pezzi sciolti non definiscono l’insieme.

 

Questa tua passione scoppia, diventa una magnifica ossessione, Rock Hudson riposi in pace.Ne parli in giro e così, a Natale, scopri che il Pattypraviano e i suoi amici ti hanno regalato ben tre dischi dei Pink.Tre dischi!Anzi, quattro, perché uno è doppio.Meddle, Animals e Ummagumma!La tua storia dei Floyd nasce così, alla rinfusa perché devi recuperare il tempo, anche se forse stai correndo sul posto.Quello è il presente di quella musica, così come lo è stato sedici anni prima.

 

Non c’è Wikipedia, le uniche informazioni sono le date di pubblicazioni dei dischi.Al limite qualche libro, ma in giro non c’è molto.Più che una storia cronologica, devi ricostruire una storia emozionale.Così, per assurdo, fai la loro conoscenza a partire dal più recente, quell’Animals tetro e rabbioso, che ascolterai all’infinito nei mesi a venire.

 

Hey you, whitehouseAh ah, charade you are

 

Impossibile non muovere il capo ritmando il respiro che non scarica energia di Pigs (three different ones). Che poi si libera anch’esso nella rabbiosa distorsione di Gilmour, trattenuta ad oltranza, mentre tutto digrada verso i belati delle pecore.Animals, come si scoprirà in seguito, è stato concepito ben prima del 1977, inoltre Dogs e Sheep sono stati eseguiti a lungo, con altri nomi in pubblico. E’ un disco rabbioso, sarcastico, disilluso, eppure riesce a coinvolgere anche il lato oscuro della tua anima , fino a far diventare una necessità il riascolto, per scrostare le zone di rabbia e diventare un tutt’uno non soltanto con la musica.Ciò che credo più suggestivo della musica dei Pink Floyd non è soltanto la capacità suggestiva multidimensionale, ma anche la capacità identificativa con un suono se non con o strumento che lo produce o con la rabbiosa onda sonora che ne esce.Altro tassello di questa indefinibile esperienza multimediale.

 

Meddle è il disco più sorprendente della terna natalizia. Speculare rispetto ad Atom heart mother, è datato 1971, un anno dopo il disco della mucca.Se per certi versi One of these days è un esercizio mentale che potrebbe durare all’infinito, brano transitorio da un certo tipo di produzione e ciò che seguirà, quando la puntina cade su Echoes, forse non immagini che stai per ascoltare un qualcosa destinato a stupirti.Non musica, ma materia, che aggiorna se stessa ad ogni ascolto. Un elemento preparatorio dell’atmosfera, onirica.Si parla di immagini eteree, di albatros immobili sull’aria, di io che sono te e vedo me.L’organo Farfisa di Wright è il marchio di fabbrica di una composizione cangiante, tetra e solare, rabbiosa e malinconica, il cui refrain si definisce ancora una volta su se stesso.La descrizione di un solco, un microsolco che diventa sempre più definito.

 

Occorreranno anni per capire Ummagumma del 1969, che sul momentoquasi ti spaventa. Lo accantonerai per un po’ di tempo, risparmiando soltanto la meraviglia che ti si apre alle orecchie e che chiude la facciata due del primo disco (il primo è dal vivo, il secondo in studio, con ogni componente dei Floyd che elabora una parte solista o quasi).Tua madre grida chiedendoti che roba sia questa, lei che ascoltava anche Iglesias, mentre tu fai cenno di tacere e sai che il caos di A saucerful of secrets ti deve portare da qualche parte.E così è. Quando Wright attacca le note del piano, vieni trasportato in ogni luogo e da nessuna parte.Quali sono le suggestioni di quegli accordi finalmente definiti, dopo la confusione iniziale’L’inferno e il Paradiso, le due parti di A saucerful of secrets si definiscono per contrasto ed hanno bisogno l’una dell’altra per coesistere.Che cos’è quello che gira sul piatto? Futuro? Rimorso per un qualcosa di lontano?Cos’è? Il 1969? Il 1985? O adesso? O sempre?

 

Barrett e l’assenza.Col passare dei mesi la sete si fa arsura e nella tua rete cascano anche due LP che in realtà sono dei capolavori.Wish you were here, ad esempio.Metallico, freddo, scuro, solare, bianco, liquido, struggente.Acciaio liquido e ghiaccio bollente.Per lo scrivente è il loro disco più bello.Il momento di massima lucidità, la sommità del colle, la cima della sfera del tempo.

 

Dark side ti colpisce per la sua completezza ed il calore che emana, moneta coniata di nuovo ad ogni ascolto. Per la prima volta il testo di Time sembra, nella sua disperazione, mettere insieme un percorso cronologico che vada da un inizio a una fine in linea temporale.E’ una freccia che va da sinistra a destra per chi legge, ma non ci è dato sapere il suo termine. Perché si estende, da allora, fino ad oggi, nella sua attualità.La linea retta definisce gli infiniti puntini, ascoltatori che l’hanno ascoltata e si sono rispecchiati in essa.E’ soltanto una delle tante frecce direzionali dei Floyd.Altre la incrociano, altre la contrastano, altre lasciano intendere soltanto il presente.Dark Side, si è già detto di tutto, questa non è una storia in senso classico e nozionista.Finalmente puoi ascoltare Money nel modo in cui era stata concepita. Quasi un mostro sacro della loro musica, basata sui tesi sarcastici di un Waters sempre più sicuro nel mescolare parole e rabbie.

 

Sono dunque i primi mesi del 1986.Ora sai chi sono i Pink Floyd, non parli d’altro.E finalmente trovi un libro, che ti aiuti a mettere ordine.Barrett? Chi era costui? Lo puoi scoprire soltanto acquistando The piper at the gates of dawn, il primo album dei Pink Floyd, datato 1967, senza David Gilmour, non ancora subentrato al leader di allora, quel Syd Barrett che, lui sì, danzò davvero una sola estate.Ma qualcosa stecca improvvisamente.Quel disco ti sembra estraneo.Roger Waters ha dichiarato che i Pink Floyd non avrebbero mai potuto essere quello che sono diventati senza Barrett. Ma, alo stesso tempo, con lui nella band, non avrebbero mai potuto diventarlo.

 

Esiste buona parte della critica floydiana che tende ad attribuire a Barrett e alla sua follia, ogni dettaglio della carriera successiva dei Floyd, sull’onda emotiva del fatto che Wish you were here fosse stato dedicato al loro fondatore. E che le canzoni parlino proprio di questa “mancanza”, Lo stesso Barrett si presentò, irriconoscibile, alle registrazioni di Wish you were here. L’ultima volta in cui i suoi amici lo videro.Non sono d’accordo su questo punto, forse perché ho sempre avvertito una cesura netta tra The Piper at the gates of dawn ed il resto della produzione.Faccio fatica a trasporre nel tempo la definizione di ogni disco della band come scatenato da un effetto domino dovuto all’improvvisa follia e all’abbandono forzato di Barrett.Mentre mi viene molto più facile collocare quello splendido disco su un piano che, partendo dal particolare Barrett vada ad innestarsi sui meccanismi sovra mediali scatenati da quel tipo di musica.Ragioniamo, Wish you were here è del 1975, i Floyd sono all’apice del successo, anche se le prime tensioni covano. Certo, c’è il rifiuto dell’industria discografica grassa e ignorante, il desiderio di tempi meno caotici, ma non credo che il rimpianto di Barrett potesse così, di punto in bianco perforare anni di un percorso ben definito, che da lui si era completamente staccato.La genialità dell’album e delle sue tematiche nasce dal fatto che la tristezza si perda anch’essa nel tempo. E si definisca non come rimpianto per un passato, ma per il suo opposto, per quello che sarà.Riflettiamo ancora. Chi è che si è perso? L’ascoltatore attuale o Barrett?A chi sta parlando Waters quando implora di risplendere nuovamente?

You reached for the secret too soonYou cried for the moon

 

Davvero, chi è il destinatario dei questi versi?Il ragazzo di allora che sognava su musica malinconica che non poteva percepire, o lui stesso diventato uomo, straniato e impazzito in un mondo che non gli ha lasciato scampo.Wish you were here è rimpianto per quello che oggi c’è e domani non ci sarà più. Era un vorrei che tu fossi qui riferito alle cose perse, spazzate dal vento, non a un passato epico e bucolico, ma alla percezione del futuro, che si sarebbe portato via il presente pieno di allora.

 

Running over the same old round, what have we found?The same old fears, wish you were here

 

E’ la percezione lucida e terribile della fine di un’epoca, è il tempo dei Floyd che ancora una volta si ripiega su se stesso, perdendo ancora una volta le connotazioni ed i punti di riferimento.O forse, vorrei che tu fossi qui, in questa sorta di coscienza comune, dove riuscivi a rifugiarti, mentre ora non ce la fai più.Risplendi ancora pazzo diamante.

 Sulle ali della notte, mentre il tempo si accorciaDopo Dark Side, all’inizio del 1986 acquisti The Wall.E’ il disco che senti la domenica mattina, prima di andare allo stadio. Forse allora cominci ad avvertire un legame sempre più forte tra le varie componenti della tua esistenza, e la realtà, anche granata che ti circonda.Eppure, nonostante tutto, lo scarto temporale rimane.The Wall sembra attuale, potrebbe essere stato inciso pochi giorni prima.O ai nostri giorni.Eppure è del 1979 e ti trovi costretto a rincorrere ancora una volta un qualcosa che è avvenuto prima, per rendere pieno il presente.Quasi ti tornano alla mente le parole di Time

 

And you run, you run,To catch up Wight the sun, But It’s sinking,Racing around to come up behind you again…

 

The Wall è stato l’ultimo sussulto degli anni ’70, forse assieme ad un altro LP, che fece ribollire d’orgoglio una strana stagione: Breakfast in America dei Supertramp.Dopo aver stravolto le canzoni, alla fine degli anni ‘60, dilaniandone tempo, durata, e canoni classici, Waters in particolare, si ritrae all’estremo opposto, rinsecchendo e spiazzando i grandi respiri, permeandoli di poesia triste e arrabbiata.Anche The Wall non può avere episodi da esaminare in solitudine, benché Comfortably numb, nelle versioni dal vivo rappresenti qualcosa di simile all’orgasmo cerebrale.

 

Quando hai finito la tua folle corsa per acciuffare un sole che vedi tramontare, ma che poi si riaffaccia verso di te, il tempo finalmente si mette al pari con se stesso.Via Chiesa della Salute, ho già scritto di questo in un’altra Istantanea.Lasciato da una ragazza pochi giorni prima, la forza soltanto di camminare.E di guardare all’interno di un negozio di dischi.A momentary lapse of reason - Pink Floyd.Un disco nuovo… non lo sapevo.La vita che rifluisce. Brutta zoccola, chi se ne frega di te.Per anni ho continuato a ripetermi che non mi importava nulla che Waters non ci fosse.Non importava allora e non importa adessoQuel disco aveva senso in quel tempo, il tempo del presente e della raccolta.

 

A momentary lapse of reason, del 1987 è fondamentalmente un disco di Gilmour, in quanto il rientrante Wright e Mason ebbero l’opportunità di suonare quasi zero.Ciò non toglie che sull’Astoria, il battello galleggiante di Gilmour, adibito a studio di registrazione, nasca la bellissima On the turning away e una nuova voglia di volo, indefinito, forse ancora multidimesionale.Per assurdo questo disco è il disco del respiro e della coscienza, il più unito agli effetti roboanti del tour, ma troppo legato ad essi per superarli.Grazie ad esso, milioni di persone ebbero l’opportunità di vedere e ascoltare dal vivo la musica che avevano sempre desiderato.

 

L’erba era più verdeUn attimo di respiro, poi una nuova malinconia, quella che sottintende la pacatezza di The division bell, del 1994.Per molti versi uno dei miei dischi preferiti, di sicuro il migliore del post Waters.A ben vedere soltanto lui manca in questo capolavoro, che si chiude ancora una volta sulle note di una canzone che parla di rimpianti.

 

The grass was greenerThe light was brighter

 

Forse non provavo tanta malinconia al momento dell’uscita di High Hopes, quanta ne avverto adesso.E allora cos’era? Un nuovo rimpianto proiettato non in quello che era passato, ma in quello che sarebbe diventato futuro?Non è un caso.Non è un caso che le ultime parole di una canzone ufficiale dei Pink Floyd siano state

 

Forever and ever.

 

EclipseIl resto è storia recente.Ed anche io posso finalmente parlare di me stesso al presente.Nel 2008 se ne va Rick Wright, sono stato fortunato a vederlo suonare con Gilmour in Piazza San Marco, a Venezia, nel 2006.E fortunato chi li vide a Londra, tutti e quattro di nuovo insieme, al Live 8.Poco dopo se ne va Syd, senza lasciare altre tracce o testimonianze di quello che fu.L’ultima immagine arriva da Londra, con i tre Floyd rimasti, al termine dello spettacolo di Waters, ritrovatisi tutti assieme, ancora una volta, fuori dal muro.Mi sono commosso quando ho visto il video su You Tube,

 

ConclusioniSiamo stati fortunati.Siamo stati fortunati a vivere quello che abbiamo vissuto, inseguendo un tempo che non c’era, protagonisti ed oggetto di una esperienza sensoriale e cognitiva.I Pink Floyd non giunsero a caso.Non erano extraterrestri, ma ragazzi giusti al momento giusto.Probabilmente, come ho letto da qualche parte, la conoscenza dei propri limiti li portò non solo a superarli, ma a sgretolarli.Seppero cogliere l’energia e lo spirito di un tempo, che non a caso è coinciso con il periodo di massima apertura mentale della nostra civiltà, facendolo proprio, incanalandolo in un’esperienza non solo quadrifonica, ma multisensoriale, che è ancora lì.Un’astronave per il paese del tutto e del niente che ci aspetta.Perché, estremo colpo di scena del ripiegarsi del tempo su se stesso, quelle note son sempre le stesse.Siamo forse invecchiati noi, ma quella musica mi sembra più recente dei miei stessi ricordi, forse beneficiaria di quell’energia che l’ha cerata e la rigenera.I Pink Floyd sono apertura di mente, introspezione, acquisizione di possibilità di interpretare situazioni.In questi tempi di sgretolamento, forse possono darci sollievo, ricordandoci ed insegnandoci ancora una volta un livello di coscienza comune.Forse.Forse sarà così.

 

E oggi?Il problema non credo sia tanto far comprendere la loro musica a chi ne fosse interessato.Credo che sia un problema di strumenti spuntati, che purtroppo molti componenti delle nuove generazioni si trovano ad avere.Per questo, come tutti i discorsi che portano ad una certa indipendenza mentale e di ragionamento, le ali sono state tarpate da società e mezzi di comunicazione che hanno costruito su misura alucce di cera, al posto delle solide sulle quali si poteva learn to fly, per poi spiccare il volo.Alucce icariane in miniatura, camuffate da ali di falco, incapaci anche solo di saltellare verso il sole, piuttosto che alzarsi in volo verso di esso.Perché tu puoi fare tutti i bei discorsi che vuoi, ma quando ti trovi di fronte ad un truzzo che  ascolta i Modà….Che gli dici?Cosa ti inventi?Che tu al cantante dei Modà daresti fuoco?Come se fosse l’uomo a destra della copertina di Wish you were here, ma lo lasceresti consumare, altro che tuta d’amianto?Non resta che affidarci a quella musica ancora una volta, e al tempo, amici, sperando che si ripieghi ancora una volta su se stesso. Mauro Saglietti

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